venerdì 31 gennaio 2025

Rowan Atkinson on free speech

 

Un día sin mexicanos (Un giorno senza messicani) - Sergio Arau

 (riprendo il post dell'otto 8 febbraio 2017)


in questi tempi trumpiani qualcuno potrebbe proiettare questo piccolo grande film, inizia come un giallo fantascientifico, poi diventa cronaca possibile (come lo era La guerra dei mondi, di H.G Wells, interpretato da Orson Wellestrasmessa il 30 ottobre 1938).
sarebbe bello che si facesse un film così in Italia, magari trasmesso in tv in prima serata, e a scuola; intanto accontentiamoci di questo, del 2004, un film che fa pensare e diverte insieme, cosa volere di più?
i sottotitoli del film (completo) sono in spagnolo, buona visione - Ismaele



…Se avete un'ora e mezza da impiegare, date un'occhiata a Un giorno senza messicani, forse lo troverete sconclusionato, forse lo troverete folle e povero di mezzi, ma sono sicuro che se saprete apprezzarne le intenzioni allora non solo vi divertirete ma addirittura riuscirete a perdonargli limiti e difetti. In mezzo alle innumerevoli trovate affastellate dal regista si staglia un uomo, un barbone, un pazzo che borbotta in modo incomprensibile una frase: "loro (i messicani) erano gli unici che ancora credevano al sogno americano, gli unici che speravano di poter ancora cambiare la propria vita venendo a vivere in un posto migliore...." Fa riflettere.
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…Immaginate un giorno che tutte le persone di un’etnia diversa dalla vostra o diversa dalle etnie "approvate" spariscano. Un giorno solo. Quelle persone di cui tutti si lamentano (sono ladri, vengono a prendersi il nostro lavoro), un giorno spariscono come misteriosamente inghiottiti da una nebbia che circonda l’Italia.
Solo che nel documentario la terra e’ la California, e l’etnia di cui tutti si lamentano (sono ladri, rubano, portano droga, violenza, e ci rubano il lavoro) e’ quella messicana. Il documentario, molto intelligentemente, fa notare che nella parola messicano sono racchiuse tutte le popolazioni di lingua spagnola. Un po’ come se hai gli occhi a mandorla sei cinese (e non coreano, giapponese eccetera).
Una strana nebbia circonda la California, isolandola da tutti i contatti con gli altri stati americani. E tutti i "messicani" quel giorno spariscono nel nulla. Spariscono quelli che sono li’ legalmente, e colo che sono li’ illegalmente. Non c’e’ differenza. Spariscono giornalisti famosi, attori famosi, ma anche persone che si guadagnano da vivere raccogliendo pomodori. Ovviamente quel giorno nessuno raccogliera’ pomodori, nessuno pulira’ le strade, nessuno lavera’ i piatti nei ristoranti. E i proprietari delle compagnie non si mettono a fare il lavoro che questi "messicani" sono venuti a rubare…
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La peculiarità di Sergio Arau è dunque quella di affidarsi a una sola situazione drammatica, che è davvero basica, per parlare della questione degli immigrati negli Usa, dei pregiudizi comuni, in particolare sui messicani e sugli ispanici in California…
…Ce n’è abbastanza di carne al fuoco per il poliedrico Arau, finora attivo per alcuni videoclip, ma anche come musicista, pittore e cartoonist, oltre ad aver collaborato con Jodorowski, e nell’insieme la satira, seppur con lievi eccessi didascalici, risulta intelligente e moderatamente divertente, sia per l’argomento trattato, sia per il come, che per l’appunto sfrutta il surreale per analizzare meglio il quotidiano. L’unica cosa che è mancata a questo film, tra l’altro presente in molti festival, è stata una buona distribuzione in sala (in Italia). D’altronde, grazie alla 01, si può sì recuperare il dvd, ma con un ritardo di ben cinque anni dalla sua uscita, e senza l’abbinamento di contenuti extra, che non avrebbero guastato visto anche l’interessante tema trattato. Tema che è ancora attualissimo, specie per noi e di questi tempi; e sarebbe certo curioso pensare a “un giorno senza rumeni” immaginando un disperato Berlusconi che chiede a gran voce il loro ritorno, e insieme a lui le famiglie senza badanti, per non parlare poi dell’edilizia.
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…Sergio Arau, figlio del più famoso Alfonso, colpisce al centro con questo divertente e intelligente film a tesi che si svolge in California ma potrebbe essere ambientato ovunque esista un’immigrazione rilevante.
Grazie a una nebbia carpenteriana che isola lo Stato Arau costruisce un film in cui la scomparsa dei messicani fa emergere tutte le contraddizioni di una società che ha ormai un bisogno ineludibile degli immigrati anche se poi, in alcune sue manifestazioni, li ritiene solo presenze dannose e parassitarie.
Lo stile adottato riporta alla memoria il caustico La seconda guerra civile americana, di Joe Dante, con una particolare attenzione alla ‘narrazione’ televisiva. Arau costruisce un saggio per immagini assolutamente godibile su come sia ormai il piccolo schermo a gestire l'immaginario collettivo indirizzandone l'attenzione e ri-costruendo gli accadimenti. Un gran numero di situazioni (così come le didascalie che vengono spesso sovrapposte alle immagini) spesso amaramente divertenti potrebbero essere trasferite, con le debite ma non sostanziali varianti, alle nostre latitudini. Il pregiudizio non ha confini.
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ricordo di Marianne Faithfull

 

mercoledì 29 gennaio 2025

Un giorno in pretura, a Nuoro

Mi è capitato di trovare su Raiplay, in Un giorno in pretura, il processo che si è celebrato nella Corte d’Assise in Nuoro.

Ricordavo i fatti, a Orune (in provincia di Nuoro), l’8 maggio 2015, di mattina, un ragazzo, Gianluca Monni, insieme a molte altre persone, aspettava il pullman per Nuoro, dove frequentavano alle scuole superiori.

