Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
mercoledì 31 maggio 2017
martedì 30 maggio 2017
Ritratto di Famiglia con Tempesta – Hirokazu Koreeda
ancora
una storia di Koreeda, nella quale non succede niente, pare, ma succede
tutto.
Ryota è
un figlio che rapina un po' a casa della madre, un marito fallito, un drogato
delle scommesse, e per sua fortuna anche un padre, che non può deludere il
figlio.
Ryota è
come un sughero nella tempesta, poche certezze, un passato dietro le spalle e
un avvenire che non si sa come arriverà.
non è il
miglior film di Koreeda, secondo me, ma solo perché molti degli altri suoi
film sono davvero straordinari.
e però
resta un film da vedere, attori bravissimi e una tempesta che poi arriva, e
l'indomani è un altro giorno - Ismaele
...Com’è cambiato nel tempo la
maniera in cui scrive i film dalla fantasia di Air Doll al naturalismo degli
ultimi film?
“Non posso dare una risposta per
tutto perché dipende da film a film, quindi parlerò nella fattispecie di Ritratto di Famiglia con Tempesta.
Quando avevo finito le riprese di Still Walking con protagonisti sempre Kiki Kirin e Abe Hiroshi, avevo iniziato a pensare di voler fare un altro film con loro due come protagonisti sempre con il tema della famiglia. Ho così cominciato a tenere un quaderno in cui appuntavo episodi possibili. Ed era il 2009. Per la sceneggiatura vera propria invece sono partito dalla scena in cui viene tolto l’incenso da un altare buddista e con i bastoncini viene preso quello non bruciato, che mi è davvero capitato ed è ciò che accade nei funerali giapponesi in cui dopo la cremazione le ossa del morto vengono prese con dei bastoncini appositi e messe in un’urna. Da qui è partito tutto”.
Quando avevo finito le riprese di Still Walking con protagonisti sempre Kiki Kirin e Abe Hiroshi, avevo iniziato a pensare di voler fare un altro film con loro due come protagonisti sempre con il tema della famiglia. Ho così cominciato a tenere un quaderno in cui appuntavo episodi possibili. Ed era il 2009. Per la sceneggiatura vera propria invece sono partito dalla scena in cui viene tolto l’incenso da un altare buddista e con i bastoncini viene preso quello non bruciato, che mi è davvero capitato ed è ciò che accade nei funerali giapponesi in cui dopo la cremazione le ossa del morto vengono prese con dei bastoncini appositi e messe in un’urna. Da qui è partito tutto”.
E’ partito da un suo ricordo ma
il film ha a che vedere con la sua vita e i suoi ricordi?
“Sì assolutamente, in questo
film la percentuale di ricordi e vita vissuta è estremamente alta”.
Gli ambienti del film non sono molto
particolari ma ordinari, non sono luoghi memorabili o parti iconiche della
città ma posti che potrebbero trovarsi ovunque. E’ frutto di una grande ricerca
o del suo contrario, del girare vicino casa?
“Come dicevo in Ritratto di Famiglia con Tempesta ci sono molti
elementi autobiografici, le case popolare che si vedono sono il luogo in cui
sono cresciuto. Però è molto complesso avere permessi per riprenderle e caso ha
voluto che sia riuscito ad avere i permessi solo per le case in cui
effettivamente sono cresciuto io. Questo dettaglio ha fatto sì che per la prima
volta nella mia carriera, l’idea originale e il luogo abbiano combaciato del
tutto…
…La
famiglia, il radunarsi dopo la scomparsa di un proprio caro, il rapporto col
coniuge e con i figli: il grande cineasta giapponese, prolifico e presente
quasi ogni anno a Cannes, continua il suo percorso quasi privato, e comunque
senz'altro intimo, all'interno della famiglia o di quel che ne è rimasto.
Bei dialoghi, una certa ironia più
accentuata di fondo che anima il comportamento maldestro di un protagonista a
cui non si riesce a non volere almeno un po' di bene; ed un personaggio di
anziana madre davvero brillante e decisivo, il vero trait-d'union di rapporti
familiari altrimenti completamente allo sbando. Forse non il Kore-eda più
intenso e felice, ma un altro importante tassello di un percorso intimo che ci
continua a piacere molto.
…La
tempesta non è affatto temuta, ma diviene invece una scusa per riunire la
famiglia “disgregata” sotto uno stesso tetto, quello della nonna. E’ un
ritratto di famiglia malinconico, che fotografa forse un rimpianto, ma non è
per questo privo di speranza. “La tempesta mi piace perché è capace di spazzare
via ogni cosa” dice la nonna in una scena del film, anticipando l’accettazione
che ognuno dei protagonisti sarà costretto a fare. Una tabula rasa che è anche
un nuovo inizio…
…Ritratto
di famiglia con tempesta sa
parlare della vita con le giuste parole, è intriso di profonda saggezza, e
mantiene la famigliarità delle sillabe che potremmo ritrovare sulle labbra di
una nonna intelligente e con un ottimo senso dell’umorismo (guarda caso, il
sale della vita). È un’opera piccola e perfetta e per questo grandiosa.
Dolcissima. Che racconta con pacata, ma viva rassegnazione, la vita, la morte,
l’amore, i sogni e le mille passioni che muovono l’umanità, sottolineando, al
contempo, l’inesauribile incapacità degli uomini di viversi il proprio presente
in santa pace, romanticamente, così com’è, sempre presi invece dalla smania di
recuperare il passato, o di pianificare il futuro…
…Kore-eda firma también el guión y el
montaje de su película y este dominio sobre la estructura formal se convierte
en un estallido de libertad creativa y de empatía para con los personajes. Las
réplicas son oro puro y el autor es capaz de captar y transmitir toda la
entidad de cada sílaba y cada silencio con una endereza y espontaneidad tan
apabullante como alegórica del mundo interior de todos ellos. Las comparaciones
y los símiles son constantes pero lejos de saturar por acumulación, rezuman
inteligencia y conmiseración a raudales. El trabajo con los cuatro personajes
protagonistas (y con la mayoría de secundarios) es impecable y la fabulación o
reformulación de las ideas tradicionales se ve transgredida por una finísima
pero potente destilación irónica de mitos, creencias y constructos sociales…
…la quotidianità e l'universalità dei temi trattati fanno
del regista giapponese uno dei più empatici autori, perchè chiunque può
riconoscersi nei suoi personaggi come fossero nostre proiezioni; in effetti il
saper raccontare temi così vasti e in fondo semplici, ma ricchi di
coinvolgimento, è la vera forza delle storie di Kore-eda.
Dalla famiglia in crisi nasce la solitudine, il senso di
sconfitta personale e la difficoltà ad affrontare la vita di tutti i giorni (
frequentemente nel film sentiamo racconti di gente scomparsa ); ma nella
famiglia stessa, attraverso una analisi della propria personalità , dei propri
tratti caratteriali, delle scelte effettuate è possibile tornare a sentire un
calore umano perso.
After the Storm , pur nella sua semplicità, ci offre ancora
una volta una lettura delle relazioni umane lucida, pacata ma intellegibile e,
in un paio di circostanze, addirittura commovente, da parte del regista
giapponese che per l'occasione si avvale di nuovo di un bravissimo Abe Hiroshi
, di una etera Maki Yoko e di una straordinaria Kiki Kirin, altra presenza
consolidata nelle pellicole del regista.
