due solitudini s'incontrano, bastano poche ore, Mahin e Faramarz sono contenti come adolescenti innamorati.
Mahin è un'infermiera in pensione, Faramarz a settant'anni deve ancora lavorare come tassista per sopravvivere.
che un regime oppressivo delle libertà di ascoltare musica, e che ci sia un polizia "morale" per controllare come le donne indossano l'hijab in modo "corretto" sono condizioni di vita che tolgono il respiro, ma i due innamorandi vivono le loro ore felici.
è un film di gioia e bellezza contro tutto e tutti, nella prima parte, poi succede qualcosa di inatteso, ma sarebbe pura cattiveria anticiparlo qui.
un film da non perdere, promesso, purtroppo è solo in 37 sale in tutta Italia.
buona visione - Ismaele
...Al secondo lungometraggio dopo Ballad
of a White Cow (presentato
anche quello in concorso alla Berlinale nel 2021), i due cineasti iraniani
costruiscono un altro dolente e intenso ritratto al femminile dopo quello di
Mina del film precedente. C’è solo la differenza che Mahin sembra una donna più
libera e battagliera e si vede nella scena con cui difende una ragazza dagli
agenti nel parco e le impedisce di essere arrestata. Il tono sembra
apparentemente più leggero, soprattutto in quell’incontro di notte tra i due
protagonisti in una improvvisa notte di sognatori. Così l’efficace della
rappresentazione della solitudine (la scena della telefonata di Mahin con la
figlia continuamente interrotta e poi improvvisamente troncata) lascia poi
spazio in quel gioco seduttivo culminata nella scena in cui i due si fanno la
doccia vestiti, probabilmente ennesima beffa nei confronti del proprio paese.
Tutto però accade dentro quella casa e si avverte la presenza delle ombre
ammonitrici degli interni del cinema di Panahi, come nel taxi di Taxi
Teheran e la villa sul mare
di Closed
Curtain che
vedeva tra gli attori anche Maryam Moghaddam. Come in quel film, non ci devono
essere rumori sospetti e tutto deve avvenire nell’oscurità, finale compreso.
Proprio per questo, proprio alla luce della condizione dei due cineasti, Il mio giardino persiano diventa un gesto
politico ribelle nascosto dietro l’amara ironia dei frequenti cambi di tono del
film che sono gestiti con un grande equilibrio e con una solidità di scrittura
dove il tono da favola è solo una fuggevole illusione.
...Poco prima di metà film, Il mio giardino persiano si trasferisce completamente in un interno sera/notte – l’appartamento della protagonista – dove Mahin e Faramarz chiacchierano, bevono del proibitissimo vino da un bottiglione, mangiano frutta e dolci, siedono nel giardino tra menta, cedri e gelsomini, ascoltano musica e ballano come ragazzini in barba alla pericolosa vicina spiona…
Mahin (Lily Farhadpour) è una
donna, sola e di una certa età. Una combinazione di fattori che nella
Repubblica Islamica dell’Iran difficilmente porta a qualcosa di buono. Mahin
parla con la figlia all’estero solo su Face Time, perché non le è più concesso
di espatriare, data l’età. Le amiche la vengono a trovare a Teheran di quando
in quando e vorrebbero che si risposasse. L’assurdità della situazione,
che Il mio giardino persiano cattura con sottile
ironia e sentita partecipazione, è che superficialmente Mahin e il mondo di fuori
concordano: è arrivato il momento che si trovi qualcuno. Ma se, nel soffocante
dettato patriarcale della società iraniana, la solitudine della donna è una
mortificazione della morale che solo il matrimonio può sanare – con una chiara
definizione dei ruoli e delle gerarchie – Mahin immagina le cose in maniera
diametralmente opposta. L’uomo è piacere, è una boccata d’ossigeno, è uno
schiaffo agli anni che passano, è libertà.
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