Ma quel ragazzo non sarebbe mai partito, da un’automobile partirono i colpi di arma da fuoco che l’avrebbero ucciso, davanti a tutti.

Grazie alle tante testimonianze delle ragazze e dei ragazzi che erano con lui, le forze dell’ordine individuarono l’assassino e i suoi scagnozzi.

Le cose sono molto complicate, l’auto (rubata) apparteneva a un ragazzo che la sera prima non era tornato a casa, e del quale, ancora, dopo 10 anni, non si è trovato il corpo.

La trasmissione, in due parti, dura complessivamente un paio d’ore, dopo aver iniziato non sono riuscito a smettere di guardare e ascoltare, per una delle visioni più sconvolgenti degli ultimi tempi, altro che film dell’orrore (che sono finti).

La nota positiva è la forza e il coraggio delle ragazze e di alcune donne adulte, già solo per questo il tempo dedicato alla visione non sarà sprecato.

 

Ecco dove vederlo:

qui la prima parte:

 

qui la seconda parte.

 

 

i giorni successivi mi sono ricordato di un libro, di Nicola Lagioia, che mi aveva lasciato una grande inquietudine.

 

scrive Italo Calvino:

"L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.

Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."


 

ecco cosa avevo scritto di quel libro:

 

La città dei vivi – Nicola Lagioia

Marco e Manuel ammazzano Luca, in modi orribili.

Nicola Lagioia ricostruisce tutte le vicende che ruotano intorno al fatto, dati causa e pretesto, in una Roma che diventa sfondo e protagonista della storia.

quello che sconvolge nella lettura (e nella scrittura) del romanzo è che non ci sono ruoli definiti per l'eternità, ma vittime e carnefici potremmo essere ciascuno di noi, in una sadica e casuale lotteria della vita e della morte.

Nicola Lagioia inizia a seguire la storia dopo un po' dal momento dei fatti, e però non lascia niente d'intentato per riuscire a ricostruire l'indicibile.

ps: il libro ricorda a tratti A sangue freddo (di Truman Capote).

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martedì 28 gennaio 2025

Ça ira, il fiume della rivolta - Tinto Brass

Tinto Brass, quando non filmava solo culi e tette, girava film memorabili.

Ça ira, il fiume della rivolta è uno dei primi film, con filmati di repertorio, montati dal bravissimo Franco (Kim) Arcalli, già montatore di alcune grandi pellicole italiane.

Ça ira è il titolo di una bellissima canzone di Edith Piaf, che accompagna tutto il film.

è un film ottimistico, quando si pensava in un futuro roseo, dopo la sconfitta dei nazisti da parte dell'Unione Sovietica (e qualcun altro) e la impetuosa decolonizzazione.

il ritmo è coinvolgente e sicuramente è un film che continua a dire molto.

buona visione - Ismaele

 

 

 

Tinto Brass nella sua fase di sperimentatore si dimostra un piccolo mago del montaggio di repertorio (complice nientemeno che Kim Arcalli) e dirige un film che mostra l'ottimismo con il quale si vedeva il futuro negli anni del terzomondismo e della decolonizzazione. Un documento prezioso su come le guerre di liberazione avrebbero potuto cambiare il mondo. Purtroppo non è andata così.

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Le vicende che nel corso del Novecento hanno condotto il Mondo sul fronte della Guerra: La Rivoluzione Russa, la Rivoluzione Messicana, la 1° Guerra Mondiale, il Nazismo, il Fascismo, la 2° Guerra Mondiale, i nuovi conflitti e le divisioni del Dopoguerra, etc...Tinto Brass segue la moda del momento e si getta in un Mondo Movies che vuole riflettere sulle rivolte mondiali e la cattiveria umana. Anche se si tratta di scene d'archivio (per lo più di cinegiornali) l'autore le monta in una maniera che vuole indurre al pacifismo sorretto da retorica. Uno dei momenti più belli è appunto fornito dalle immagini di un convegno dove ci sono molti capi di stato alla fine della 2° Guerra Mondiale che ridono e discutono inframmezzate a quelle di cadaveri, bombardamenti, etc... il tutto commentato da una bellissima canzone in lingua francese (ma sottotitolata) che parla di una lettera spedita ad essi dove gli si chiede di non fare più guerre e, se proprio le dovranno fare, che vadano loro a combattere. Davvero commovente. E tutto il film è montato così. Basta già questo a definirlo un "quasi" capolavoro!!!

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domenica 26 gennaio 2025

Il mio giardino persiano - Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha

due solitudini s'incontrano, bastano poche ore, Mahin e Faramarz sono contenti come adolescenti innamorati.

Mahin è un'infermiera in pensione, Faramarz a settant'anni deve ancora lavorare come tassista per sopravvivere.

che un regime oppressivo delle libertà di ascoltare musica, e che ci sia un polizia "morale" per controllare come le donne indossano  l'hijab in modo "corretto" sono condizioni di vita che tolgono il respiro, ma i due innamorandi vivono le loro ore felici.