…Maestro en humanidad, Koreeda teje su historia con
pasmosa naturalidad, y los personajes, a pesar de sus debilidades, se hacen
querer, porque su lado bueno pugna siempre con la inclinación egoísta, y esa
lucha, donde hay victorias y derrotas, es la vida misma. Sorprende el
equilibro, el dibujo atinado de cada uno y las razones que les mueven. No hay
torpeza grosera en mostrar al protagonista apostando, y buscando algún objeto
que vender de su difunto padre, para conseguir algún dinero. O a la madre y
abuela –inspirada en la madre de Koreeda, que vive con su familia–, apoyando
las tretas de su hijo, cuyos defectos conoce mejor que nadie, como tampoco le
eran desconocidos los de su esposo.
Un director hollywoodiense, en el peor sentido del
adjetivo, habría cargado de efectismo la noche tormentosa, un aguacero
tremendo, con padre e hijo en el parque infantil, y la madre saliendo a
buscarles bajo la lluvia. Koreeda sabe imprimir emoción a este pasaje, como a
todo lo demás, sin artificios ni trucos baratos, sencillamente dando las
indicaciones precisas a sus estupendos actores, y dejando que sean ellos y la
historia los que conmuevan, como debe ser. "Después de la tormenta, viene
la calma", asegura el dicho, y así debiera ser aquí también el caso, la
tormenta adquiere entonces un preciso sentido simbólico, de cómo las relaciones
familiares pueden y deben atemperarse, pese a las dificultades.
lunedì 29 maggio 2017
Tutto quello che vuoi - Francesco Bruni
un film che non ti aspetti, un viaggio nella conoscenza di due persone che sembrano lontanissime, Giorgio, che ha l'Alzheimer, vuole stare con Alessandro, e Alessandro piano piano vuole bene al vecchietto.
nel film c'è spazio anche per un mistero, il poeta l'ha scritto come sa fare lui, i ragazzi si buttano in una caccia al tesoro.
niente sembra fuori posto, ogni follia ha una sua logica, nascosta.
Giuliano Montaldo sembra che abbia fatto sempre l'attore, ha imparato molto dai grandi che ha diretto da regista, riesce a essere un personaggio divertente e triste nello stesso tempo.
una commedia che fa ridere, emozionare, coinvolgere.
da non perdere - Ismaele
nel film c'è spazio anche per un mistero, il poeta l'ha scritto come sa fare lui, i ragazzi si buttano in una caccia al tesoro.
niente sembra fuori posto, ogni follia ha una sua logica, nascosta.
Giuliano Montaldo sembra che abbia fatto sempre l'attore, ha imparato molto dai grandi che ha diretto da regista, riesce a essere un personaggio divertente e triste nello stesso tempo.
una commedia che fa ridere, emozionare, coinvolgere.
da non perdere - Ismaele
QUI il film completo, su Raiplay
...A una società affetta da un Alzheimer
collettivo la cui forma patologica sembra escludere pervicacemente qualsiasi riferimento
al passato recente e, ancor più, remoto Bruni ricorda che è grazie alla presa
di coscienza della nostra storia, che passa attraverso quella di chi ci ha
preceduto, che si può camminare verso il futuro. Lo fa sapendo suscitare quelle
forme di sorriso e di riso che nascono da una riflessione profonda e da uno
sguardo sensibile ed acuto capace di graffiare il muro di ogni possibile
indifferenza.
…Quello di Francesco
Bruni è un film che ce l'ha fatta. Un po' sentimentale, un po'
comico, un po' avventuroso: quando sembra aver detto già tanto (anche troppo,
in termini di minutaggio dedicato al dialogo), Tutto quello che vuoi si trasforma in un improbabile road
movie e ogni personaggio si trasforma in qualcosa di diverso. Di storie di
incontri fra anziani e giovani il cinema è pieno, ma l'alchimia della coppia di
protagonisti è travolgente: una nota di merito in questo va - non ce ne vorrà
l'immenso Giuliano
Montaldo - al più giovane dei due attori, Andrea Carpenzano, che accanto a un mostro del cinema sembra perfettamente a
suo agio.
…Tutto quello
che vuoi si muove certamente
lungo una traccia di pericoli e di conoscenza. Sembrerebbe una evoluzione
narrativa stimolante, orientata positivamente verso il cambiamento e la
crescita. Il ‘sapere’ del vecchio si espande nella poesia e arriva in modo
impercettibile al giovane. Bello, encomiabile, auspicabile. Sembra però che la
brusca marcia indietro di Alessandro (la ‘pace’ con il padre) percorra un
sentiero alquanto brusco e non del tutto credibile, abitato da improvvisi
trasalimenti e pacificazioni. Si, è vero che i giovani non conoscono né storia
né geografia, non rispettano età e buone maniere, ma appunto vanno affrontati
secondo una certa logica dei caratteri…
…Quanto alla poesia, questa non è certo una cosa facile da raccontare
sul grande schermo, per cui nel corso del film fanno capolino sentenze
difficili da digerire del calibro di “le poesie si scrivono quando non si sa
dove mettere l’amore”, oppure “le cose belle sono inutili, come la poesia”. Per
fortuna poi, a fare da contraltare, ci pensa una bella declamazione a voce alta
di un articolo del Corriere dello Sport. Interessante è poi l’utilizzo che
Bruni fa dei videogame, quali insospettabili strumenti di comunicazione tra
giovani e anziani, dal momento che consentono di reinscenare ora una partita
del Grande Torino, ora una battaglia della Seconda Guerra Mondiale.
Non tutte le trovate sfoderate da Bruni dunque funzionano, a tratti si ha
l’impressione di osservare il nudo meccanismo da manuale di sceneggiatura,
uscendo dunque dalla finzione per apprezzare il lavoro che ci sta dietro, tutto
volto a rivitalizzare per l’ennesima volta un copione già di suo usurato.
Ma è innegabile che Tutto quello che vuoi con il suo zigzagare nel tempo e nello spazio, un po’ colto e un po’ cialtrone, spesso riesca a cogliere nel segno e a strappare sapide risate, raggiungendo una non trascurabile autenticità soprattutto nella resa dei suoi personaggi, che aprono la strada a un sentimentalismo accorato e schietto, a cui lo spettatore non può fare a meno di aderire. Ed è difficile dargli torto.
Ma è innegabile che Tutto quello che vuoi con il suo zigzagare nel tempo e nello spazio, un po’ colto e un po’ cialtrone, spesso riesca a cogliere nel segno e a strappare sapide risate, raggiungendo una non trascurabile autenticità soprattutto nella resa dei suoi personaggi, che aprono la strada a un sentimentalismo accorato e schietto, a cui lo spettatore non può fare a meno di aderire. Ed è difficile dargli torto.
