Gian Maria Volontè, già coi capelli bianchi, interpreta un medico che ritorna a casa, a Bruges, dopo aver vagato per l'Europa per non essere processato dall'Inquisizione.
purtroppo l'Inquisizione non dimentica e Zenone è destinato a una brutta fine.
un film non male, ma è come una versione light di quel capolavoro che è Giordano Bruno - Ismaele
…Nel film
ci sono evidenti limiti di sceneggiatura, che sono assolutamente compensati
dalla straordinaria interpretazione di Gian Maria Volontè, che, da sessantenne,
dimostra tutto il suo equilibrio e la sua bravura nel costruire un personaggio
perfetto, calato in maniera strabiliante nella realtà di quel tempo, tanto da
meritare il Nastro d’argento quale migliore attore protagonista. Volontè offre
una interpretazione matura ed elegante, di un personaggio malinconico e
raffinato; L’opera al nero che è in grado di vedere lontano ove la cultura e
la ricerca possono arrivare, ma che anche si rende conto che il presente non
offre scappatoie per gli spiriti liberi. Altro limite del film è dato dalla
scarsa informazione che esso ci offre della vita e della formazione di Zenone,
prima dell’arrivo a Bruges. Si tratta di una scelta discutibile del regista,
che evidentemente intendeva concentrare la narrazione del film esclusivamente
sull’ultima parte della vita del protagonista. E in verità i pochi flashback
non rendono ragione di queste esigenze che, se adeguatamente soddisfatte,
indubbiamente avrebbero arricchito il film di elementi biografici e culturali
di sicuro interesse nella costruzione della personalità del protagonista.
Diverso respiro ha il romanzo, che offre effettivamente un quadro ricco e
completo non solo della formazione di Zenone, ma anche e soprattutto delle
articolazioni della società del suo tempo e della contraddittoria ricchezza
delle varie stratificazioni sociali presenti. Nel cast troviamo alcuni nomi importanti, quali la godardiana Anna
Karina, Sami Frey, e Philippe Leotard, tutti però sovrastati dalla bravura
straordinaria di Gian Maria Volontè, che nell’ultima scena del film ci offre un
nuovo imperdibile saggio di bravura.
…ho guardato il film di Delvaux con più attenzione, ma
l'ho trovato noioso, mal realizzato e sicuramente inferiore al modello
letterario a cui si ispira. Il romanzo di Marguerite Yourcenar è volutamente
costruito su una bipartizione: la prima parte è dedicata alla "vita
errante" del protagonista e segue velocemente le tappe della sua esistenza
fino alla maturità. La seconda, invece, è dedicata al suo ritorno a Brugge,
sotto le mentite spoglie del medico Sébastien Theus, ricercato
dall'Inquisizione per eresia. Questa parte è tanto lenta e "immobile"
quanto è veloce e intensa la prima, in cui gli scenari mutano rapidamente, anni
ed eventi vengono condensati in poche pagine, numerosi personaggi appaiono e
scompaiono. Il film, invece, si concentra sulla seconda parte – non a caso,
credo, è uscito nel Belgio fiammingo con il titolo De terugkeer naar Brugge (Il ritorno a Brugge) –
e in scena vediamo subito uno Zénon anziano, che opera in clandestinità come
medico finché non viene smascherato, processato e condannato a una morte a cui
si sottrae solo suicidandosi la sera prima dell'esecuzione. Alcuni episodi
della prima parte vengono recuperati attraverso una serie di flashback montati
nel corpo principale del film. E questo è il primo problema: gli eventi sono
così tanti che sceglierne solo alcuni e mostrarli nel corso del film
compromette la comprensione della storia. Mentre guardavo il film mi sono
chiesto più volte se avrei capito davvero quello che stava accadendo se non
avessi già letto il libro e non ne avessi conosciuto la trama. Probabilmente
no. A questo si aggiunga la recitazione di Gian Maria Volonté. La custodia del
dvd riporta un giudizio del critico Morando Morandini, che elogia l'attore
italiano. In realtà Volonté non fa altro che bofonchiare, borbottare e
sussurrare per tutto il film, tanto da rendere incomprensibile quello che dice,
unico tra i vari personaggi. Chiunque mi sarei immaginato nella parte di Zénon
ma non lui – e del resto questo è il classico problema che affligge le
trasposizioni cinematografiche delle nostre opere letterarie preferite…
in paesi
oggi quasi senza bambini (qui e qui),
un tempo, quando i bambini c'erano, e morivano (la sanità era peggiore di
quella di adesso), la colpa era delle surbiles, donne vampire che uccidevano i
bambini.
non erano vampire da sempre e per sempre, si
trattava di una mutazione temporanea che poteva capitare a qualsiasi donna.
l'opera di Giovanni Columbu è praticamente
un mockumentary, uno di quei film nei quali
documentario e finzione si alternano e si sovrappongono.
interviste e visioni notturne
del paese, illuminate da qualche cinepresa dell'espressionismo tedesco, una
donna vaga di casa in casa, ma non può entrare, ma se è una surbile può, se
nella casa sono distratti.
non erano certo amate, ma si
provava pena per loro, un altro continente rispetto a quello delle streghe di
Salem.
film di donne, pieno di
segreti, uno può non crederci, alle surbiles, ma la falce con troppi denti è
meglio appenderla.
un film molto diverso da Su
Re (qui si può vedere e rivedere quel grandissimo
film), e magari minore, ma Giovanni Columbu fa solo film molto belli o
straordinari.
Surbiles è
da non perdere, credo sia il primo mockumentary
sardo, se così non fosse mi corrigerete.
beato chi riesce a vederlo al
cinema.
buona visione - Ismaele
Il Wagner
nel suo libro “La Vita Rustica” a pagina 126 dice che :
<sas
Surbiles erano specie di Vampiri, uomini o donne, che venuti al mondo
con
una codina d’acciaio, succhiavano il sangue dei neonati e per difendersi
da
loro bisognava mettere in casa la falce con la punta e i denti all’insù
(a
pikku a susu) possibilmente sistemandola sopra il contenitore del grano
che
così veniva preservato dall’attacco degli insetti (punteruolo del grano).