è un film di gioia e bellezza contro tutto e tutti, nella prima parte, poi succede qualcosa di inatteso, ma sarebbe pura cattiveria anticiparlo qui.

un film da non perdere, promesso, purtroppo è solo in 37 sale in tutta Italia.

buona visione - Ismaele

 

 

...Al secondo lungometraggio dopo Ballad of a White Cow (presentato anche quello in concorso alla Berlinale nel 2021), i due cineasti iraniani costruiscono un altro dolente e intenso ritratto al femminile dopo quello di Mina del film precedente. C’è solo la differenza che Mahin sembra una donna più libera e battagliera e si vede nella scena con cui difende una ragazza dagli agenti nel parco e le impedisce di essere arrestata. Il tono sembra apparentemente più leggero, soprattutto in quell’incontro di notte tra i due protagonisti in una improvvisa notte di sognatori. Così l’efficace della rappresentazione della solitudine (la scena della telefonata di Mahin con la figlia continuamente interrotta e poi improvvisamente troncata) lascia poi spazio in quel gioco seduttivo culminata nella scena in cui i due si fanno la doccia vestiti, probabilmente ennesima beffa nei confronti del proprio paese. Tutto però accade dentro quella casa e si avverte la presenza delle ombre ammonitrici degli interni del cinema di Panahi, come nel taxi di Taxi Teheran e la villa sul mare di Closed Curtain che vedeva tra gli attori anche Maryam Moghaddam. Come in quel film, non ci devono essere rumori sospetti e tutto deve avvenire nell’oscurità, finale compreso. Proprio per questo, proprio alla luce della condizione dei due cineasti, Il mio giardino persiano diventa un gesto politico ribelle nascosto dietro l’amara ironia dei frequenti cambi di tono del film che sono gestiti con un grande equilibrio e con una solidità di scrittura dove il tono da favola è solo una fuggevole illusione.

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...Poco prima di metà film, Il mio giardino persiano si trasferisce completamente in un interno sera/notte – l’appartamento della protagonista – dove Mahin e Faramarz chiacchierano, bevono del proibitissimo vino da un bottiglione, mangiano frutta e dolci, siedono nel giardino tra menta, cedri e gelsomini, ascoltano musica e ballano come ragazzini in barba alla pericolosa vicina spiona…

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Mahin (Lily Farhadpour) è una donna, sola e di una certa età. Una combinazione di fattori che nella Repubblica Islamica dell’Iran difficilmente porta a qualcosa di buono. Mahin parla con la figlia all’estero solo su Face Time, perché non le è più concesso di espatriare, data l’età. Le amiche la vengono a trovare a Teheran di quando in quando e vorrebbero che si risposasse. L’assurdità della situazione, che Il mio giardino persiano cattura con sottile ironia e sentita partecipazione, è che superficialmente Mahin e il mondo di fuori concordano: è arrivato il momento che si trovi qualcuno. Ma se, nel soffocante dettato patriarcale della società iraniana, la solitudine della donna è una mortificazione della morale che solo il matrimonio può sanare – con una chiara definizione dei ruoli e delle gerarchie – Mahin immagina le cose in maniera diametralmente opposta. L’uomo è piacere, è una boccata d’ossigeno, è uno schiaffo agli anni che passano, è libertà.

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martedì 21 gennaio 2025

Il medico della mutua - Luigi Zampa

fino a pochi anni fa il film era di attualità, ora è pura fantascienza, i medici mancano, i medici di famiglia sopratutto.

Alberto Sordi è bravissimo a interpretare un medico avido (figlio di mamma, d'altronde).

la classe medica nel film fa una pessima figura, interessati ai soldi e marginalmente ai pazienti, se non come fonte di reddito.

un film da non perdere, promesso. 

buona (malata) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

Una delle commedie all'italiana di maggior incasso, una riuscita satira non troppo corrosiva sulla sanita' statale e sul mondo dei medici (dipinti tutti come arrivisti senza scrupoli e assolutamente disinteressati ai pazienti visti solo come numeri in grado di muovere denaro).Il gruppo di attori è eccellente a partire da Sordi che stavolta è assai misurato(come non gli accade nei film in cui è protagonista)per non parlare della Valeri che dipinge un personaggio memorabile. Ottime le musiche, sempre molto presenti e un finale che puo' essere visto come un'azzeccata premonizione per il futuro.....

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chi meglio del nostro Albertone nazionale poteva interpretare questo mostro partorito da una società improntata al consumismo?!? Una società in cui si lucra anche sulla salute dei cittadini.

Guido Tersilli rappresenta proprio l’italiano medio per antonomasia in quanto risulta essere mammone, donnaiolo, cinico e qualunquista. La grandezza di Alberto Sordi, che grazie a questo ruolo ottenne il David di Donatello e il Globo d’oro come miglior attore protagonista, stava nel riuscire a fare amare al pubblico personaggi che nel quotidiano avrebbe disprezzato.

Il medico della mutua, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe D’Agata (che curò anche il soggetto del film), possiamo tranquillamente definirla come una commedia satirica che, uscita nelle sale italiane nel 1968, sbancò letteralmente i botteghini italiani (il film è stato il secondo maggior incasso della stagione cinematografica italiana 1968-69 con £3.032.637.000), tanto che l’anno successivo il regista Luciano Salce realizzò il sequel dal titolo Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue.

Al grande successo di questa opera, sceneggiata da Luigi Zampa, dal talentuoso Sergio Amidei e dallo stesso Sordi, contribuì anche la colonna sonora di Piero Piccioni con l’indimenticabile Samba fortuna, rimasta nell’immaginario collettivo di milioni di spettatori.

Pertinente con il lungometraggio in questione risulta essere il seguente aforisma sarcastico dell’indimenticato artista Groucho Marx: “L’ultima volta che sono andato dal dottore mi ha dato tante medicine che, una volta guarito, sono stato male per un mese intero.”

In definitiva non si può proprio dire che il dott. Guido Tersilli abbia tenuto fede al giuramento di Ippocrate, possiamo invece affermare con convinzione che ha rispettato piuttosto lo spergiuramento di Ippocrate. Vi auguro buona visione constatando che bisogna essere prudenti nello scegliere il medico della mutua.

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Senza dubbio tra le migliori commedie italiane degli anni Sessanta, e tra i più memorabili personaggi di Sordi. Zampa gira con stile fluido e moderno (i titoli con la soggettiva dalla sirena dell'ambulanza sembrano anticipare uno stilema da poliziottesco), il cast folto e trans-generazionale infila personaggi (o mere comparsate) uno più cult dell'altro. Dalle visite a domicilio al grande ambulatorio, la sceneggiatura è un vortice senza buchi, nonostante la durata -specie per l'epoca- superiore alla media. Indimenticabile lo score di Piccioni.