…La genuinità spigolosa di Andrea
Carpenzano (in una prova che ricorda incredibilmente il Mastandrea degli
esordi) e l’incredibile umanità di Montaldo (che raggiunge l’autenticità dei
non professionisti) si sposano perfette e trascinano il pubblico in una storia
che, pur personale (dei personaggi e del suo regista), si conferma, scena dopo
scena, universale. L’allegra sofferenza e lo strazio lieve dell’avventura
affettuosa di un “nonno” e un “nipote”, di un grande uomo senza memoria e del
suo giovane compagno senza prospettive, sono sentimenti immediati,
irresistibili. Come il Moretti di Mia Madre o il Virzì de La prima cosa bella, Bruni usa il
proprio dolore per realizzare del Cinema che diventa subito Condivisione. Il crescendo emotivo di Tutto
quello che vuoi, arricchito da intuizioni visive fortissime (i ricordi confusi di
Giorgio che si materializzano, lo studio con le poesie incise nei muri, come
nelle celle del carcere di Via Tasso), non può che concludersi in un piccolo
finale ideale, dove ancora una volta parole come Memoria e Poesia (bellissimi i
versi scritti per il film da Simone Lenzi dei Virginiana Miller) si confermano
temi decisivi, senza mai il bisogno di sottolinearli ossessivamente.
…Pur nella semplicità del suo racconto (che comunque è
decisamente difficile ottenere in forme così limpide), il film di Francesco
Bruni è la dimostrazione che si possono continuare a realizzare delle commedie
(all’italiana o meno) ma che al fondo ci deve essere sempre un tentativo di
dialogo con il mondo. La sola cosa che può renderle necessarie.
Tutto quello che vuoi ha il merito di essere una commedia che funziona riattivando un dialogo non derivativo con una stagione mai dimenticata del nostro cinema.
Tutto quello che vuoi ha il merito di essere una commedia che funziona riattivando un dialogo non derivativo con una stagione mai dimenticata del nostro cinema.
…La sceneggiatura non si fa mancare
alcune sonore cadute di stile (come l'innesto di sequenze oniriche fuori
contesto con il registro a cui sopra abbiamo fatto riferimento), la regia si
mantiene sempre piuttosto scolastica e accademica e si segnala, più che altro,
qualche buona soluzione di montaggio; nelle interpretazioni abbiamo invece
forse le maggiori soddisfazioni: se Montaldo - regista, prima che attore (suo
era il "Sacco e Vanzetti" del 1971, con Gian Maria Volonté e
l'indimenticabile colonna sonora di Ennio Morricone) - convince
relativamente nella parte dell'anziano malato, Carpenzano (che, siamo pronti a
scommetterci, rivedremo ancora) si rivela un'autentica sorpresa nella gestione
dello spontaneo e superficiale Alessandro.
"Tutto quello che vuoi" scorre allora velocemente, contraddittorio come la realtà che intende raccontare, tra la brillantezza delle battute e la prevedibilità dell'intreccio, tra la potenza di alcune soluzioni narrative (la stanza come pagina di poesia) e la convenzionalità di altre (la malattia, la letteratura e la seconda guerra mondiale come rimandi al tema della memoria), fino a uno dei finali più genuinamente belli ci sia capitato di vedere al cinema in questi ultimi tempi. Lo stacco che cala il sipario sul filmato e introduce lo schermo nero, prima dei relativi titoli di coda, arriva con una dolcezza disarmante e con un tempismo veramente sorprendente, tanto da far rivalutare quasi per intero i più di cento minuti precedenti. Testimonianza delle indubbie capacità di Bruni e, tuttavia, della difficoltà che ancora manifesta nel realizzare un'opera veramente convincente in tutta la sua durata.
"Tutto quello che vuoi" scorre allora velocemente, contraddittorio come la realtà che intende raccontare, tra la brillantezza delle battute e la prevedibilità dell'intreccio, tra la potenza di alcune soluzioni narrative (la stanza come pagina di poesia) e la convenzionalità di altre (la malattia, la letteratura e la seconda guerra mondiale come rimandi al tema della memoria), fino a uno dei finali più genuinamente belli ci sia capitato di vedere al cinema in questi ultimi tempi. Lo stacco che cala il sipario sul filmato e introduce lo schermo nero, prima dei relativi titoli di coda, arriva con una dolcezza disarmante e con un tempismo veramente sorprendente, tanto da far rivalutare quasi per intero i più di cento minuti precedenti. Testimonianza delle indubbie capacità di Bruni e, tuttavia, della difficoltà che ancora manifesta nel realizzare un'opera veramente convincente in tutta la sua durata.
…Lo sguardo di Bruni è quello di un
regista attento ai giovani e ai loro bisogni e il risultato è un film dalla
scrittura puntuale e scorrevole. L’evoluzione di Alessandro è tangibile e
costellata da ostacoli (le problematiche con il padre, un nuovo “possibile”
amore, lo scontro con un amico di vecchia data), ma gli permette di conoscere
un nuovo lato di sé: la preoccupazione per il prossimo.
Tutto quello che vuoi è un prodotto che mette di buonumore, che fa riemergere
il ricordo che “graffia” letteralmente i muri di una stanza dopo un avvenimento
straziante, che scava nella giovinezza di un amore e nella fugace amicizia
durante un periodo doloroso. Inoltre il film di Bruni fa riscoprire il garbo
giovanile, che sa affidarsi alla saggezza e al fascino di una mente inceppata
(che finisce per ritrovarsi) per poi prendersene cura.
Tutto quello che vuoi coinvolge con la sua leggerezza e con la sua capacità di
farsi ascoltare e farsi tramite di un messaggio importante: la memoria è un
tesoro che va custodito per non perdersi definitivamente ed essere incapaci di
camminare verso il futuro.
da qui
…Francesco,
com’è stato scrivere e dirigere un film che prende le mosse da una vicenda che
ti tocca da vicino, la malattia di tuo padre, affetto da Alzheimer?
Per certi versi è stato liberatorio. Man mano che procedevo nella scrittura e nella realizzazione del film la vera vicenda si faceva molto drammatica, quindi per me era in qualche modo un alleggerimento della pena che stavamo provando in quei giorni, e che si è conclusa da poco tempo. È stato una maniera, per me, per ricordare mio padre in quei momenti in cui ancora si poteva ridere insieme a lui. È stato delicato, ma liberatorio.
Tutto quello che vuoi è un film che parla della memoria. Vediamo oggetti, e scritti, che custodiscono i ricordi di Giorgio, che rimarrebbero però del tutto inerti se non ci fosse un ragazzo, Alessandro, che a un certo punto decide di decifrarli. È un film che parla della trasmissione del ricordo e del dialogo fra generazioni diverse, un tema che ricorre nella tua filmografia.
Devo dire che è curioso, in effetti c’è come una coazione a ripetere da parte mia. L’unica spiegazione che ti so dare è che il teatro familiare, o comunque le relazioni parentali, sono una fonte inesauribile dal punto di vista drammaturgico, ti danno infinite possibilità.
Sono cose che conosco molto bene, come tutti noi del resto, è un terreno comune, attraverso cui penso di poter coinvolgere il pubblico: chiunque abbia una famiglia o delle relazioni complesse, al di là dell’immagine che se ne vuole dare all’esterno. Forse è questo il motivo per cui mi piace raccontare questo tipo di storie. Per quanto riguarda la memoria, invece, è interessante quello che dici: in questo film l’apprendimento, anche della storia e della letteratura, passa attraverso la motivazione, che è quella che manca a scuola fondamentalmente: una spinta molto forte, altruistica nel caso del protagonista, opportunistica nel caso degli altri ragazzi, che sono capaci di andare a spulciare i libri quando è il caso!...