Di
notte queste Surbiles, trasformate
in bestie, andavano nelle case dove
c’erano bambini piccoli ma erano
fermate dalla falce di cui s’intrattenevano
a contare i denti (circa 600); ma poiché
esse erano in grado di contare solo sino
a sette, ricominciavano sempre da capo
sino a che l’alba le costringeva alla fuga
per non rischiare di rimanere incenerite
prima di ritrasformarsi in persone>.
…Los cuatro capítulos en los que se divide la ficción
(protagonizados por rostros y desvelos divergentes) se unirán en la secuencia
que cerrará el film. La exhibición de una ceremonia sagrada alrededor de una
hoguera en la mitad de la noche, protagonizada por los semblantes de los
personajes que emergieron en los minutos anteriores. Danzando y lanzando
cánticos en idioma sardo. Mayores y niños. Todos unidos para conmemorar su
alianza frente al eje del mal. Una guinda para un pastel extraño, no apto para
todos los estómagos. Que prefiere el tedio y la observación a lo trepidante.
Que no hace ascos a mezclar realidad con ficción de un modo azaroso y
subyugante. Que finalmente no escoge su territorio principal, caminando por
senderos por tanto empantanados y peligrosos. Una cinta turbadora y alternativa
que hará las delicias de los fanáticos del cine más subterráneo y subversivo.
…Columbu si muove in parte secondo i dettami del documentario
etnografico più austero. Penetra nei piccoli paesi, nelle case, interpella
perlopiù donne anziane facendosi dire le fosche storie-leggende creciute
intorno alla figura delle surbiles. Molte delle chiamiamole testimoni si
rifiutano però di parlare, blindate in un’omertà dettata dalla paura (rivelare
gli arcana è una colpa? attira su chi lo fa il male?). E quei racconti, quelle
testimonianze, li mette in scena. Con una prima sequenza formidabile, una
giovane donna sospettata di stregoneria che vaga di notte bussando, chiedendo
aiuto, senza che nessuno le apra. Seguono episodi ben più drammatici e foschi.
Bambini su cui è caduto il malefizio e che rischiano la morte. Surbiles che
fuoriescono dal proprio corpo per invadere ectoplasmaticamente il villaggio, le
strade, le case. Una specie di sabba di surbiles e loro seguaci (scena
meravigliosa). Lo sguardo di Columbu è di pura osservazione, mai giudicante, e
non può non ricordarci quello delle fondamentali ricerche anni Cinquanta
dell’antropologo Ernesto De Martino sui riti magici e di possessione del Sud
italiano (soprattutto in Lucania). Ricerche che già ispirarono al cinema Il demonio di Brunello Rondi e Arcana di Giulio Questi-Kim Arcalli. A incantare in Surbiles è
quella cultura contadina impregnata di pensiero magico cui Columbu si (ci)
avvicina con un rispetto che evoca il migliore Olmi, anche se qui siamo lontani
geograficamente e culturalmente dalla bassa bergamasca profondo-cattolica dell’Albero degli zoccoli. Come non restare folgorati da
quelle case linde e ordinate di un’austera e perduta premodernità, da quei modi
alieni dalla sovreccitazione del nostro tempo. Inquadrature immobili,
contemplative, a catturare il tempo lungo e circolare del mito. Silenzi, da un
altro mondo e da un altro cinema. Mai come in questo caso la locuzione civiltà
contadina sembra acquistare un senso. E però, pur affascinandoci con quel
lindore, con quella pulizia di segni, Columbu va anche a esplorare il lato
oscuro di quel microcosmo, la paranoica leggenda collettiva delle surbiles
intrisa di inquietanti pulsioni alla caccia al diverso, al capro espiatorio.
Alle streghe. Ed è forse per attenuare questo senso di allarme che nell’ultimo
episodio Columbu cerca di consegnarci un’immagine più addolcita delle
(presunte) creature del male, come a voler prendere le distanze dalla paranoica
leggenda. Pur oscillando ambiguamente tra fascinazione del pensiero magico e
coscienza dei suoi rischi, delle sue deviazioni, Surbiles resta un film indispensabile. Bisogna
che circoli, venga visto il più possibile. E sarebbe somma ingiustizia
continuare a ignorare Columbu, ormai da collocare tra i nostri maggiori
cineasti indipendenti (e, per ritrovare nobili genealogie, non si può non
pensare, dopo Surbiles, non solo a Olmi ma anche
al Vittorio De Seta di Banditi a Orgosolo).
Anche qui, come nel caso di Easy, si rimpiange
che Surbiles non sia stato messo nel Concorso
Internazionale o almeno in una sezione più visibile della molto interessante ma
anche elitaria Signs of Life. E adesso, per favore, date a Columbu un budget
adeguato per un grande film…
…Columbu filme ses épisodes avec une économie de moyens
absolue, utilisant la temporalité nocturne pour resserrer sa palette autour du
noir et des couleurs ocre des lumières et des murs. Chaque affrontement fait
l’occasion d’une mise en situation de ses acteurs non professionnels (à
l’exception d’une jeune femme jouée par… sa fille !), dont il se révèle un
portraitiste exceptionnel. Le réalisateur filme tous ses personnages comme en
tangente, leurs visages tranchant l’écran en diagonales marquant leurs affrontements,
tandis que derrière eux se déploient les espaces du village s’évanouissant dans
la pénombre. Le son rappele au spectateur le hors-champ où rôde le danger,
définissant toujours celle-ci selon le point de vue du personnage filmé (les
voix des villageois agressifs pour la jeune surbile dans la
scène d'ouverture, la surbile cachée derrière la porte pour
les enfants terrés à l'intérieur...). Dans une des scènes clés, une
surimpression suffit, comme dans le Vampyre de Dreyer, à faire
basculer un des personnages dans le monde de l’affrontement avec les morts.