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Commedie del genere hanno sempre un sapore dolceamaro perché, se da una parte riescono a intrattenere con brillantezza e senza particolari intoppi, dall’altra evidenziano il malcostume che si cela nei palazzi del sistema sanitario nazionale. Il carisma di Sordi maschera bene il cinismo del ruolo, rendendo un personaggio negativo quasi accettabile. Viene da chiedersi se sia cambiato qualcosa nel tempo o se sia rimasto tutto uguale. La forza dell’opera risiede anche nell’universalità dei temi affrontati.

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Ricordo quanto mi piacesse questo film da piccola. Quando ancora il cinema era un'incredibile scoperta capace di procurarmi stupore e meraviglia (ma ci riesce spesso anche oggi, vi assicuro) mi divertivo sempre a guardare Alberto Sordi nei panni del dottor Guido Tersilli, giovane medico rampante oppresso da una madre arpia ed arrivista, andare a caccia dei cosiddetti mutuati. Non sapevo neppure cosa fosse un mutuato ma capivo lo stesso che il cinismo col quale li sfruttava Sordi nel film non doveva essere né cosa buona né giusta. 
A rivedere adesso questo film di Zampa resto colpita dalla cura con cui al tempo si riusciva a far ridere e, nello stesso momento, si cercava di dire qualcosa, di lanciare un messaggio. Il cosiddetto cinema di evasione che conosciamo adesso (volgare, becero, insolente e grossolano) è ben diverso da quello che era allora. Allora si scrivevano sceneggiature, si sapeva dirigere e recitare adesso tutto questo non è più necessario.

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Uno dei più famosi film di Sordi ed uno dei più celebri film italiani di sempre. E' un bellissimo esempio di commedia all'italiana, perfettamente riuscita, che tratta di sanità, di mutua, ma in special modo dell'italiano di allora che, sopraffatto dal mito del benessere e della ricchezza, è disposto a tutto pur di portare a casa qualche lira in più, anche, come il medico di questa pellicola, a sedurre un'orrenda vedova per avere più mutuati, a lavorare giorno e notte fino ad avere un collasso, a perdere la fidanzata di una vita ed a fottere tutti i colleghi.

Tutto ciò ce lo spiega con raffinata e sottile intelligenza, utilizzando la chiave della comicità (poiché spesso è attraverso le gag che passano i messaggi più crudi) Luigi Zampa che, con una regia spiritosa e spietatamente cattiva e disillusa, realizza un film di culto ancora attualissimo (nonostante la mutua non esista più) e probabilmente immortale. Il suo protagonista è un Alberto Sordi in assoluto stato di grazia che rispolvera il suo repertorio comico degli esordi per strappare una risata che morda e faccia pensare.

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lunedì 20 gennaio 2025

Oh, Canada - I tradimenti - Paul Schrader

tratto da un romanzo di Russell Banks (I tradimenti), il film è una confessione di Leonard Fife (Richard Gere), allapresenza della moglie (Uma Thurman), davanti alla macchina da presa, in un documentario di due ex allievi.

Fife, stimato e acclamato regista, sente il bisogno, in punto di morte, di fare i conti con se stesso e di dare l'interpretazione autentica della sua vita, delle sue fughe, della sua vigliaccheria, della sua ansia di lebertà e di sopravvivenza, in Canada, per evitare di farsi distruggere dalla guera del Vietnam.

lo vediamo da giovane (interpretato da Jacob Elordi) indeciso, insicuro, in fuga dalle proprie responsabilità, abbandonare la moglie e il figlio, che trent'anni dopo dirà, con una faccia tosta degna di migliori cause, di non conoscere.

la sua storia va avanti e indietro, e, come nel film di Pedro Almodovar (qui), la Morte è una protagonista, silenziosa e implacabile.

non c'è molto da ridere, nella storia di un moribondo, malato e confuso, che cerca di raccontare, come può, le sue verità.

inquietante, alla fine, la mini telecamera per spioni.

buona (confusa) visione - Ismaele


 

 

 

Schrader fa un’operazione che ha, quasi, il sapore di un saluto con un film dentro il film e tutto ciò che ne deriva. Anche perché tutto inizia proprio con la preparazione della location e della videocamera che andrà a immortalare l’ultima intervista del regista. Tutto in maniera pulita, con ogni gesto accompagnato dalla musica e dai titoli di testa fino al primo potente primo piano del protagonista, come a volerlo incorniciare al centro della scena, a prescindere da tutto e da tutti. È di lui che si parlerà, è lui che parlerà, è lui che sarà il filo conduttore della narrazione, sia essa a colori o in bianco e nero. È lui che dovrà mettersi a nudo davanti allo schermo, raccontando e raccontandosi.

Se anche Leonard, come tanti personaggi del regista sceneggiatore, nasconde malessere e contraddizioni, il suo corrispettivo diventa il film stesso, Oh, Canada, che gli permette di dimostrare, ancora una volta, come il cinema sia in realtà uno strumento ambiguo, soggettivo e spesso privo di una verità assoluta e universale.

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…Oh Canada offre una complessa tessitura di elementi narrativi, tra cui la voce narrante di Leonard anziano, il racconto del figlio adulto Cornel, e una vasta gamma di fonti visive, ciascuna presentata con una distintiva esecuzione formale. Schrader compone i ricordi in filmati widescreen in bianco e nero, alcune scene del presente in formato academy e episodi del passato in un formato 2:35:1 a colori.

 

Il modo in cui tali sequenze vengono presentate non segue tuttavia una logica formale rigorosa, a differenza della precedente trilogia composta da First Reformed, Il collezionista di carte e Il maestro giardiniere, creando in tal modo un'accattivante ambiguità nell'uso di flashback oggettivi, narrazioni alterate e impianti estetici.