Per certi versi è stato liberatorio. Man mano che procedevo nella scrittura e nella realizzazione del film la vera vicenda si faceva molto drammatica, quindi per me era in qualche modo un alleggerimento della pena che stavamo provando in quei giorni, e che si è conclusa da poco tempo. È stato una maniera, per me, per ricordare mio padre in quei momenti in cui ancora si poteva ridere insieme a lui. È stato delicato, ma liberatorio.
Tutto quello che vuoi è un film che parla della memoria. Vediamo oggetti, e scritti, che custodiscono i ricordi di Giorgio, che rimarrebbero però del tutto inerti se non ci fosse un ragazzo, Alessandro, che a un certo punto decide di decifrarli. È un film che parla della trasmissione del ricordo e del dialogo fra generazioni diverse, un tema che ricorre nella tua filmografia.
Devo dire che è curioso, in effetti c’è come una coazione a ripetere da parte mia. L’unica spiegazione che ti so dare è che il teatro familiare, o comunque le relazioni parentali, sono una fonte inesauribile dal punto di vista drammaturgico, ti danno infinite possibilità.
Sono cose che conosco molto bene, come tutti noi del resto, è un terreno comune, attraverso cui penso di poter coinvolgere il pubblico: chiunque abbia una famiglia o delle relazioni complesse, al di là dell’immagine che se ne vuole dare all’esterno. Forse è questo il motivo per cui mi piace raccontare questo tipo di storie. Per quanto riguarda la memoria, invece, è interessante quello che dici: in questo film l’apprendimento, anche della storia e della letteratura, passa attraverso la motivazione, che è quella che manca a scuola fondamentalmente: una spinta molto forte, altruistica nel caso del protagonista, opportunistica nel caso degli altri ragazzi, che sono capaci di andare a spulciare i libri quando è il caso!...
domenica 28 maggio 2017
Il viaggio di Felicia – Atom Egoyan
un Bob Hoskins da Oscar per un personaggio complesso, in una storia che sembra semplice.
ma le apparenze ingannano, gentilezza, amore, sincerità sembrano vere, ma poi...
povera Felicia, in cerca del padre del figlio che verrà, e fortunata a trovare il signor Hilditch.
un piccolo capolavoro da non perdere - Ismaele
ma le apparenze ingannano, gentilezza, amore, sincerità sembrano vere, ma poi...
povera Felicia, in cerca del padre del figlio che verrà, e fortunata a trovare il signor Hilditch.
un piccolo capolavoro da non perdere - Ismaele
… Tratto dal romanzo di William Trevor e
diretto da Atom Egoyan (autore de "Il dolce domani" e
"Exotica") con alcuni adattamenti, il film punta molto sulla
psicologia dei personaggi, entrambi influenzati in maniera negativa dai
genitori, ed entrambi solitari e in fuga dalla realtà. Anche la figura di
Hilditch è diversa da quella del solito killer, ma è un analisi accurata sulla
psiche fragile e emotiva del protagonista.
È un film interessante che rispecchia le altre opere di Egoyan, che si avvale della straordinaria performance di Bob Hoskins, e che avrebbe senz'altro meritato di vincere il festival di Cannes.
È un film interessante che rispecchia le altre opere di Egoyan, che si avvale della straordinaria performance di Bob Hoskins, e che avrebbe senz'altro meritato di vincere il festival di Cannes.
…Egoyan all'apparenza propone un cinema classico sotto tutti
i punti di vista eppure "Il viaggio di Felicia" è
estremamente innovativo nel linguaggio. Se a prima vista assume i toni del road movie, del romanzo di
formazione o del classico film drammatico che sottende una profonda storia di
amicizia, ben presto e in modo molto graduale, emergono i toni del thriller
psicologico, dove il personaggio di Hilditch rivela il suo volto di killer
seriale. Quell'uomo mite e gradevole svela i suoi segreti a cominciare dal suo
rapporto morboso con la madre, diva del mondo della cucina, che continua a
coltivare attraverso le registrazioni dei suoi programmi.
Il film si apre con una telecamera che indugia in una casa arredata con
gusto retrò e con un uomo che si diletta con grande passione nella preparazione
di deliziosi manicaretti. Si utilizza una musica soave anch'essa di gusto
antico, che crea un'atmosfera calda, accogliente ma soprattutto gioiosa. Il
personaggio di Hildich è interpretato magistralmente da Bob Hoskins
dall'apparenza rassicurante e bonaria. Piccole cose disturbano quella idillica
quiete solitaria domestica, ovvero alcuni sguardi e uno sgabuzzino pieno di
prodotti per la cucina tutti ancora incartati…
...Egoyan
abbandona la rigida linearità per affidarsi alla mancanza di vettorialità:
rompe gli schemi della stretta cronologia per affidarsi alla disomogeneità
narrativa, ma non al disordine. Quello che viene a crearsi è una specie di
mosaico che piano piano si ricompone per formare un corpo unico, visto da
differenti angolazioni e da prospettive temporali poste su livelli discrepanti,
le quali si uniscono per dare un corpo unico, monolitico e granitico nella sua
riuscita finale. Lo stesso regista spiega la sua scelta di campo, ormai
caratteristica del suo modo di fare cinema, con una logica ferrea che evidenzia
una volta di più la sua grande coerenza stilistica: «Usare il tempo in maniera
strettamente lineare mi fa sentire come in prigione. La mente, per sua natura,
fluttua avanti e indietro tra le diverse esperienze quando esse si relazionano
con le circostanze del tempo presente, e per me è assolutamente essenziale
strutturare i film in questo modo. La nostra diffidenza nei confronti di una
narrazione non lineare è una conseguenza del fatto che la maggior parte dei
film non approfitta delle possibilità del mezzo cinematografico. Sono convinto
che quando si mostrano scene frammentate o sequenze non cronologicamente
lineari, che a prima vista sembrano prive di coesione, ci sia in realtà un
grande impulso creativo ed una interazione con il pubblico che deve rimettere
assieme i pezzi. Questa tecnica rende attivi gli spettatori, li tiene impegnati
- li rende più coinvolti nella storia - a patto che, ovviamente, io riesca a
conquistarmi la fiducia del pubblico. Il pubblico ti seguirà nel viaggio del
film se sa che i pezzi del film, ad un certo punto, si ricomporranno in un
quadro».
…Egoyan is such a devious director, achieving his effects at a level
below the surface. He never settles for just telling a story. He shows people
trapped in a matrix of their past and their needs. He embraces coincidences and
weird lurches in his plots because he doesn't want us to grow too confident
that we know how things must turn out. He almost never provides a tear-jerking
scene, an emotional climax, a catharsis. It's as if his films inject materials
into our subconscious, and hours later, like a slow reaction in a laboratory
retort, they heat up and bubble over.
You leave "Felicia's Journey" appreciating it. A week later,
you're astounded by it.
sabato 27 maggio 2017
Remember Me – Ashley Pierce
scritta da Gwyneth Hughes, Remember Me è una serie davvero bellissima, straordinari gli interpreti, Michael Palin e Jodie Comer su tutti, una storia di fantasmi che ti tiene incollato allo schermo ogni minuto.
solo tre episodi, praticamente un film lungo.
non privartene, se ti vuoi bene, nessuno protesterà dopo la visione, ci scommetto - Ismaele
solo tre episodi, praticamente un film lungo.
non privartene, se ti vuoi bene, nessuno protesterà dopo la visione, ci scommetto - Ismaele
Una casa infestata, una canzone che ritorna ossessivamente e un trauma mai
superato sono gli ingredienti principali di Remember Me, miniserie in tre
parti trasmessa dalla BBC.