Comme chez Dreyer aussi, le récit est organisé par les tensions entre femmes,
vieilles veuves et jeunes beautés. Le jeu trouble de désir saphique et de
jalousie qui en ressort organise le jeu des regards du spectateur, ce qui
explique que la seule scène ennuyeuse, malgré un rythme basé sur l’étirement et
l’atténuation, soit celle construite autour d’un homme. Columbu fait de son
film non pas tant un documentaire sur les superstitions
villageoises, qu’un document de ces croyances. Le village
sarde y redevient le théâtre d’une vie épique, marquée par l’affrontement de
l’homme avec les forces élémentaires qui le dépassent. Columbu a réalisé
avant Surbiles un film basé sur les évangiles, Su Re,
qui apparemment n’a même pas eu en France les honneurs d’une projection dans un
festival. En attendant un Locarno 2018 qu’on espère meilleur que celui de 2017,
voilà donc une découverte à faire.
A prescindere dalla narrazione e da quelle che sono le
inferenze antropiche di Surbiles - ciò che si vede e
si sente nelle ambagi del film (negli armadi, agli angoli delle camere, proprio
nelle intercapedini della struttura cinematografica) a proposito di
sincretismi, superstizioni, o del magico superstite (guardando anche un po’ a
De Martino) -, con tutto il corollario esistenziale poi connesso a queste
figure fragili e dolenti, per quanto orride, erranti di vampire (quindi una
gamma di tonalità e registri che prevede anche l’ironico, se non proprio il
comico inerente al metabolismo dei vecchi parlanti, semoventi); è nella forma,
com’è evidente, che Columbu concentra tutto il suo potenziale dialettico,
sfruttando la scarnezza, la povertà della ripresa amatoriale, per fini, come
dire, gnoseologici, cioè indagando questioni come l’essenza dell’immagine, la
sua presunta autenticità e i margini di manipolazione iconica entro un
programma profondante, sprofondante di racconto: perché proprio mentre cerca di
addentrarsi negli spazi di profonda, stratificata significazione, questa
struttura sembra smottare, ridursi in macerie d’immagine, cumuli di ombre
digitali. Cioè, quanto aggiunge questa modalità di ripresa al fondamento
filosofico (teorico: ma di una teoria del mondo piuttosto che solo del cinema)
necessaria al racconto, alla possibilità di dire e di mostrare anche oltre la
finitezza endemica di parole e figure, magari attraverso condizioni particolari
di luce, di crepuscolo dell’atmosfera cinematografica? Come se queste, nella
fredda povertà, precarietà della ripresa, acquistassero una maggiore pregnanza
estetica, gnoseologica appunto: la capacità di dire, mostrare, fare intravedere
la bassa, la basica sostanza costitutiva di tutte le cose e adiacente al nulla.
Il che sembra confermato dalla confluenza (per certi aspetti) con alcuni
esperimenti recenti, partendo da quella sorta di archetipo che può essere Mysterious
object at noon di Weerasethakul: ad esempio El futuro di
Luis Lopez Carrasco, in cui è proprio la modalità del mostrare, la ripresa in
4:3 e nella definizione di una VHS, ad aprire squarci, passaggi temporali non
tanto dentro la Storia (e nella politica), quanto nell’immaginario anche oltre
gli anni Ottanta; o I tempi felici verranno presto di
Alessandro Comodin, tutto teso nell’alternanza e indistinzione (come in
Weerasethakul) tra documentario e finzione, e comunque pervaso a tratti dalla
stessa luce crepuscolare, mortifera, dalla stessa scarnezza (problematica,
teoretica) del digitale domestico di Surbiles…
...Si
addentra nei territori del maligno, Surbiles, ma il suo reale
campo semantico di ricerca è un altro: è l’intimità di una cultura, è la
radicalizzazione territoriale nelle vite degli uomini, è lo strascico di una
leggenda, possibile probabilmente solo nel centro di un’isola, ambiente chiuso
e, appunto, isolato per definizione, bisognoso di equilibri interni. Il
risultato è un film imperfetto, probabilmente difettoso, eppure dello stesso
fascino misterico e inafferrabile di una circolare danza tradizionale. È un
film di caccia alle streghe, di ritorni nell’ombra, di lotte fra il bene e il
male, di trasformazioni tramite unguenti magici, di conti (in)finiti, di
canzoni di Natale mentre fuori infuria la lotta fra gli spiriti; è un film
profondamente inquietante, fatto di paura popolare e di abbandoni del proprio
corpo, fatto di lente passeggiate nella notte e di fuochi scoppiettanti; è un
film profondamente interessante, un trattato antropologico, un’immersione
completa nell’Ichnusa di un tempo eppure eterna, archetipica e immutabile come
le sue tradizioni più radicate. È un film da difendere, senza dubbio. E a spada
tratta.
il protagonista del film è un vestito, che veste diverse donne, a caso. è l'occasione per raccontare delle storie, come se fosse un film a episodi, tutti girati dalla mano sapiente di Alex van Warmerdam. non è il suo capolavoro, ma si vede davvero bene, certa storie sono belle, altre di più. buona visione - Ismaele
Un bel vestito estivo a fiori spinto dal
vento finisce nel giardino di un'anziana signora e poi sul corpo di una giovane
e bella fidanzata di un pittore, di un controllore delle ferrovie, di un
autista di autobus. Di una fanciulla di nome Chantal ed anche della barbona
Marie. Nel bene e nel male l'abito cambierà la vita di un gruppo di persone.
Originale ed ironico film sull'esistenza, non privo di una comicità surreale
alla Tati e alla Keaton.
Il Cinema dell'olandese Warmerdam è come questo vestito:
viaggia quasi casualmente, in traiettorie tutte sue e lambisce le vite dei suoi
personaggi gettandoli in film grotteschi e intriganti. Qui si parte dai campi
di cotone e si assiste alla nascita, turbolenta e non senza conseguenze
personali per chi ne viene coinvolto, di un vestito leggero, colorato e
disegnato con dubbio gusto, che una volta tagliato e venduto passa di corpo in
corpo, lasciando su ogni persona che lo indossa, segni profondi, spesso nefasti.