 

Dove risiede la verità? Ma soprattutto, è possibile trovarla? Esiste davvero? L'impossibilità di giungere a una soluzione emerge come il nodo cruciale del film. Fife, richiamando la psicoanalisi freudiana, suggerisce che la verità si svela attraverso l'interazione con l'altro, piuttosto che tramite una mera affermazione. Il senso stesso della vita è generato dall'ascolto della parola e nello sguardo dell'altro.

 

In questo contesto, l'altro non è soltanto la moglie di Fife, né il personaggio di Malcolm, ma anche il dispositivo di ripresa che filtra la confessione di Fife, costruita su un groviglio di immagini e ricordi che, talvolta, si muovono fluidamente, altre volte, grazie a ingegnosi espedienti di montaggio, generano fratture nel racconto. In entrambi i casi, lo spettatore diviene un testimone di questo profondo scavo interiore, che procede con un ritmo che riflette la mente del protagonista, oscillando tra attimi di apparente lucidità e momenti di intensa confusione, un viaggio nella memoria disturbato dalla malattia, dai farmaci e dai vuoti.

 

Il film si configura, principalmente, come uno dei saggi sul dispositivo cinematografico più belli e commoventi degli ultimi anni: esplora la sua forza affabulatoria e ingannatrice, la sua persuasività e la sua capacità di generare immaginari (la mente di Fife, legandosi alle varie traduzioni visive del dispositivo, ne produce diversi)…

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Questa volta però, a differenza di capolavori della prim'ora come Taxi Driver e Toro scatenato (dei quali Schrader ha firmato la sceneggiatura) o della sua seconda primavera, come Il collezionista di carte e Il maestro giardiniere (di cui ha curato anche la regia), Tradimenti è confuso e poco a fuoco: il che ha anche un senso drammaturgico, considerato che il suo protagonista è imbottito di antidolorifici che ne alterano il discernimento e racconta la sua vita mescolando fatti e invenzioni. Ma per lo spettatore è difficile venire a capo di una storia che sembra raccontata frettolosamente, dimenticando per strada elementi importanti che probabilmente erano più comprensibili nel romanzo di Banks.
Il che avrebbe ancora una volta un senso rispetto alla vita di Schrader, che negli ultimi anni ha sofferto di una grave malattia respiratoria, ha attraversato un episodio pesante di Covid e visto la sua consorte affrontare l'Alzheimer. Si ha dunque la sensazione che lo sceneggiatore-regista abbia confezionato Tradimenti con la paura di non riuscire a completarlo in tempo, e il risultato finale purtroppo ne soffre. Ci sono molte invenzioni narrative, come il passaggio dal bianco e nero al colore (tendenza frequente nel cinema contemporaneo), il cambio di quattro formati diversi e la scelta di far interpretare Leonard a due attori fisicamente molto dissimili come Jacob Elordi e Richard Gere (inserendo anche in alcune scene del passato un Richard Gere in versione 50enne), o di far incarnare due ruoli, che forse sono in realtà uno solo, alla stessa attrice (Uma Thurman): una struttura drammaturgica che ricorda Io non sono qui di Todd Haynes. Ma l'esito è eccessivamente straniante, al di là dell'intenzione di riprodurre nello spettatore lo smarrimento in cui vive il protagonista…

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Oh Canada – I Tradimenti è un grandissimo film, l’ennesimo, firmato da Paul Schrader, tratto dal (quasi) omonimo libro di Russell Banks, a cui viene dedicato. Un film carico di ritorni, dal biopic per il regista (memorabile il suo Mishima) alla direzione di Richard Gere ben oltre quarant’anni dopo American Gigolo. Un film che riflette sulla potenza delle immagini e della loro reale finzione, di come tutto possa essere veicolato e reso immortale, creando un universo dentro un universo. Un gioco di macro e micro cosmi dentro ai quali si generano domande e ricerche.

Intenso e commovente, bellissimo fino all’ultimo secondo, Paul Schrader ci accompagna in un viaggio che sembra quasi coincidere con il più classico dei film testamento, dove si guarda indietro per mettere un punto definitivo sul presente. Il passato diventa quindi strumento per conciliarsi con sé stessi, per levarsi qualche sassolino dalle scarpe e lavarsi quindi la coscienza dai peccati commessi. Un viaggio verso la redenzione prima del trapasso, mostrato dai repentini cambi d’attore nella stessa sequenza, espediente registico tanto perfetto quanto straniante…

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Da calvinista e da regista, Schrader non può credere all’autorità e al potere espiativo del “sacramento” della confessione. Sa che tra le pagine dei racconti e i quaderni dei diari, l’inchiostro scolora e bisogna far i conti con le omissioni e i fraintendimenti. Per questo nella versione di Fife, tra la nebbia dei ricordi, della malattia e dei farmaci, le traiettorie della storia si confondono. Il percorso diventa un labirinto di frammenti esplosi nell’avanti e indietro nel tempo, che faticano a ricomporsi in un’unità coerente. Le cose si ripetono, i volti si duplicano (perché Emma e Gloria hanno lo stesso volto di Uma Thurman? È un cortocircuito della memoria di un vecchio malato o una connessione tracciata nelle interpretazioni dei segni?). I riflessi deformano la realtà, aprono altre dimensioni dello spazio-tempo. Come in quella straordinaria scena in cui, nel bel mezzo di un flashback, il giovane Jacob Elordi cede il posto all’anziano Richard Gere, ma continua ad apparire nello specchio alle spalle del personaggio. L’occhio inganna e quello che sembra un dato acquisito lascia il posto al dubbio. Il viaggio a Cuba, la diserzione… altro momento fondamentale è quello della visita di leva, che sembra omaggiare Un mercoledì da leoni di Milius.