È un prodotto veramente british questo cupo horror diretto da Ashley Pierce che
discende direttamente dalla tradizione delle ghost-stories all’inglese, quella
che ha in Giro di vite di Henry James il suo
rappresentante principale. Qui però i protagonisti non sono dei bambini, bensì
un uomo anziano, interpretato dal Michael
Palin dei Monty
Python, che abbandona la propria casa e i tristi ricordi ad essa
collegati, solo per scoprire che la separazione sarà molto più traumatica di
quanto immaginato. Un inizio folgorante e uno stile sempre ricercato e curato
nella costruzione delle immagini non riscattano tuttavia un prodotto che perde
ritmo nell’avanzare della storia, e che in fondo non colpisce quanto avrebbe
potuto.
L’incipit, come detto, è davvero invitante. Tom
Parfitt (Michael Palin) finge una caduta dalle scale per poter lasciare la
propria dimessa e cadente dimora e andare a vivere, in quello che definirà il
miglior giorno della sua vita, in una casa di cura. È solare come non lo era da
anni, accarezza l’aria con la mano lungo il tragitto verso la sua probabile
ultima destinazione. Ma un’oscura presenza non si rassegna a lasciarlo andare,
incombendo su di lui e sulle persone che lo circondano…
…a
presenza di icone e personaggi orientali che vengono inseriti (anche i vicini
di casa di Tom sono immigrati dall’ex colonia britannica) reggono tutta
l’impalcatura della vicenda. Non è di certo una casualità che il Paese in cui
si svolgono i fatti sia legato a doppio filo con l’India, in una storia
sanguinolenta di occupazione e dominio culturale, e che sia proprio il Paese
asiatico che in questo caso vuole farsi ricordare a qualsiasi costo. Un altro
aspetto, secondario ma senza dubbio rilevante, concerne la lieve impronta di
genere che affiora guardando Remember
Me. La presenza quasi materna, possessiva, che accompagna la vita
dell’anziano signore: la compagna, ormai defunta, o Hannah che, come una nipote
mancata, crederà subito nella sua innocenza: la partecipazione femminile sembra
essere una costante, causa anche di una solitudine più lunga di quel che si
pensa.
C’è poi una
ballata popolare inglese, “Scarborough Fair”, risalente probabilmente agli
ultimi anni del XVII secolo e rieseguita in diverse versioni (quella di Simon
& Garfunkel o, in italiano, di Angelo Branduardi), che ci accompagna lungo
tutta la serie. La sceneggiatrice Hughes sembra adottare l’interpretazione più
contemporanea delle parole, in cui per un mondegreen dell’originale alcuni termini vengono
mal percepiti dando ulteriore senso ai tormenti che perseguitano i personaggi. Remember Me sintetizza dentro di sé queste
immagini così diverse tra loro, ma in modo armonioso e non stridente. Così che
il risultato finale è, senza dubbio, un prodotto che lascia un ottimo ricordo.
…Bastano i primi minuti per capire il prodotto che ci
troviamo davanti e quali sono i suoi punti di forza. Remember Me è un mystery
sovrannaturale con una vena horror prima accennata, inquietante, poi sempre più
manifesta con una progressione che ricorda quella dello Shining di Stanley
Kubrick. Tra i punti di forza ci sono sicuramente l’ambientazione nordica e il
tono malinconico che invece richiamano una Twin Peaks che ha smussato i suoi
angoli più grotteschi e visionari. Ma il vero catalizzatore di questo primo
episodio è senza dubbio Palin, il cui talento lampante emerge già, dicevamo, in
quei primi minuti, senza neanche bisogno che lo stesso pronunci una parola. Lo
sguardo tormentato e stanco insieme, un volto comune ma allo stesso tempo
misterioso donano a questa serie un protagonista potente che guida un cast
ottimo, composto dal detective solitario Mark Addy, fino alla giovane Comer,
ragazzina a confronto con i problemi di un mondo e dell’altro.
…Remember
me è
uno slow burning drama come lo chiamano gli inglesi, un dramma che brucia
lentamente e che cresce col passare dei minuti impreziosito da una confezione
come la solito inappuntabile e da un cast eccellente, inutile sottolineare
ulteriormente le prove dei tre protagonisti .
Remember me è un ottimo modo per iniziare l’anno televisivo e per stare accoccolati davanti al camino mentre fuori nevica, lasciandosi cullare da una fiaba gotica e trasportare in una terra senza tempo, piena di misteri e di fascino.
Certo che la BBC fa veramente dei bei regali ai suoi spettatori…
Remember me è un ottimo modo per iniziare l’anno televisivo e per stare accoccolati davanti al camino mentre fuori nevica, lasciandosi cullare da una fiaba gotica e trasportare in una terra senza tempo, piena di misteri e di fascino.
Certo che la BBC fa veramente dei bei regali ai suoi spettatori…
venerdì 26 maggio 2017
Kruh in mleko (Black and White) - Jan Cvitkovic
un bianco e nero vero e implacabile, in una storia dove i colori sono banditi.
una famiglia distrutta per un bicchiere di troppo, anzi ben più di uno.
il padre esce dalla struttura per alcolisti dove si è disintossicato, poi una giornata di follia fa scivolare il mondo all'indietro.
non ci sono prediche, solo una storia.
io la farei vedere nelle scuole, per veder l'effetto che fa.
dimenticavo di dire la cosa più importante, appena lo troverete vedrete dell'ottimo cinema, un piccolo capolavoro che non si dimentica - Ismaele
una famiglia distrutta per un bicchiere di troppo, anzi ben più di uno.
il padre esce dalla struttura per alcolisti dove si è disintossicato, poi una giornata di follia fa scivolare il mondo all'indietro.
non ci sono prediche, solo una storia.
io la farei vedere nelle scuole, per veder l'effetto che fa.
dimenticavo di dire la cosa più importante, appena lo troverete vedrete dell'ottimo cinema, un piccolo capolavoro che non si dimentica - Ismaele
In the sixties, during the golden age of socialism, a big establishment named the “Taverna” was built in my hometown. It was intended for workers as a place where after hard work they could treat themselves to a subsidized lunch, play a game of chess, relax by bowling and have a drink or two.
As the years went by this place was steadily becoming less and less similar to what it was intended for in the beginning. It became a refuge for people who for some reason did not want to spend their spare time at home. The divorced, the lonely, people who did not get along with their relatives, alcoholics, the unemployed and young people who, like me, did not have anywhere else to go. The “Taverna” was now open all night long.
At that time (I was about 16 or 17 years old) a certain scene made a profound impact upon me. A chap, a family man whom I knew by appearance, came to a halt in the middle of the tavern at about three o’ clock in the morning, completely drunk, holding a plastic bag in his hand. There was a moment when it seemed that this man realized how he had ruined his own life. In the bag that he dropped on the floor were a loaf of bread and a liter of milk.
This scene remained with me somewhere in my sub consciousness all through the years until I decided to make a film based on it. I have accomplished this by adding the previous and the next day to that moment, that is, a bit of the past and a bit of future.