Un'anziana signora, un bigliettaio di treno perverso, giovani fanciulle,
artisti e vagabondi. Il regista scatena una divertente commedia nera che però
declina in qualcosa di più sinistro, variando lievemente di registro mentre si
assiste alle varie peripezie dell'umanità coinvolta. Un viaggio casuale e
allegro, triste e violento, romantico e sensuale, che però sa un po' di aria
fritta dopo un certo tempo, gli manca il colpo del genio, cosa che gli
succederà solo con il fantastico "Borgman", nel 2013, il suo
capolavoro. Un regista, comunque, che mi piace molto, diverso, coraggioso e
stimolante.
…De Jurk è imbevuto dello
humour nero che attraversa i lavori di Alex Van Warmerdam sin dall’inizio della
sua carriera. L’ironia è feroce e tagliente, come una rasoiata. La vita è un
viaggio che non promette destinazione certa, questo sembra voler “denunciare”
il regista, ed è difficile riuscire a controbattere alcunché. C’è solo da
prenderne atto, pur senza rinunciare a indossare, almeno una volta, quel
vestito. Dopotutto, farsi portare, docilmente, dalle correnti del caso, può
garantire il massimo risultato con il minimo sforzo…
L'uomo con la lanterna ha vinto il premio Corso Salani (il dio del Cinema lo ricordi e lo faccia ricordare sempre), a Trieste, e sta iniziando a fare i primi passi nelle sale. una piccola storia di famiglia diventa tante cose, i bauli con i ricordi di zio Mario sono usciti dalla polvere e tornano a vivere, con la stop motion di Michela Anedda e la testardaggine di Francesca Lixi. anni di ricerche, viaggi, pellicole andate a male, incontri, ipotesi, alla fine hanno partorito questo film, zio Mario è tornato a vivere, e a viaggiare, stando un po' sulle sue, dicendo molte cose, ma tacendone altre, e un po' l'abbiamo conosciuto anche noi. sarà difficile, ma non impossibile, vedere questo film, quel giorno siateci, non ve ne pentirete, una piccola storia di famiglia che diventa cinema, non capita tutti i giorni. buona futura visione, allora - Ismaele ps: il cognome di Francesca, Li Xi, potrebbe aprire le porte delle sale cinesi che sono ormai più di trentamila (nel film si ricorda che anche il nostro paese è stato, nel suo piccolo, fra gli altri, colonialista, per caso, in Cina). uno dei produttori di cognome fa Giapponesi, speriamo bene.
L’uomo con la
lanterna. Storia di un bancario sardo nel Celeste Impero – Wu Ming 2
Nella storia del colonialismo italiano, che
già non brilla per notorietà, la Concessione di Tientsin conserva
il ruolo di Carneade. Un’ombra dell’ombra, direbbe Paco Taibo II. Eppure si
tratta della seconda terra d’Oltremare che l’Italia riuscì ad
accaparrarsi, undici anni dopo l’istituzione della Colonia eritrea. Questo la
piazza al secondo posto anche per la durata del dominio, 42 anni, dal 1901 – in
seguito all’intervento italiano contro la rivolta dei Boxer –
all’invasione giapponese della Cina durante la Seconda guerra mondiale.
In
un tempo remoto, quando il collettivo era ancora un quintetto, scrivemmo un
soggetto cinematografico piuttosto sgangherato, dove un carabiniere italiano
della Concessione indagava su alcuni loschi delitti con l’aiuto di un
attendente cinese. Il titolo di lavoro era Tu bene!, traduzione letterale di 你好 (nĭ hăo), il più comune saluto in mandarino. Di quel
progetto non si fece nulla, e in questo caso er cinema non ha davvero
colpe. La storia era del tutto improponibile.
Tuttavia,
il ricordo di quella vecchia trama è riaffiorato, quando la casa di produzione Kiné mi
ha proposto di partecipare alla sceneggiatura di un film d’archivio, basato sui
documenti, le foto e le pellicole di Mario Garau, nato a Cagliari
nel 1891 e impiegato della Banca italiana per la Cina, a Shanghai e Tianjin,
dal 1924 al 1936.
La regista del film, Francesca Lixi, è una
prononipote del protagonista, ma non lo ha mai conosciuto (è morto nel 1964,
per le complicanze di una trasfusione). Fin da piccola, Francesca è affascinata
dalla figura di “zio Mario”, il misterioso avventuriero che ha riportato dai
suoi viaggi i tanti soprammobili di cui è ingombra la sua casa. Gioca con
quegli oggetti senza sapere da dove arrivano, inventa storie che li
coinvolgono, sogna di tenere in mano i ninnoli più preziosi e intoccabili.
Crescendo, prova a indagare meglio la biografia di zio
Mario e a trovare il modo di raccontarla. Studia teatro per portarla in scena.
Organizza un viaggio in Cina, passando dal Nepal, per filmare i luoghi che lui
stesso ha filmato (E’ il 1987 e visitare la Repubblica Popolare da turisti
indipendenti è ancora molto complicato). Per realizzare il
lungometraggio, decide di farsi le ossa nel mondo del cinema, cercando un ruolo
qualsiasi in una troupe. Trova sull’elenco l’indirizzo di Nanni Moretti,
gli scrive, riceve una sua telefonata, con molti consigli. Frequenta una scuola
di montaggio, scrive sceneggiature, propone trailer, imposta documentari. Con
l’avvento di Internet, pubblica su una rivista on-line un romanzo epistolare,
composto di lettere immaginarie tra lei e lo zio.
Intanto
mette ordine nello sterminato archivio familiare, dal quale spuntano anche gli
scatti del sottotenente Mario Garau, impegnato sui fronti della Grande Guerra,
dall’Isonzo all’Albania. Cerca inutilmente di consultare l’archivio del Credito
Italiano, dove sono conservati i fogli di servizio e i dispacci di suo zio alla
direzione della banca. Finché, dopo trent’anni di tentativi più o meno falliti,
arriva il progetto di un film che racconti, insieme alla vita di Mario Garau,
anche le ricerche di Francesca, utilizzando solo documenti, filmati d’epoca,
fotografie, pochissime riprese dirette e animazione digitale di oggetti. Kiné
riesce a ottenere un finanziamento dalla Sardegna Film Commission, ed
ecco che la proposta di partecipare alla sceneggiatura compare nel mia casella
di posta.