Ma soprattutto Oh, Canada. I tradimenti è un film in cui la teoria alimenta, in ogni istante, la vita della materia. In cui la fede nelle immagini non è qualcosa che ha fare con la loro evidenza, con la loro capacità di restituire corpi, volti, gesti, azioni, dettagli. Né con il funzionamento della macchina. Il dispositivo resta un’illusione e neanche la microcamera nascosta, quella mosca sul muro con cui Malcolm crede di poter catturare l’istante finale, può cogliere il dettaglio essenziale. Quelle labbra che si muovono e che pronunciano le parole segrete. No, la fede nelle immagini è qualcosa che ha a che fare con l’empatia, come Schrader ha tenuto più volte a ricordarci. È questione di umanità, di sensibilità, di intuizione. E, proprio per questo, Oh, Canada. I tradimenti è un film impietoso e tenerissimo sulla vecchiaia, la morte temuta e vista, sullo spettro della malattia. Sui pentimenti e sugli errori fatti, seppur necessari. Sul bisogno d’amore e l’insopprimibile richiamo della libertà.

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…Purtroppo però Oh, Canada zoppica e convince davvero poco, e si rivela ahimè forse il primo film davvero deludente del grande regista e sceneggiatore Schrader.

Non lo aiuta granché né un Richard Gere che, seppur fisicamente coerente col ruolo del dolente e malato protagonista, si contraddistingue per una performance completamente inerte, apatica, risultando la sua prova davvero poco espressiva e convincente. Non molto diversa la resa dello spilungone Jacob Elordi, divetto in crescita che già fisicamente non convince come un giovane Gere, e che continua a non brillare come attore, nonostante il richiamo che lo annovera tra i divi nascenti più promettenti.

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domenica 19 gennaio 2025

Pontypool - Federico Greco

 



Pontypool (Pontypool zitto o muori) - Bruce McDonald

un film che all'inizio ricorda la magnifica invasione dei marziani (di quel genio di Orson Welles)  e poi, senza nessun mostro, la tensione resta altissima per tutto il film.
attori splendidi ti coinvolgono senza che tu possa resistere, insomma un piccolo capolavoro da non perdere (e magari rivedere), stando attenti alle parole.

A.C.A.B.: la Val Susa secondo Netflix vs la realtà che viviamo

In Val Susa abbiamo avuto modo di vedere A.C.A.B., la serie prodotta dalla multinazionale americana Netflix e uscita ieri. Eravamo curiosi di osservare come una fiction di tale portata avrebbe trattato la nostra terra e la nostra lotta. Quello che abbiamo visto non ci ha colpiti: la Val Susa, in questo caso, è solo un pretesto narrativo per introdurre la storia dei reparti celere protagonisti.

È significativo, tuttavia, che la lotta No Tav venga mostrata in modo macchiettistico e violento, in linea oltretutto con la retorica giornalistica che abbiamo visto in questi anni. La rappresentazione equilibra forzatamente le violenze, suggerendo una simmetria tra le parti, con un ferito per parte, come se il peso reale della repressione fosse bilanciato. In realtà, il divario è ben più marcato e lo dimostrano le inchieste giudiziarie che ci hanno colpito in questi anni, gli anni di carcere elargiti come se fossero noccioline, i nostri feriti e il territorio militarizzato come se fossimo in guerra.

Quello che la serie mette in scena non è uno scontro realistico, ma una sorta di battaglia epica, che ricorda le lotte tra antichi romani e popolazioni barbariche, in cui solo l’inganno consente ai “barbari” di colpire un valoroso centurione.

La narrazione non appare squilibrata solo nella rappresentazione della violenza, ma anche nell’attribuzione delle sue origini. Si tenta di far credere al vasto pubblico globale di Netflix che le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine in Val Susa – e altrove – siano una reazione inevitabile, giustificata dalla tensione generata dai manifestanti. Questi vengono rappresentati attraverso la solita retorica manichea, che li divide in “pensionati buoni” e “zecche pericolose”, oppure riducendo ogni abuso a episodi isolati causati dal singolo elemento irruento: la stanca e falsa narrazione della “mela marcia” che nega, di fatto, la verità incontrovertibile per cui è il sistema ad essere violento, imponendo con la forza ciò che viene rifiutato da più di 30 anni in questa valle. E quindi nessun riferimento, ovviamente, alle ragioni della protesta, alle origini di una contrarietà ragionata e diffusa nella nostra valle, alla devastazione che quotidianamente osserviamo, ai nostri boschi distrutti, alle colate di cemento, all’inquinamento, ai rischi per la nostra salute.

Poiché noi la realtà la viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, sappiamo che quello che accade in Valsusa non è un film e infatti conosciamo il prezzo per difendere il nostro territorio dalla devastazione. Siamo di fronte ad un crimine ambientale che all’oggi non vede punire i colpevoli, anche se sappiamo bene chi sono. Cosa che invece sta accadendo è che alcuni di noi sono accusati del reato di associazione a delinquere e dai vari ministeri e da Telt ci viene richiesto un rimborso pluri-milionario per difendere quei cantieri che la nostra valle non ha mai richiesto. La realtà è qui, tra le persone che vivono queste montagne. In questo documentario di cui vi alleghiamo il link , Archiviato (regia di Carlo Amblino, con voce narrante di Elio Germano) sono elencati una piccola parte degli abusi che abbiamo subito in questi anni. La nostra Resistenza ci porterà alla vittoria e questo è quanto basta.


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sabato 18 gennaio 2025

Imatra - Corso Salani

fiction, documentario, cinema-verità, il film racconta il "casuale" incontro fra il regista e Blanca (Paloma Calle), a Imatra, una cittadina finlandese a pochi chilometri dalla Russia.

i tentativi di Corso Salani di riallacciare i rapporti con Blanca sono patetici, l'uomo innamorato torna ragazzino.

