lunedì 19 marzo 2018

Victoria - Sebastian Schipper

Victoria (Laila Costa) e Sonne (Frederick Lau) non ve li dimenticherete per un po'. Sonne lo conoscete già, è Tim, il più fedele discepolo del professore de L'ondaVictoria forse no, è una giovane spagnola portata a Berlino dalla corrente, sopravvive, Sonne e i suoi due amici sono degli sfigati, senz'arte né parte, tutti sono scarti del mondo di oggi, persone in più.
quello che rende il film straordinario, oltre gli attori, oltre la storia, è che si tratta di un unico piano sequenza, al quale non sfuggi più appena inizi a guardare il film.
l'occhio della videocamera non molla nessuno, Victoria e Sonne sono lì, veri, quell'occhio mette a nudo le loro anime.
un film come pochi, cercalo, non te ne pentirai mai, sicuro - Ismaele 





…La macchina da presa non si ferma mai, non perde mai il filo della visione, 138 minuti di inquadrature significanti e pregnanti, un’opera divina,  un alchimia diabolica. Victoria non parla tedesco, solo inglese o spagnolo, ed io la guardo straniata mentre gli sprovveduti  delinquenti  latrano nel loro  idioma alieno, poi guardo attraverso gli occhi di ciascuno di loro, Sonne appunto, poi il pavido Blinker, il dannatissmo Boxer, Fuss lo stonato, ricordo i loro nomi ancora oggi e li ricorderò per tanto tempo ancora. Scene di interni, salite verticali, riprese statiche o in movimento, dentro e fuori le auto, dentro e fuori la follia dell’insospettata piega degli eventi, una storia superba che mozza il fiato, al servizio della quale è la tecnica prodigiosa e non viceversa, qualcuno ha scritto che la tecnica virtuosissima di Schipper immerge e non distrae, è questo il cinema, è questa la grande illusione.
One shot, two hours, total triumph, ha titolato il britannico The Guardian. No one believed Sebastian Schipper could make Victoria in one take, ha scritto Indiewire. The punk rock, single-take cinematic triumph of the year, secondo the Daily Beast. Questo, per tutti noi, per tutti voi, è Victoria, questo è il cinema che abbiamo negli occhi, sia lodato il Dio del Cinema. Sempre sia lodato.
da qui

…Qualcuno ha scritto che la tecnica virtuosissima di Schipper immerge e non distrae: è questo il cinema, è questa la grande illusione. L’eterno prodigio che di tanto in tanto si materializza davanti agli occhi dei fortunati testimoni, un privilegio che può arrivare a commuovere.


…Schipper, con la complicità del direttore della fotografia e operatore Sturla Brandt-Grøvlen, ha trovato il modo per “distrarci” dalla trama, per minare la certezza dei punti di vista, delle prospettive. E qui arriviamo al punto. Victoria è girato interamente in piano sequenza, con la macchina a mano che si muove, incessante, tra le strade di Berlino, i bar, i locali, i garage, le scale e i tetti dei palazzi, rimanendo ostinatamente attaccata ai corpi, ai protagonisti, alla concitazione dei loro movimenti. Al punto che la leggibilità delle traiettorie, degli eventi, si fa via via più precaria con il salire della tensione. E l’immagine sembra oscurarsi, diventare un mistero, come in un war movie girato da Paul Greengrass..
Victoria è davvero una prova muscolare di due ore e venti. Un tour de force del cast e dell’intera troupe. Tutti uniti nello sforzo di inquadrare la trama nel suo dipanarsi, di trovare il punto di coincidenza tra la storia e il discorso, di abbracciare in un unico respiro la notte e la città. E, di sicuro, è uno sforzo che lascia sbalorditi, a bocca aperta. Almeno al principio. Perché, smaltita la sbornia, una volta placata la concitazione, dietro quello sforzo non riusciamo a distinguere alcuna urgenza, alcuna necessità. E quella che sembrava un’adesione totale ai personaggi, finisce per mostrarsi come un estetismo di superficie. Eppure, proprio questo limite rischia di essere l’elemento più affascinante del film. Perché proprio l’ostinazione nel perseguire una scelta estetica “insensata” produce in più punti una stilizzazione abbagliante, una specie di astrazione magica, come nelle magnifiche scene in discoteca o in quei brevi minuti, pochi metri, in cui Sonne e Victoria si ritrovano in taxi, con il fiato in gola e il cuore in mano.

Sebastian Schipper (regista) e Sturla Brandth Grøvlen (direttore della fotografia), aiutati comunque da una protagonista in forma smagliante e in generale da un cast di attori che ce la mette tutta, gestiscono il ritmo della storia in maniera notevole. Certo, ci sono dei cali di ritmo e in generale, non ci si può fare molto, tanto il piano sequenza funziona a meraviglia quando c'è da rendere la tensione dei momenti concitati, quanto si mostra spesso inadeguato nelle parti più raccolte, tranquille, basate sui dialoghi, sui silenzi, magari addirittura romantiche. Nel complesso, però, l'esperimento funziona e fa anzi una certa impressione non solo per la natura di piano sequenza in sé, ma per lo sforzo con cui Schipper e i suoi riescono a mettere sul piatto cura per l'immagine e capacità di variare sensibilmente lo stile delle riprese a seconda del momento, delle emozioni, delle vicende. Ci si ritrova immersi per due ore abbondanti nella folle serie di piccoli eventi e attimi che possono definire la vita delle persone, con un susseguirsi di sfighe e coincidenze talmente assurdo da risultare perfettamente credibile.