L’uomo con la lanterna racconta
l’Italia dei primi del Novecento – vista dalla Sardegna – e la vita di un
italiano in Cina negli anni del regime fascista. Si interroga sul ruolo delle banche
occidentali nel Celeste Impero e su alcuni misteri che costellano la biografia
di Mario Garau, senza però violare il suo diritto all’opacità, quello che ci
permette di stare con gli altri anche quando non li capiamo fino in fondo.
Lo
fa usando le sue foto di feste danzanti e di barricate, i super8 di viaggi in
Africa e passeggiate per Shanghai, i cataloghi di “signorine” cinesi con le
quali accompagnarsi, gli oggetti che hanno popolato i sogni di Francesca. In
parallelo, scorre la ricerca della nipote, a volte disillusa, a volte
ossessionata, spesso interrotta per lunghi periodi.
Fino
a maturare la consapevolezza, dopo mille ipotesi e faldoni consultati, che
“nelle notti dell’altro ci aggiriamo ciechi, reggendo una lanterna che solo
c’inganna”.
Si
sa che un film di questo genere non ha grandi possibilità di distribuzione
nelle sale, ma per chi volesse vederlo al cinema, c’è la possibilità di
organizzare la proiezione in una delle sale del circuito MovieDay.
L’idea
è molto semplice: chiunque lo desideri può selezionare il film, il giorno e la
sala dove gradirebbe vederlo. A quel punto, parte una spece di
micro-crowdfunding, con prevendita on-line dei biglietti. Se si raggiunge una
quota minima (intorno ai 40, ma dipende dal cinema), allora il film viene
confermato e inserito nella programmazione della sala. E’ tutto spiegato
qui:
Questo è
il link diretto alla pagina de L’Uomo con la Lanterna sul sito di MovieDay.
Se
qualche singolo, libreria, circolo o associazione è interessato a organizzare
una proiezione, il nostro account Twitter e Giap sono a disposizione per
dare una mano a promuoverla.
Metà degli anni ‘20. Un bancario sardo, Mario Garau, viene
distaccato in Cina dal Credito Italiano per lavorare come funzionario della
Italian Bank of China, negli uffici di Tientsin e di Shanghai. Era l’epoca
delle Concessioni Internazionali e dei Trattati Ineguali. Quel bancario era
mio zio. Nella mia casa, quando ero bambina, giunsero alcuni bauli che gli
appartenevano, pieni di cimeli, filmati 8mm e foto. Questi oggetti esotici, e
le poche notizie che avevo su questo parente, han- no ingombrato per decenni la
mia fantasia e mi hanno spinto a fare numerose ricerche intorno a questa figura
misteriosa.
Attraverso foto, documenti e filmati inediti, questo film
narra la storia di mio zio e del mondo rimosso e sconosciuto delle Concessioni Internazionali in estremo
oriente, ma racconta anche di come la sua vita, per oltre 30 anni, si sia
intrecciata con la mia, e con le mie scelte. Ho provato a viaggiare con lui, per scoprire se fosse
possibile raccontare e comprendere la complessità delle vite degli altri attraverso
le vicende che ne hanno segnato l’esistenza, scoprendo i frammenti
dell’intreccio che si nasconde tra la nostra vita e quella delle persone, reali
o immaginarie, che ci hanno formato.
…Era una bambina,Francesca Lixi, quando vide per
la prima volta i polverosi bauli, giunti a Cagliari dalla Cina dopo la morte di
suo zio. “Avevo 4 anni quando arrivarono nella nostra cantina le casse
e i bauli di uno zio sconosciuto. Da allora le sue fotografie, i suoi filmati
in 8 mm e gli oggetti portati dai suoi viaggi, sono diventati i testimoni per
niente oggettivi della relazione che la sua esistenza ha avuto con la mia
storia personale, spingendomi a interpretare e ripercorrere la sua vita alla ricerca di una
verità che non potrò mai cogliere del tutto”…
“Il sogno è il primo genere letterario
dell’umanità. Nel sogno siamo registi, attori e spettatori delle vite
immaginarie che ci sono state narrate e di quelle che andiamo a comporre”,
questo è l’incipit con cui si apre L’uomo con la lanterna di Francesca Lixi,
vincitore del Premio Corso Salani al Trieste Film Festival 2018, una frase del
filosofo Remo Bodei che vuole chiarirci con quale sguardo la regista abbia
provato a dare forma alla vita di suo zio Mario Garau, bancario cagliaritano
che dal 1924 al 1935 si ritrova a lavorare per l’Italian Bank for China a
Tientsin e Shanghai.
Zio Mario è un uomo taciturno e non parla con
nessuno degli anni trascorsi in Cina e nemmeno dei suoi lunghi viaggi intorno
al mondo, il suo racconto è affidato ai mezzi con cui registra i suoi
spostamenti, gli incontri e i principali eventi di cui sembra essere un attento
testimone. Francesca Lixi, non ha fatto in tempo a conoscerlo, è ancora una
bambina quando, dopo la sua morte, apre per la prima volta i bauli che
contengono la memoria visiva dello zio, a quell’età sono soprattutto i cimeli
esotici, le fotografie e le pellicole 8mm ad interessarla, affascinandola a tal
punto da influenzarne le scelte future…
il film inizia con un viaggio in macchina, verso la capitale, due genitori amorevoli e una figlia coccolata, la destinazione è la capitale. la ragazza, Delia, ha vinto un concorso a premi e ha vinto un'automobile, per perfezionare la vincita Delia deve girare una pubblicità di un minuto per lo sponsor di bibite. sarà una giornata, lunga, faticosa, con molti ciak fino a quello buono, e si consuma un dramma familiare. Delia vuole la macchina, l'ha vinta lei, è sua, i genitori vorrebbero loro la macchina, servono soldi a casa, ma Delia è un'ingrata, le fanno notare continuamente, con sempre minore gentilezza, fino al grande freddo nei rapporti fra genitori e figlia. le trappole del capitalismo in un mondo uscito dalla miseria in brevissimo tempo. primo lungometraggio di Radu Jude, ottimo debutto, già allora di cinema ne sapeva molto - Ismaele
Il film racconta della lunghissima giornata di
Delia, giovane romena che ha vinto un concorso bandito da una marca di bibite:
girare una pubblicità e ritirare una costosa automobile. Parte quindi, con i
genitori, a bordo di una Dacia e alla volta di Bucarest, dove la attende una
giorno interminabile: tra il caldo estivo, i numerosi Ciak, le pretese del
regista e dello sponsor e le discussioni con i genitori, che vogliono vendere
l’auto per aprire un bed & breakfast. Il titolo deriva dalla banalissima frase
che la ragazza è costretta a pronunciare (“Mi
chiamo Fratila Delia Cristina e sono la ragazza più felice del mondo“)
nello spot.