What was created is a film that actually does not examine the social conditions and the obvious problems of the protagonists so much. Instead it focuses more on their yearning for mutual love and warmth. The film looks especially closely at the mistakes that the protagonists make, because of which their final goal is farther and farther away.
Bread and Milk is a film about people living between heaven and hell. About people we all know.
Jan Cvitkovič
Cinema minuscolo ma emozionante, fatto della semplice, quasi algida esposizione della giornata di una famiglia allo sbando.
Un padre alcolizzato, un figlio tossicodipendente, una madre senza la forza necessaria per fronteggiare la situazione.
La sincerità di Jan Cvitkovic - ex studente di fisica, poi vagabondo attraverso Israele, Egitto, Africa orientale e infine convertitosi allo studio dell'archeologia prima di approdare al cinema - e la sua distanza, priva di moralismi, dai personaggi che racconta, rende vivi i cliché. E fa vibrare quanto basta un vero film di soli 68 minuti, inizialmente inteso come cortometraggio e poi allargatosi seguendo le esigenze drammatiche dei personaggi così come queste venivano sviluppandosi durante le prove, prima delle riprese.
Immerso in un bianco e nero insieme intimo e documentario (girato in 16mm colore e poi gonfiato in 35mm b/n), col suo piglio asciutto e parsimonioso Kruh in mleko(letteralmente "Pane e latte") non spreca un fotogramma, non si concede una sola lungaggine.
Perfetta la colonna sonora, fra hardcore e techno.
Un padre alcolizzato, un figlio tossicodipendente, una madre senza la forza necessaria per fronteggiare la situazione.
La sincerità di Jan Cvitkovic - ex studente di fisica, poi vagabondo attraverso Israele, Egitto, Africa orientale e infine convertitosi allo studio dell'archeologia prima di approdare al cinema - e la sua distanza, priva di moralismi, dai personaggi che racconta, rende vivi i cliché. E fa vibrare quanto basta un vero film di soli 68 minuti, inizialmente inteso come cortometraggio e poi allargatosi seguendo le esigenze drammatiche dei personaggi così come queste venivano sviluppandosi durante le prove, prima delle riprese.
Immerso in un bianco e nero insieme intimo e documentario (girato in 16mm colore e poi gonfiato in 35mm b/n), col suo piglio asciutto e parsimonioso Kruh in mleko(letteralmente "Pane e latte") non spreca un fotogramma, non si concede una sola lungaggine.
Perfetta la colonna sonora, fra hardcore e techno.
…Il regista Jan Cvitkovic, ex studente di fisica votato al viaggio e all’archeologia, ritrae con pennellate delicate le ferite di una famiglia in cui si riconosce un intero popolo. Girato interamente in Slovenia, Kruh in mleko (Bread and Milk) è il ritratto sensibile di un destino di inetti, il cui ultimo grido disperato si traduce in un rantolo di follia distruttiva. Una storia che affonda nel sentimento cosmico con un’economia poetica che non si perde in melodrammaticità superflua, ma si declina in un’ora di sensibilità emozionante, senza la necessità di quelle elucubrazioni cervellotico-filosofiche che sembrano interessare sempre più gran parte dell’ultimo cinema. La pellicola, inizialmente girata in 16mm e poi gonfiata a 35, era destinata al cortometraggio, ma il regista ha lasciato scorrere il respiro naturale dei propri personaggi su cui poggia discreto l’occhio meccanico, definendone con sguardo documentario le ferite più intime. Una musica altalenante di techno mista ad hardcore stride con ogni singola scena marcatamente lirica, con i silenzi venati di dolore che incidono quel bianco e nero di un’esistenza in declino. Il grigio-bianco che pervade l’intero film si frange in un secondo finale che segna l’ineluttabilità di un manicheismo non superato: paradiso e inferno si delineano nell’asettico bianco dell’ospedale e nel nero prolungato che scende sull’ultimo fotogramma di mondo silenzioso, ormai invaso dal suono pneumatico…
… La debolezza umana invade la quotidianità su cui la macchina da presa si sofferma timidamente, senza lungaggini, senza sprecare un singolo fotogramma, tutti tesi al senso di perdita di chi si accascia sui propri fallimenti. Il piglio asciutto e parsimonioso evita l’eccesso di un sentimentalismo patetico, a vantaggio di una vena intimistica fatta di dettagli essenziali. Un film sincero privo di moralismo, che impasta il bianco nel grigio per raccontare, in una sorta di mise en abime, la tragicità che intacca quei volti, quelle giacche, quei luoghi invecchiati e lisi.
… It doesn’t sound much like a comedy, but the disasters escalate so quickly and cruelly that they spiral into crazy farce: think Some Mothers Do ave Em, as written by Raymond Carver. But the film isn’t just an acid, black (and white) joke: with the minimum of effort, Cvitkovic captures the atmosphere of this town (Tolmin) by night, especially The Tavern. Identified in the credits as the Hamurabi Bar, this scruffy pub becomes one of the movies great dives: If this town is Eden, then this Tavern is the apple reads scrawled graffiti on the wall outside. On another wall, there’s the legend Love never dies, under which Robi slumps among cardboard boxes in lesser hands, the irony would be too cheap, but Cvitkovic knows he can get away with it if he takes things to sufficient extremes. And he pulls it off, loading Ivan with truly Job-like afflictions, only faltering at the very end: the director builds to a terrific dirty-poetic image, only to cobble on a poem, a dedication, and a final shot that goes just a step too far. At 67 minutes, this really would have been something special.
da quigiovedì 25 maggio 2017
mercoledì 24 maggio 2017
Kongekabale (King's Game) - Nikolaj Arcel
uno di quei film che in sala sarebbe stato un grande successo, ma da noi non è mai arrivato, è solo un film della piccola Danimarca, mica della portaerei Usa.
Nikolaj Arcel ha il dono di scrivere e/o dirigere film che meritano molto, questo è di quelli.
film molto attuale, sulla politica marcia, il giornalismo, gli intrighi, la verità, e non annoia un minuto.
cosa volere di più?
buona visione - Ismaele
Nikolaj Arcel ha il dono di scrivere e/o dirigere film che meritano molto, questo è di quelli.
film molto attuale, sulla politica marcia, il giornalismo, gli intrighi, la verità, e non annoia un minuto.
cosa volere di più?
buona visione - Ismaele
…Despite being a début, Arcel has managed to put
together a convincing piece with a very distinctive look. Parts of it end up
being almost monochrome as the palette is drained of almost all hues leaving
mostly blues and greys - it gives this bleary, early morning look that fits in
perfectly with the film's ambiance. Although this may not be the best political…
…More than just a political thriller, “King’s Game”
is a story about power, what men will do to get it, to keep it, and how hard it
is to maintain some sense of idealism is a cynical world, where everyone is
struggling for power. A key element in the story is the relationship between
the press and the legislative power. While spin in Denmark differs largely from
spin in other countries, mainly because the distance between the press, and
public, and the politicians, spin has still become an important element of the
political game, not just in order to protect politicians, but also in order to
guide “the best obtainable version of the truth”, and even as the story is
exaggerated and a composite of many persons and events, it portraits a game,
where ethics and objectivity is put aside in order to both gain and maintain
power. By doing so, it offers the viewer a base for discussion and a reference,
by which the viewer then can approach political news in general…
The Faustian pact
between politicians and the media is laid bare in King's Game, an immensely
watchable Danish conspiracy thriller. A cub reporter, Torp (Anders W
Berthelsen) is assigned to the parliamentary beat just days before a general
election, at a time when the man expected to lead a landslide victory for the
Centre Party is involved in a horrific accident. Manipulated by almost everyone
around him, the idealist journo gets a crash course in the dirty business of
politics….
martedì 23 maggio 2017
Get Out - (Scappa: Get Out) - Jordan Peele
opera prima di Jordan Peele, ma se non lo sai sembra di
vedere un'opera di Kevin Smith, o di qualcuno di esperienza.
ogni definizione di genere è riduttiva, è solo cinema come si
deve, non perfetto, ma cosa si vuole di più da un esordiente alla regia?
le avventure e gli incubi di Chris sono terribili, ma ha un amico
che più di un fratello vero.
