venerdì 29 maggio 2020

Manuscripts don’t burn - Mohammad Rasoulof

come meglio indicare il clima di terrore in Iran, per chi non è parte integrante di quell'inferno, ma addirittura si oppone con le sue opere all'oppressione, alla paura, al sopruso continui?
il regista sa di cosa parla, il film sarà di finzione, ma certamente non è di fantasia, il meccanismo repressivo non è solo nel film.
sembra che nessuno odi nessuno, solo che c'è una volontà superiore da applicare, con qualsiasi mezzo.
il braccio operativo della repressione, funzionari, persuasori fisici e killer sono lo specchio della banalità del male, eseguono ordini indiscutibili e ultimativi.
non perdetevi il film, mica siamo in Iran, chi l'ha girato rischia molto (mancano tutti i nomi di chi ci ha lavorato), noi no.
e allora buona, sofferta, necessaria, visione - Ismaele






Iran, gli agenti Khosrow e Morteza devono recuperare le memorie di uno scrittore antagonista: questione di sicurezza nazionale, i manoscritti svelano terrificanti segreti, quali il fallito attentato ai danni di 21 intellettuali. Telecomandati dal proprio capo, i due non conoscono pietà: l’omicidio politico è un’opzione, basta spacciarlo per morte naturale…
Al Regard, il collega di cinema e lotta di Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof, porta un duro atto d’accusa contro il regime di Ahmadinejad che l’aveva condannato a 20 anni senza film e 6 di prigione. Girato in segreto, cast e crew anonimi, è il tallonamento poetico e politico di due sicari di Stato. Manuscripts Don’t Burn, ma Rasoulof è Verde di rabbia e Rivoluzione.

Rasoulof è parecchio bravo nel raccontarci il tutto nei modi che son quelli del cinema iraniano autoriale (una certa lentezza, una certa enfasi sulle figure degli intellettuali, una certa retorica nel presentarci la Nobiltà e il Coraggio del dissenso), ma anche, più sorprendentemente, quelli del thriller e perfino dell’action. Con una struttura narrativa a inastro progressivo assai efficace. Con rivelazioni e connessioni che emergono a poco a poco, tenenndoci coinvolti e avvinti. Questo è un film di denuncia che sa comunicare al pubblico il suo doveroso messaggio senza però stancare e annoiare. Riuscendo a restituirci il clima cupissimo di un paese dove parlar chiaro può costare parecchio. Le sequenze dell’uomo rapito (di cui, come in ogni giallaccio che si rispetti, solo più tardi scopriremo l’identità, e le ragioni del rapimento), di come si cerchi di ucciderlo sulle rive di un fiume di montagna, di come ci si libera di un bambino scomodo testimone, sono quanto di più agghiacciante si sia visto ultimamente al cinema. Un atto d’accusa contro Teherean durissimo e davvero di gran coraggio. Châpeau. E massimo rispetto per Rasoulof. Oltretutto pare che questa storia sia in parte ispirata a fatti reali, e comunque di intellettuali fatti fuori o incarcerati o ridotti al silenzio ce ne son stati molti negli ultimi vent’anni in Iran.

Il film comincia dalla fine, quando uno dei due killer corre verso l’auto dove l’altro lo sta aspettando, inseguito da un misterioso terzo uomo. Scopriremo solo dopo il perché di quella corsa.
Manuscripts don’t burn è un manifesto agghiacciante e spaventoso del regime iraniano, dei suoi metodi sanguinari e subdoli, del silenzio imposto con la forza agli intellettuali dissidenti.
Non è forse impeccabile nella sua costruzione drammatica e nelle sue scelte formali, ma ha l’urgenza ed il respiro affannoso di chi vive giorno per giorno l’incubo della censura.
Si impone nel concorso complessivamente debole di Un certain regard per lo squarcio impietoso e tetro che apre nelle maglie di un regime che offende e umilia la grande cultura persiana.

Rasoulof’s Manuscripts Don’t Burn reveals how basic human rights can be so ruthlessly violated by a system in Iran that manipulates text-based religious accounts for its own exploitative continuance. The individuals shown in the film are not inherently evil, but instead reveal the banality and wider scope of evil. To guard against these difficulties, the preservation of human rights such as freedom of expression enables us generally to share our heartfelt views and arrive at an agreed-upon and mutually beneficial course of action. Restricting public expression and demanding fealty to prejudicially interpreted orthodox texts only sustains the exploiters. Rasoulof offers no solution as to how to ensure human rights, but he does reveal the extent of the problem facing us.  It is not just a matter of dealing with a few troublemakers; it is more a matter of correcting a system that denies freedom of expression and thereby enables the troublemakers to perpetuate their exclusive control.  His film, which has received many positive reviews [10,11], is not likely to be a box-office crowd-pleaser, and it has so far mostly only gained film festival exposure (of course like most all of Rasoulof’s films, it is banned in Iran).  Nevertheless, this is a penetrating and thought-provoking work that should be seen by everyone.

The film has the fraught mood if not the adrenaline pace of a thriller. We first see Khosrow and Morteza (no names of cast or crew are given due to the film’s perilous political nature) as they are leaving a job. With characteristic subtlety, Rasoulof doesn’t show us the killing, only that Khosrow has a man’s bloody hand print on his neck—a grisly detail that’s somehow more unsettling than explicit violence would be.
Tense and drawn, Khosrow wants their next stop to be an ATM. He needs payment for his mayhem because he has a little boy who requires an operation. But an even greater problem may be his wife, who complains that their son’s affliction is punishment for his work. Khosrow’s worry over this charge at least shows the flicker of conscience. Morteza, a stolid and unreflective assassin, shrugs it off, saying that their assignments are in accordance with shariah—the very rationale that allows extremist elements in a government supposedly based on religion to slaughter their opponents without compunction, after branding their thought as deviant and foreign-influenced.

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