Dice il regista: “Nel
film si parla di bugie e di compromessi, ma anche di felicità, tristezza e
consumismo. Parlo di capitalismo anche quando racconto le mire di due genitori
che approfittano dei figli per realizzare i propri sogni“.
…Cea mai fericità fatà din lume (La ragazza più felice
del mondo) di Radu Jude è un film su compromessi e bugie, su capitalismo e
rapporti familiari, che porta anche ad una riflessione sull’ingannevole
linguaggio del cinema…
… resultó muy interesante The Happiest Girl in the World, debut de Radu Jude (asistente de Cristi Puiu en La noche del señor Lazarescu), que mantiene el espíritu tragicómico y la virtuosa puesta
en escena de buena parte del nuevo cine rumano. Una adolescente
pueblerina de clase media-baja llega con sus padres a Bucarest para
participar de un comercial de una bebida gaseosa al que debe presentarse
luego de haber ganado un automóvil en un concurso. Mientras
protagoniza -no sin tropiezos- el rodaje de la publicidad en plena ciudad, sus
padres tratan de convencerla de que firme un documento para vender el
coche y así solucionar los problemas económicos de la familia. Ella, en cambio,
quiere manejarlo para ostentar ante sus amigos y compañeros. La utilización de
las locaciones reales (puro caos y ruido) de la capital rumana
es un verdadero hallazgo de un film que describe de manera despiadada los
profundos cambios socioeconómicos de un país que intenta olvidar su pasado
comunista a fuerza de consumo (y de codicia).
nasce come documentario sui pericoli dell'abuso di alcool, ma in mano ad Augusto Tretti diventa un ibrido, a metà fra il documentario e il film di finzione.
un film semplice, ingenuo, forse, ma con lo stile di Tretti.
merita, vedere per credere - Ismaele
…Primo film prodotto unicamente da un ente
regionale, l’Amministrazione Provinciale di Milano, che nel 1980 era capeggiata
da una donna democratica di sinistra; film questo nato con uno scopo didattico
che si poneva contro le insidie celate dal consumo di alcool in Italia.
Impensabile che un regista come Tretti, che era lontano dai set da otto anni,
non volesse aggiungere parte della sua caustica invettiva all’interno di una
produzione locale, statalizzata, più simile alle Pubblicità
Progresso come fine che non alla libera iniziativa artistica del suo autore.
All’interno di una cornice intellettuale, per certi versi atemporale, quasi
divinamente oggettiva, composta da quattro dottori che discutono sulle
pericolosità dell’uso, prima, e dell’abuso, dopo l’assuefazione derivante da un
uso "ricreativo" e compensatore della solitudine societaria nella
quale è introdotto l’individuo - senza distinzioni di sesso, razza, classe o
religione – Tretti racconta uno spaccato trasversale che non risparmia nessuna
microstruttura societaria, nessuno ne esce incolume dall’uso, legalizzato
statalmente, dall’alcool. A maggior ragione se messo in comparazione con altri
tipi di droghe, leggere o pesanti, che venivano – e tuttora vengono – proibite.
Nel fuoricampo delle storie che vengono raccontate sembra sempre presente un
tacito accordo tra ciò che è lecito e ciò che non è lecito, con lo Stato come
giudice unico a soppesarne i benefici o malefici di entrambi i piatti. E’ la
società contemporanea – parliamo del 1980 ma il discorso lo si può
tranquillamente estendere fino a i giorni nostri, immaginiamo un lavoro simile
sul gioco d’azzardo legalizzato – che crea disagio e solitudini, palati da
circuire con le réclame e sete da dissetare con dell’alcool. «Nell’Italia
del Nord i ricoverati in ospedali psichiatrici per causa dell’alcol sfiorano il
50 per cento. Eppure, si continua a parlare di droga e ad ignorare quasi
l’alcolismo che è la droga più diffusa e letale. […] L’alcolismo è un fenomeno
terribile, che non appare nelle statistiche nella sua reale dimensione, e le
sue vittime appartengono tutte, tranne qualche eccezione, alle classi
subalterne; è gente che non è legittimata a superare nulla, che dalla vita non
ha soddisfazioni e che dal futuro non può aspettarsi un’esistenza che lo
riscatti. In questo senso il mio è un film politico, perché informa, senza
ricorrere a una qualsiasi ideologia che ridurrebbe il problema, che anche
questa piaga sta nel conto del rapporto di forza fra chi ha il potere e chi non
l’ha, fra chi usa lo droga e chi, invece, ne viene usato».1
Le finalità educative ed informative si traducono in Tretti in politica. Una politica però ben lontana, come ammissione delle
stesso regista, dall’ideologia. Da qualsivoglia ideologia, né di destra, né di
sinistra tantoméno centrista. Una ideologia che sminuirebbe il fenomeno, che
sposterebbe l’ago dell’inchiesta e della statistica verso fini precostituiti e
non verso dati oggettivi. Ma nonostante questo, Alcool rifugge lo stile algido
del film-d’inchiesta, rifugge anche la réclame, e la brevità di
forte impatto della Pubblicità Progresso. Alcool è un film trettiano in tutto e
per tutto. Se non per l’epifania dell’idea originale almeno lo è per il fine e
per il metodo. Uno sguardo sulfureo, grottescamente schietto, inflessibile e
libero, mai taciuto per onesta volontà del suo autore, casomai perennemente
tacciato ed allontanato. Un anarchico per sua stessa ammissione, «le sue bombe
scoppiano con un enorme rispetto della vita umana, ma non a vuoto», come lo
definiva Flaiano che in un articolo sintetizzava il suo dono con queste parole:
«Il dono di Tretti è una semplicità che non si copia, presupponendo la superba
innocenza dell’eremita». Affinché di Tretti se ne parli, lo si conosca, e nella
speranza che qualcuno abbia, ancora, la libertà di ascoltarlo.