è comunque un film sul razzismo, le apparenze ingannano, i negri
buoni sono i negri servi, i negri oggetto, i negri ogm.
la fine mi ha ricordato un po' quella del gran film che è Django
unchained.
non avete bisogno di consigli, lo so, ma sappiate che se andrete a
vedere Get Out sarete soddisfatti come non succede spesso,
promesso - Ismaele
…Se vuoi vederti il classico filmetto standard, insomma, te l'ho
già detto e te lo ripeto: scappa!
Magari scappa su Canale 5!
Ah no, lì manco di filmetti standard ne
danno più, solo fiction, reality o talent.
Se invece vuoi vederti un film a basso
budget (4 milioni e mezzo di dollari) che in patria è diventato uno dei
maggiori campioni di incasso dell'anno (oltre 170 milioni di dollari nei soli
Stati Uniti fino ad ora), quindi una pellicola in stile Sundance Film Festival
(dove infatti è stato presentato), ma godibile come il più commerciale tra i
popcorn-movies, e se cerchi un film che non sarà il capolavoro totale o l'opera
cult rivoluzionaria che hanno cercato di spacciare negli Usa, però è comunque
capace di far ridere (soprattutto grazie al mitico personaggio dell'agente TSA
interpretato da LilRel Howery), inquietare e riflettere allo stesso tempo,
scappa subito!
Dove?
Al cinema!
…Scappa –
Get Out è una
sorta di Indovina chi viene a
cena? aggiornato e
inquietante, abile nel parlare di razzismo con una forza davvero impressionante
e con metafore ben calibrate.
Coinvolgente e capace di trasmettere una tensione costante
dall'inizio alla fine, è una pellicola che riesce anche a stemperare i passaggi
più angoscianti con sottile ironia e con inserti che non si prendono troppo sul
serio…
… La cosa migliore, però, e
mi rendo conto che qui si toccano i gusti personali, è che il film sceglie di
non farci vedere le mazzate in testa, ma di deviare in qualcosa di
simil-paranormale, in una delirante conclusione che però, a me, è piaciuta da
impazzire. Inaspettata e folle, prende per il collo i nostri privilegi bianchi
e, prendendoci abbondantemente per il sedere, li rispedisce al mittente, senza
privarci di un po' di sana umiliazione…
…A prescindere, infatti, dalla
parte scientifica dell'evoluzione della trama - comunque interessante,
considerata l'esigenza e la presunzione di alcuni esponenti delle classi
sociali "alte" di potersi permettere di vincere anche il Tempo e la
Natura -, Get Out funziona come thriller e come
survival, inchioda come si deve alla poltrona e tiene benissimo il campo - un
campo difficile, come già sottolineato - dal primo all'ultimo minuto, senza
sbruffoneggiare con ambizioni troppo alte ma allo stesso tempo mostrando tutta
la solidità dei prodotti con le palle.
Di quelli che sopravvivono ai confronti ed ai
pregiudizi.
Di quelli che gli appassionati cercano e bramano come l'aria.
Ed è bello, in questi casi, venire soddisfatti.
Anche se il prezzo è una visione a cuore non troppo leggero.
Di quelli che gli appassionati cercano e bramano come l'aria.
Ed è bello, in questi casi, venire soddisfatti.
Anche se il prezzo è una visione a cuore non troppo leggero.
…el protagonista no está solo en el plano
cultural (se supone que está cubierto en el romántico, pero eso está por verse),
ya que si bien todos los sujetos de su propia raza con los que se encuentra en
este entorno son demasiado raros para que pueda relacionarse con ellos, se
mantiene permanentemente en contacto telefónico con su mejor amigo Rod (Lil Rel
Howery), un simpático guardia de seguridad que, además de convertirse en su
mejor consejero, posee toda la gracia y el carisma de una persona de barrio.
Pese a las ramificaciones de su mensaje y
a las posibilidades de conversación que ofrece, “Get Out” mantiene las cosas
simples en el plano narrativo, hasta el punto de que su última parte recurre a
una de esas voces en off que terminan explicándolo todo y que suelen ser un
recurso demasiado fácil. Pero en ese momento, Peele nos tiene ya completamente
de su lado, y ni siquiera necesita recurrir a un despliegue de violencia
demasiado salvaje para completar lo logrado con el invaluable soporte de
Kaluuya, cuyas expresiones emocionales no tocan una sola nota falsa.
…Los planos son siempre
claros, optando siempre por la claridad de imagen y narración. El montaje
también sigue esta línea, dejando de lado los flashbacks u
otras técnicas, y enfocándose en lo concreto. Junto con esto, el tiempo de
duración son unos muy agradables y bien aprovechados 104 minutos, de los cuales
ninguno es desperdiciado en tomas que puedan responder más a un capricho que a
lo que en verdad necesita la historia.
“¡Huye!” es exactamente el
tipo de película que necesita esta época: cine emocionante que al mismo tiempo
tenga el valor de poner sobre la mesa los temas más complejos de la actualidad.
Si a esto se le suma una ejecución casi impecable de todas las partes
involucradas, resulta una película que de seguro estará entre lo mejor de este
año.
da qui
da qui
lunedì 22 maggio 2017
The tribe - Myroslav Slaboshpytskiy
film completamente muto, perché muti sono i protagonisti.
ambientato in un istituto tutto per loro si riproducono le stesse dinamica di qualsiasi gruppo di giovani, amicizie, odi, amori, guerre.
quello che ci (mi) destabilizza è che tutto quello che succede viene urlato nel linguaggio dei segni, le violenze urlate diventano silenziose, ma non per questo meno violente.
molti vogliono fuggire, la fila all'ambasciata italiana ce lo rende un film molto vicino.
un bel, terribile e violentissimo film, da non perdere - Ismaele
ambientato in un istituto tutto per loro si riproducono le stesse dinamica di qualsiasi gruppo di giovani, amicizie, odi, amori, guerre.
quello che ci (mi) destabilizza è che tutto quello che succede viene urlato nel linguaggio dei segni, le violenze urlate diventano silenziose, ma non per questo meno violente.
molti vogliono fuggire, la fila all'ambasciata italiana ce lo rende un film molto vicino.
un bel, terribile e violentissimo film, da non perdere - Ismaele
…Il primo
lungometraggio di Myroslav Slaboshpytskiy appartiene alla categoria dei film
destinati a rimanere impressi nella memoria dello spettatore sia per quello che
raccontano che per lo stile adottato. Il regista afferma: "È un mio
vecchio sogno quello di rendere omaggio al cinema muto. Fare un film che possa
essere compreso senza che venga detta una parola. Non pensavo però a un certo
tipo di cinema europeo 'esistenzialista' in cui gli eroi stanno zitti per metà
della durata del film. Anche perché gli attori non erano muti nei film muti.