Corso Salani ci manca.

buona visione - Ismaele



 

Non parlerei male di Corso Salani nemmeno sotto tortura, ed a maggior ragione dopo che ci ha prematuramente lasciati, a nemmeno 49 anni. Questo Imatra, più che un documentario, mi sembra la descrizione di un’ossessione, quella per Blanca (Paloma Calle), l’ex fidanzata che ha lasciato il regista/occhio e si è trasferita in Finlandia, in una cittadina ai confini con la Russia, ad insegnare lo Spagnolo. Gli aspetti documentaristici sono decisamente secondari ed assumono la funzione di un pretesto per le patetiche ed infantili richieste di Corso di avvicinarsi all’amata perduta. Da una parte non si può fare a meno di provare simpatia, o meglio: empatia, per i tentativi del protagonista, dall’altra non si può non notare qualche inevitabile momento di stanca, in un film che non sembra capace di decidersi tra il documento di viaggio e la narrazione introspettiva.

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Imatra è una città finlandese situata ai confini dell'Europa, alla frontiera con la Russia. E' un luogo affascinante dove la natura è ancora pressoché incontaminata. La maggiore attrattiva sono le sue imponenti cascate, nascoste per poter produrre energia elettrica. Non vi è mai stato fatto alcun progetto urbanistico e l'economia è decollata soltanto grazie all'afflusso continuo dei turisti russi, che vi accorrono in ogni periodo dell'anno per fare acquisti a prezzi competitivi. In questo luogo dimenticato da tutti, in bilico tra l'opulenza dei paesi scandinavi e la povertà della nuova Russia, arriva Blanca, una professoressa di spagnolo. Sta cercando un posto dove poter riflettere in pace al termine di una brusca e difficile storia sentimentale. Ma il suo compagno non è disposto a lasciarla da sola e la raggiunge a Imatra con la scusa di volervi girare un documentario.

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Una delle storie ai Confini d'Europa che coinvolge il regista in prima persona con una specie di confessione e ritratto e con cappello iniziale che giustifica il proseguo della storia. Un storia che prende spunto dalla determinazione femminile che ormai ha fatto le sue scelte e la presentazione della debolezza maschile su certi comportamenti che hanno compromesso inesorabilmente un sentimento. La donna reagisce in maniera anche materna, ma determinata, il maschio si arrampica sugli specchi del suo egoismo, tenendo conto che poi questa è un'autentica autocritica, o rappresentazione di un maschilismo di routine quotidiana.

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Imatra è una cittadina finlandese che si trova ai confini con la Russia nella Carelia meridionale. Bianca, insegnante di spagnolo, ci è andata a vivere e lavorare per sfuggire a una relazione complicata. Il suo ex fidanzato la raggiunge: il suo incarico è quello di realizzare un documentario industriale sulla preparazione della pasta di legno.
Corso Salani rappresenta una vera e propria eccezione nel panorama cinematografico italiano. Regista e attore di indubbie qualità si impegna costantemente in nuovi progetti che abbiano come caratteristica principale l'originalità. È il caso della serie "I confini d'Europa" di cui Imatra costituisce il terzo capitolo. Salani vuole esplorare luoghi che si trovino ai bordi di quell'organismo complesso che è ormai l'Unione Europea. È in piccole o grandi città che rispondano a questa caratteristica di base che va a cercare il senso liminare di realtà sociali che sono divenute punto di snodo (talvolta anonimo ma non per questo meno significativo) di scambi culturali e umani. La ricerca è indubbiamente interessante, anche se lascia qualche perplessità la scelta di costruire intorno all'indagine sociologica una storia di finzione che non sempre regge al vaglio della verosimiglianza.

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venerdì 17 gennaio 2025

Caccia all’uomo – Riccardo Freda

un film in due parti diverse, ma ben cucite da Dox, un cane poliziotto davvero capace.

siamo nel 1961, la polizia è al servizio del cittadino, senza mele marce.

alla fine c'è una battuta bellissima, contro l'intelligence degli Usa.

non è il film migliore del regista, è un film "semplice", ma a me è piaciuto abbastanza.

cercatelo, non ve ne pentirete.

buona (cinofila) visione - Ismaele


  

Più che interessante è divertente; il cane Dox non poteva non conquistare tutta la mia simpatia e il mio sostegno morale, ma anche il suo padrone, ben interpretato da Orsini, è tutt'altro che tedioso e anzi, ben calato nel suo ruolo. Il commissario è burbero al punto giusto, ma coinvolgente. Fra le donne ho però preferito nettamente la Furneaux (anche se occupa il primo episodio, più prevedibile come decorso). Alla fine merita qualcosa di più della sufficienza, anche se Freda è ancora molto lontano dai livelli raggiunti col capolavoro A doppia faccia.

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Pur essendo un Film che ha delle basi canine (Post-Rin Tin Tin e decisamente Pre-Rex ed il Cane si chiama Dox) e' un Film che ha ancora un certo fascino anche se come Pellicola e' magari poco conosciuta ma lo stesso il tutto e' godibile e discretamente avvincente

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mercoledì 15 gennaio 2025

Saltburn - Emerald Fennell

la scalata verso il successo, la ricchezza, la nobiltà da parte di Oliver è piena di bugie, di imbrogli, di violenza.