1 Augusto Tretti, Corriere d’informazione, 22
Marzo 1980 – Fonte tratta da Rapporto Confidenziale.
Victoria (Laila Costa) e Sonne (Frederick Lau) non ve li dimenticherete per un po'. Sonne lo conoscete già, è Tim, il più fedele discepolo del professore de L'onda, Victoria forse no, è una giovane spagnola portata a Berlino dalla corrente, sopravvive, Sonne e i suoi due amici sono degli sfigati, senz'arte né parte, tutti sono scarti del mondo di oggi, persone in più. quello che rende il film straordinario, oltre gli attori, oltre la storia, è che si tratta di un unico piano sequenza, al quale non sfuggi più appena inizi a guardare il film. l'occhio della videocamera non molla nessuno, Victoria e Sonne sono lì, veri, quell'occhio mette a nudo le loro anime. un film come pochi, cercalo, non te ne pentirai mai, sicuro - Ismaele
…La
macchina da presa non si ferma mai, non perde mai il filo della visione, 138
minuti di inquadrature significanti e pregnanti, un’opera divina, un
alchimia diabolica. Victoria non parla tedesco, solo inglese o spagnolo, ed io
la guardo straniata mentre gli sprovveduti delinquenti latrano nel
loro idioma alieno, poi guardo attraverso gli occhi di ciascuno di loro,
Sonne appunto, poi il pavido Blinker, il dannatissmo Boxer, Fuss lo stonato,
ricordo i loro nomi ancora oggi e li ricorderò per tanto tempo ancora. Scene di
interni, salite verticali, riprese statiche o in movimento, dentro e fuori le
auto, dentro e fuori la follia dell’insospettata piega degli eventi, una storia
superba che mozza il fiato, al servizio della quale è la tecnica prodigiosa e
non viceversa, qualcuno ha scritto che la tecnica virtuosissima di Schipper
immerge e non distrae, è questo il cinema, è questa la grande illusione.
One shot,
two hours, total triumph, ha titolato il britannico The Guardian. No one
believed Sebastian Schipper could make Victoria in one take, ha scritto
Indiewire. The punk rock, single-take cinematic triumph of the year, secondo
the Daily Beast. Questo, per tutti noi, per tutti voi, è Victoria, questo è il
cinema che abbiamo negli occhi, sia lodato il Dio del Cinema. Sempre sia
lodato.
…Qualcuno ha scritto che la tecnica virtuosissima di Schipper
immerge e non distrae: è questo il cinema, è questa la grande illusione.
L’eterno prodigio che di tanto in tanto si materializza davanti agli occhi dei
fortunati testimoni, un privilegio che può arrivare a commuovere.
…Schipper, con la complicità del direttore della fotografia e
operatore Sturla Brandt-Grøvlen, ha trovato il modo per “distrarci” dalla
trama, per minare la certezza dei punti di vista, delle prospettive. E qui
arriviamo al punto. Victoria è girato interamente in piano
sequenza, con la macchina a mano che si muove, incessante, tra le strade di
Berlino, i bar, i locali, i garage, le scale e i tetti dei palazzi, rimanendo
ostinatamente attaccata ai corpi, ai protagonisti, alla concitazione dei loro
movimenti. Al punto che la leggibilità delle traiettorie, degli eventi, si fa
via via più precaria con il salire della tensione. E l’immagine sembra
oscurarsi, diventare un mistero, come in un war movie girato da Paul
Greengrass..
Victoria è
davvero una prova muscolare di due ore e venti. Un tour de force del cast e
dell’intera troupe. Tutti uniti nello sforzo di inquadrare la trama nel suo
dipanarsi, di trovare il punto di coincidenza tra la storia e il discorso, di
abbracciare in un unico respiro la notte e la città. E, di sicuro, è uno sforzo
che lascia sbalorditi, a bocca aperta. Almeno al principio. Perché, smaltita la
sbornia, una volta placata la concitazione, dietro quello sforzo non riusciamo
a distinguere alcuna urgenza, alcuna necessità. E quella che sembrava
un’adesione totale ai personaggi, finisce per mostrarsi come un estetismo di
superficie. Eppure, proprio questo limite rischia di essere l’elemento più
affascinante del film. Perché proprio l’ostinazione nel perseguire una scelta
estetica “insensata” produce in più punti una stilizzazione abbagliante, una
specie di astrazione magica, come nelle magnifiche scene in discoteca o in quei
brevi minuti, pochi metri, in cui Sonne e Victoria si ritrovano in taxi, con il
fiato in gola e il cuore in mano.