Aunque la película tenga lugar en Berlín, podría haber estado ambientada en cualquier ciudad europea. Berlín no es la protagonista del film, casi siempre está fuera de foco. Es significativo que una de las pocas imágenes reconocibles, sea la de uno de los escasos fragmentos, que aún hoy sigue en pie, del muro que separó la capital alemana durante más de veinticinco años. Aún no siendo un film de los llamados sociales, esa imagen parece simbolizar la historia de estos jóvenes ante los que se alza una barrera que los mantiene excluidos de un trabajo digno y de una vida mejor. El símbolo de una Europa que vuelve a levantar un muro frente a una juventud obligada a emigrar, trabajar en condiciones precarias y, como medida desesperada, emprender acciones  para derribarlo. Las últimas imágenes del film, rodadas dentro de un lujoso hotel situado en las calles comerciales más exclusivas, así lo corroboran. El “asalto” a ese muro (que sigue existiendo aunque no físicamente) acaba en fracaso. La victoria del título se torna derrota.

…Le conseguenze della scelta, dogmatica, di fare un unico piano sequenza non sono poche. È come se, scrivendo, si rinunciasse a una vocale, come fece Perec con la e nel libro “La disparition”. Una volta optato per un unico flusso narrativo, regista e cameraman si trovano pressoché sullo stesso piano, architetti di una struttura abnorme e fragilissima che deve reggere per tutta la sua durata, senza errori di sorta. Non a caso, i dialoghi sono per la massima parte improvvisati – parlati in pidgin english, con inserti di berlinese stretto – e le immagini fuori fuoco abbondano. Grøvlen fiata sugli attori come un Dardenne, mentre il quartiere di Kreuzberg (al confine con Mitte), dove si svolge tutto il film con le sue 22 location, resta uno sfondo incerto, semideserto, minaccioso. Per gli attori – e per lo spettatore – un’esperienza immersiva del genere, che soppianta i ritmi della normale sintassi filmica, stimola una sospensione dell’incredulità diversa dal solito, un’apnea che crea dipendenza. Senza il montaggio e le sue magnifiche menzogne, Victoria approda all’ultimo stadio del cinéma verité. Con buona pace dei buoni propositi di sobrietà e verosimiglianza della Berliner Schule e della trilogia berlinese di Thomas Arslan (1997-2001), d’improvviso invecchiati di cinquant’anni. Di miracoloso, il film di Schipper non ha solo il fatto che funzioni e non dia mai segni di cedimento, ma che riesca pure a stupire nel merito, oltre che nel metodo, a non annoiare mai, a commuovere persino, soprattutto quando il suono in presa diretta cede il passo alle composizioni liriche di Nils Frahm. Merito dell’abilità di Grøvlen, degli eccezionali protagonisti (più André M. Hennicke, impagabile nei panni del boss della mala) e di scene spiazzanti, di grande intensità, come quella in cui Laila Costa si mette a suonare il pianoforte…

In tempi di ricerca di un aumentato realismo sensoriale attraverso apparecchiature ed effetti speciali, la scelta di Schipper va quasi controcorrente, facendo tesoro del passato in prospettiva di un suo aggiornamento. Rielaborando alcuni concetti e intuizioni del neorealismo zavattiniano, della Nouvelle Vague francese e del Dogma 95 di Von Trier, il cineasta sviluppa un’idea filmica affascinante pur se non innovativa, espressione di un cinema che – giunto ormai a una saturazione tecnica – torna a lavorare sullo stile come veicolo primario, non al servizio della narrazione, bensì sua controparte nel processo diegetico. Lontana dai ritmi frenetici dei montaggi digitali, la fluidità dell’inquadratura continua dell’operatore Sturla Brandth Grøvlen fa del racconto il pretesto per una descrizione visiva di un arco temporale sospesa tra cinema verité e cinema underground, che rifiuta il manierismo fine a se stesso. Il film di Schipper è cinema all’ennesima potenza, estremizzazione del principio stesso dell’immagine in movimento che viene così a superare la finzione della messa in scena, quasi fosse un documentario o un’opera sperimentale.
Il travalicamento dei rigidi steccati tipologici rende allora Victoria ben più significativo di quanto appaia: né divertissement né bizzarria, ma gesto artistico che apre una nuova strada all’aggiornamento del mezzo cinematografico, non attraverso l’ipertrofico potenziamento dei suoi apparati, ma con una revisione del proprio linguaggio. Un gesto intellettuale la cui effettiva portata potrà essere valutata solo a posteriori.

…Entendiendo Victoria no solamente como un encomiable ejercicio técnico, sino como un todo, un conjunto con, claro está, la particularidad de la detallada atención a algunos de sus elementos, estamos ante una muy interesante propuesta cinematográfica, una vertiginosa historia con una progresión bien calculada, un montaje brillante y un trabajo interpretativo a la altura de las circunstancias. Película que, además, ofrece otros elementos destacables como cierto sentido del humor tarantiniano filtrado por la identidad sociocultural europea, una reflexión metafórica sobre la búsqueda de compañía dentro de la estética de la soledad humana en los entornos urbanos contemporáneos, o la idea de la violencia como catarsis. Ya lo decía el director francés Jean-Luc Godard, «todo lo que se necesita en una película es un arma y una mujer». | ★★★★ |

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