Oliver sembra uno sfigato in cerca di protezione da parte di Felix, il ricco nobile compagno di studi, ma Oliver, un novello arrampicatore sociale, ha un piano demoniaco, fin dall'inizio, per impossessarsi di Saltburn, a qualsiasi costo.

ottima prova d'attore di Barry Keoghan e Jacob Elordi, in un film fra Funny games e Arancia meccanica, senza però raggiungere il livello di nessuno dei due film citati, pur essendo Saltburn un film che non sfigura.

buona (diabolica) visione - Ismaele


 

 

 

Saltburn è un film estremo, folgorante, perverso, con una cattiveria e una suspense assillante che si insinua nei meandri di una dimora corrotta e ignara. L’indole più perfida e crudele, la natura manipolatrice e calcolatrice di chi sceglie la via della malvagità. La follia espressa viene incendiata scena dopo scena, fino quando quella miscela esplosiva arriva a un punto di rottura. Amore, rabbia, egoismo e rivalsa hanno, in Saltburn, lo stesso percorso già scritto e forse, solo nella speranza di una perfezione inarrivabile, inseguendone la sublime impossibilità, l’esito potrebbe non sfociare negli atti più torbidi, crudi e ai limiti del macabro. I personaggi sono pedine di un gioco, di un piano diabolico, bersagli di un’inconsapevolezza sferzante. Erotico, surreale, visivamente spettacolare, gli ambienti si colorano di rosso, giallo e bianco, un rosso che rimanda al sangue, un giallo all’oro e un bianco a quella purezza e genuinità solo apparente. Il labirinto di quella villa dall’atmosfera spettrale è forse il labirinto della mente del protagonista, che solo alla fine arriva al punto…

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A tenere insieme i vari spunti narrativi è il tema del desiderio: quest’ultimo gioca su un piano molto più ambiguo, tra invidia ed erotismo, ed è il vero punto interessante del film. Se Emerald Fennell avesse insistito più su questo punto che sulle chiacchiere da tavola vuote dei Catton, il film sarebbe stato decisamente più interessante. E invece sono proprio questi intermezzi, dalle scene in università ad alcuni spezzoni nella tenuta, a rallentare il ritmo di una storia che, tutto sommato, tra desiderio e atmosfere alla Skins, sarebbe stato molto godibile e divertente. Tornando al tema del desiderio, è chiaro che Fennell si sia ispirata ad altri film dello stesso filone. Il primo è ovviamente Il Talento di Mr.Ripley, l’altro è il Teorema di Pier Paolo Pasolini, che rappresentava una famiglia borghese sconvolta dall’arrivo improvviso di un giovane che seduce tutti sessualmente e, con la stessa facilità con cui è arrivato, altrettanto facilmente va via. Se in Pasolini il trionfo del proletariato sulla borghesia è dato dalla serva che diventa una sorta di santa, in Saltburn è il risultato di un piano malefico, portato avanti da Oliver per prendere possesso della lussuosa villa…

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Gotico e pop, Saltburn è un thriller pieno di luce, una commedia sentimentale avvolta nell'ombra, un diario di formazione che assume già i contorni di un testamento. È già una narrazione al passato (la voce off di Oliver che dice "Era impossibile non volere bene a Felix" con successivo sguardo in macchina), una storia di ossessione, di verità nascoste anzi sepolte, di sdoppiamenti vittima/carnefice con un cast ispiratissimo a cominciare dal bravissimo Barry Keoghan che aveva già mostrato il suo grande talento in Gli spiriti dell'isola a Jacob Elordi, che sembra arrivare direttamente da Euphoria e che già dall'inizio sembra spesso danzare come una proiezione mentale del protagonista fino all'ottima prova di Rosamund Pike, che nasconde dietro l'ironia grottesca il dramma di essere imprigionata in un tempo che si è bloccato.

Saltburn rischia più volte di inciampare ma non ha paura di rallentare né di forzare la mano come nella parte finale, apparentemente disturbante, in realtà fulminante. Non sembra avere vie di mezzo, perché provoca reazioni forti, perché carica a mille anche l'incontro apparentemente più spontaneo come la scena in cui Felix ha bucato la ruota con la bicicletta e Oliver lo aiuta.

Avrebbe anche il respiro di una serie ma preferisce condensare tutto in un tempo (cinematografico) dove ogni momento resta impresso e che sembra sospeso, eterno, mortale, vitale. Forse è il primo film in costume ambientato negli anni Duemila. Non è però una moda passeggera ma potrebbe diventare un punto di riferimento fondamentale per alcuni cineasti del futuro. Si può detestare. O amare, come in questo caso, alla follia.

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C’è un grande “però” che ahi noi attanaglia il film, ed è proprio il finale. In maniera del tutto non necessaria, Saltburn decide di argomentarci per filo e per segno ciò che si era già ampiamente capito sin dalle prime battute del film. E anche lo spettatore più distratto, seguendo ragionamenti lombrosiani, avrebbe potuto ampiamente pensare che le vicende con Barry Keoghan protagonista, non possono che altro vederlo coinvolto in qualche maniera.

Una pecca che coincide con un grandissimo scivolone e che rende il film da molto interessante ad appena sufficiente, sebbene la chiusura con il balletto nudo del protagonista, come una danza appartenente ad un rito primordiale, sia il perfetto punto finale del film. Chiaro è che non parliamo di occasioni mancate o altro, nonostante il noioso spiegone.

Saltburn resta comunque un film che ha la capacità di toccare lo spettatore, cosa non così banale nel cinema di rapido uso e consumo a cui assistiamo oggigiorno. E cosa ancora più importante, ci mostra un film capace di coniugare quasi alla perfezione un certo tipo di cinema prettamente commerciale e accomodante ad un altro diametralmente opposto.

Un cinema che per l’appunto è capace di lanciare provocazioni, decostruendo tutto ciò che ci circonda, devastando istituzioni e consuetudini malsane e lasciando sensazioni non sempre gradevoli nello spettatore e soprattutto domande. Una capacità, questa, che di fatto ci mostra come Emeral Fennell rispecchi a pieno il titolo del suo primo film: una giovane e promettente donna (regista).

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...si capisce anche come la difesa secondo cui "Saltburn" sia un film consapevolmente di superficie per riflettere il (e sul) mondo di oggi, dominato dalle apparenze e dalla virtualità dei social, non regga. Il suo senso sta proprio nella sua ricercata assenza di ambiguità: Fennell ammicca al suo pubblico e non lo provoca come vorrebbe fargli credere, lo mette in una posizione confortante piuttosto che di disagio, realizza un’opera moralista che non parla di niente, se non inconsapevolmente dello stato attuale di un (certo) cinema. Ma questo non è un valore, anzi.

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