Comunicavano molto attivamente attraverso un'ampia gamma di azioni e di
linguaggio corporeo". Da qui nasce l'esigenza di una 'reale' impossibilità
di comunicare con le parole su cui si innesta la decisione di non proporre
sottotitoli neppure per tradurre l'alfabeto muto che viene utilizzato dai
protagonisti…
…Dopo
anni di cinema che ha raccontato l’handicap sfruttandolo cinicamente per
imbastire vicende strappalacrime tutte incentrate sul patetismo e sulla
retorica della denuncia dell’emarginazione, The
Tribe capovolge in maniera
radicale la prospettiva sforzandosi di raccontare un certo tipo di handicap
come normalità affetta dallo stesso malessere socioculturale responsabile del
marciume di quanti non hanno alcun tipo di handicap e rappresentano la normale società civile. E fin qui non ci
sarebbe nulla di rivoluzionario, se non fosse che Slaboshpytskiy sceglie di
affrontare questo ribaltamento di prospettive con un approccio linguistico che
non ha precedenti al cinema.
Come
annuncia minacciosa una scritta su sfondo nero prima che tutto abbia inizio, il
film è recitato «nel linguaggio dei segni dei sordomuti» e che di proposito
«non vi sono traduzione, né sottotitoli né voice over». Per 130 minuti lo
spettatore viene coinvolto in un’avventura della percezione nella quale le
coordinate del tradizionale sentire con la mente sono stravolte: mentre i
personaggi del film comunicano tra di loro con il linguaggio dei segni
nell’invalicabile mutismo che li contraddistingue e sullo schermo si sentono
(di rado) soltanto rumori d’ambiente che fanno da labile cornice sonora al
tutto, chi guarda quanto accade sullo schermo subisce la stessa emarginazione
cui sono sottoposti i sordomuti nei contesti di tradizionale comunicazione
verbale…
…Anche lo stile
adottato dal regista si adegua a questo micromondo costituito dall’istituto e
dal sistema criminale messo in piedi dai ragazzi: ogni scena, che inizia quasi
sempre con una carrellata laterale, è risolta mediante un piano-sequenza con
macchina da presa fissa posta a debita distanza dal fulcro dell’azione,
lasciando così liberi i personaggi di muoversi e (inter)agire liberamente senza
vincoli e senza cadere nel voyeurismo. La ricerca di questo realismo
diventa assoluto riprendendo scene di sesso, spesso consumato sul pavimento, in
tutta la loro cruda realtà, ma raggiungendo il culmine (e lo shock) nella scena
dell’aborto, quasi insopportabile nella sua crudezza senza peraltro mostrare
alcun dettaglio scabroso, oppure la scena finale, di una violenza così
disperata e al contempo così trattenuta da risultare ancora più shockante di
quanto non sia; perché come noi non possiamo sentire le parole (perché di
parole non ce ne sono), così non possiamo vedere tutto. Ed è lo stile (fermo,
secco, preciso) a raggelare la violenza (urlata, concitata, assoluta)…
…"The
Tribe" è anche e soprattutto la storia di un amore impossibile e di una
crudele iniziazione alle vita. Al centro del film, infatti, spiccano sempre
Sergey e la sua gang: giovanissimi ragazzi di vita che tiranneggiano i
compagni, collezionano espedienti, giocano di notte in una città che sembra
abbandonata o sopravvissuta a un'apocalisse nucleare. Sono bambini sperduti, ma
per loro non esiste un'Isola che non c'è o un Paese delle Meraviglie. Esiste al
contrario un'Ucraina di degrado, di sporcizia e bassezza (anche morale) che non
concede speranze né occasioni di riscatto. A questi emarginati dal destino
segnato, lasciati soli o accuditi da adulti aguzzini, non resta che crescere in
balia delle proprie pulsioni più bestiali: rubano, picchiano, sfruttano,
stuprano, uccidono…
Sublime tragédie contemporaine, THE
TRIBE est une immersion sensasionnelle au coeur d’un institut pour sourds et
muets – un microcosme permettant une radiographie de la société ukrainienne
contemporaine, et au-delà. Avec des signes pour tout dialogue, le film est a
plus d’un titre proprement hypnotique. Myroslav Slaboshpytskiy prodigue une
oeuvre boulversante, tout à la fois grandiose et effroyable…
…The Tribe es subversiva y exigente. Rabiosamente y
felizmente, apostillo. Como cine de la diferencia acota su foco entomológico en
una comunidad cerrada de adolescentes sordomudos. Una residencia estudiantil.
De ese microcosmos situado en los márgenes cierra más el objetivo porque se
centra en un grupúsculo con prácticas delictivas. El imperativo del film: no
utilizar el lenguaje ni ningún soporte que le acompañe. El espectador debe
entrar como si fuera uno de ellos. Una introducción con requisitos, algo
inusual y a lo que no estamos acostumbrados. Eso genera un automático proceso
de empatía con los personajes como el que busca la formación de los lazarillos,
a los que se les incorporan prácticas en las que se carezca de la visión para
que el futuro ayudante pueda comprender mejor a aquel invidente que tendrá que
asistir. Eso, a priori, sitúa el film en el umbral de dramas sociales que buscan
la concienciación, mediante la visibilización de grupos invisibles para el cine
mayoritario. Pero, lo sabemos, este tipo de películas están muy viciadas.
Desembocan en actitudes paternalistas y lo que es un acto de denuncia acaba
resultando un ejercicio lastimero y deplorable de pornografía sentimental. The Tribe le
da una patada en el culo a todas ellas, porque lo suyo no es un retrato
complaciente o idealizado. Justamente su prisma revuelve lo políticamente
correcto cuando detiene su mirada en protocriminales masculinos desalmados que extorsionan,
roban y ejercen de proxenetas. Las protagonistas femeninas se prostituyen sin
ningún conflicto moral. De hecho, el conflicto estalla cuando el protagonista
trata de romper esa situación de explotación y se encuentra con el rechazo
frontal tanto de los que abusan como de las abusadas. Para arreglar las cosas
el protagonista no lo hace como un gesto de buena acción. Sencillamente, se ha
enamorado compulsivamente de una de ellas. Y lo que le gobierna es un desmesurado
y patológico sentimiento de posesión que tendrá consecuencias fatales…
…Ammetto
però che costui abbia dei raptus registici tali da
riuscire imprevedibilmente a stupirmi, come quando inscena l’aborto
clandestino, agghiacciante ancestrale, o l’ecatombe finale, che evoca la
violenza estrema del Petroliere, i monoliti e la tribù dei primati in 2001
Odissea dello Spazio. Momenti in cui il senso non è troppo, è solo uno,
l’orrore, e nella caverna restiamo solo in due, io che guardo e lui che
parla la mia stessa lingua, sciolta da ogni contrizione sociopolitica.
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