…Sebastian Schipper (regista) e Sturla Brandth Grøvlen
(direttore della fotografia), aiutati comunque da una protagonista in forma
smagliante e in generale da un cast di attori che ce la mette tutta, gestiscono
il ritmo della storia in maniera notevole. Certo, ci sono dei cali di ritmo e
in generale, non ci si può fare molto, tanto il piano sequenza funziona a meraviglia
quando c'è da rendere la tensione dei momenti concitati, quanto si mostra
spesso inadeguato nelle parti più raccolte, tranquille, basate sui dialoghi,
sui silenzi, magari addirittura romantiche. Nel complesso, però,
l'esperimento funziona e fa anzi una certa impressione non solo per la natura
di piano sequenza in sé, ma per lo sforzo con cui Schipper e i suoi riescono a
mettere sul piatto cura per l'immagine e capacità di variare sensibilmente lo
stile delle riprese a seconda del momento, delle emozioni, delle vicende. Ci si
ritrova immersi per due ore abbondanti nella folle serie di piccoli eventi e
attimi che possono definire la vita delle persone, con un susseguirsi di sfighe
e coincidenze talmente assurdo da risultare perfettamente credibile.
…Aunque la película tenga lugar en Berlín, podría haber
estado ambientada en cualquier ciudad europea. Berlín no es la protagonista del
film, casi siempre está fuera de foco. Es significativo que una de las pocas
imágenes reconocibles, sea la de uno de los escasos fragmentos, que aún hoy
sigue en pie, del muro que separó la capital alemana durante más de
veinticinco años. Aún no siendo un film de los llamados sociales, esa imagen
parece simbolizar la historia de estos jóvenes ante los que se alza una barrera
que los mantiene excluidos de un trabajo digno y de una vida mejor. El símbolo
de una Europa que vuelve a levantar un muro frente a una juventud obligada a
emigrar, trabajar en condiciones precarias y, como medida desesperada, emprender
acciones para derribarlo. Las últimas imágenes del film, rodadas dentro
de un lujoso hotel situado en las calles comerciales más exclusivas, así lo
corroboran. El “asalto” a ese muro (que sigue existiendo aunque no físicamente)
acaba en fracaso. La victoria del título se torna derrota.
…Le conseguenze della scelta, dogmatica, di fare un unico
piano sequenza non sono poche. È come se, scrivendo, si rinunciasse a una
vocale, come fece Perec con la e nel libro “La disparition”. Una volta optato
per un unico flusso narrativo, regista e cameraman si trovano pressoché sullo
stesso piano, architetti di una struttura abnorme e fragilissima che deve
reggere per tutta la sua durata, senza errori di sorta. Non a caso, i dialoghi
sono per la massima parte improvvisati – parlati in pidgin english, con inserti
di berlinese stretto – e le immagini fuori fuoco abbondano. Grøvlen fiata sugli
attori come un Dardenne, mentre il quartiere di Kreuzberg (al confine con
Mitte), dove si svolge tutto il film con le sue 22 location, resta uno sfondo
incerto, semideserto, minaccioso. Per gli attori – e per lo spettatore –
un’esperienza immersiva del genere, che soppianta i ritmi della normale
sintassi filmica, stimola una sospensione dell’incredulità diversa dal solito,
un’apnea che crea dipendenza. Senza il montaggio e le sue magnifiche menzogne,
Victoria approda all’ultimo stadio del cinéma verité. Con buona pace dei buoni
propositi di sobrietà e verosimiglianza della Berliner Schule e della trilogia
berlinese di Thomas Arslan (1997-2001), d’improvviso invecchiati di
cinquant’anni. Di miracoloso, il film di Schipper non ha solo il fatto che
funzioni e non dia mai segni di cedimento, ma che riesca pure a stupire nel
merito, oltre che nel metodo, a non annoiare mai, a commuovere persino,
soprattutto quando il suono in presa diretta cede il passo alle composizioni
liriche di Nils Frahm. Merito dell’abilità di Grøvlen, degli eccezionali
protagonisti (più André M. Hennicke, impagabile nei panni del boss della mala)
e di scene spiazzanti, di grande intensità, come quella in cui Laila Costa si
mette a suonare il pianoforte…
…In tempi di ricerca di un aumentato
realismo sensoriale attraverso apparecchiature ed effetti speciali, la scelta
di Schipper va quasi controcorrente, facendo tesoro del passato in prospettiva
di un suo aggiornamento. Rielaborando alcuni concetti e intuizioni del
neorealismo zavattiniano, della Nouvelle Vague francese e del Dogma 95 di Von
Trier, il cineasta sviluppa un’idea
filmica affascinante pur se non innovativa, espressione di un cinema
che – giunto ormai a una saturazione tecnica – torna a lavorare sullo stile
come veicolo primario, non al servizio della narrazione, bensì sua controparte
nel processo diegetico. Lontana dai ritmi frenetici dei montaggi digitali, la
fluidità dell’inquadratura continua dell’operatore Sturla Brandth Grøvlen fa
del racconto il pretesto per una descrizione visiva di un arco temporale
sospesa tra cinema verité e cinema underground, che rifiuta il manierismo fine
a se stesso. Il film di Schipper è cinema
all’ennesima potenza, estremizzazione del principio stesso
dell’immagine in movimento che viene così a superare la finzione della messa in
scena, quasi fosse un documentario o un’opera sperimentale.
Il travalicamento dei rigidi steccati
tipologici rende allora Victoria ben
più significativo di quanto appaia: né divertissement né bizzarria, ma gesto artistico che apre una nuova
strada all’aggiornamento del mezzo cinematografico, non attraverso
l’ipertrofico potenziamento dei suoi apparati, ma con una revisione del proprio
linguaggio. Un gesto intellettuale la cui effettiva portata potrà essere
valutata solo a posteriori.
…Entendiendo Victoria no solamente como un encomiable ejercicio técnico, sino como
un todo, un conjunto con, claro está, la particularidad de la detallada atención
a algunos de sus elementos, estamos ante una muy interesante propuesta
cinematográfica, una vertiginosa historia con una progresión bien calculada, un
montaje brillante y un trabajo interpretativo a la altura de las
circunstancias. Película que, además, ofrece otros elementos destacables como
cierto sentido del humor tarantiniano filtrado por la identidad sociocultural
europea, una reflexión metafórica sobre la búsqueda de compañía dentro de la
estética de la soledad humana en los entornos urbanos contemporáneos, o la idea
de la violencia como catarsis. Ya lo decía el director francés Jean-Luc Godard, «todo lo que se necesita en una película es un arma y una
mujer». | ★★★★|