venerdì 22 dicembre 2017

Loveless - Andrey Zvyagintsev

Alyosha, un bambino di 12 anni, un peso per i genitori, è il non protagonista del film.
il mondo va veloce, soldi, lavoro, lusso, non c'è posto per un bambino, è un ostacolo alla felicità.
se il film non fosse in russo si potrebbe scambiare per un film Usa, o europeo, il mondo è diventato (quasi) tutto uguale.
la polizia fa finta di cercarlo, ma in realtà chi lo cerca è un esercito di volontari (ah, i volontari, come da noi) che svolgono le funzioni che i poteri pubblici abbandonano (come da noi, che coincidenza)
Andrey Zvyagintsev fa pochi film, e tutti fanno male, sono impietosi, l'occhio del regista è un po' il nostro specchio, non ci lascia tranquilli.
fotografia e musica davvero potenti.
naturalmente il film è in un pugno di sale, riemergerà solo se vincerà l'Oscar per il miglior film straniero.
voi cercatelo, se potete, non vi farà stare bene - Ismaele 






Il Male è dappertutto, dentro e fuori le persone, ha radici antiche ma si nutre del nuovo nichilisno di massa, del rifiuto di Dio, del trionfo della società liquida anzi fusa. Zvyagintsev non si vergogna, come invece succede nel cinema europeo e americano, a confezionare un film profondamente etico, a mostrarci – indignandosi – quale possa essere il grado di mostrificazione indotto dalla cultura della prevalenza dell’Io. Il suo film è una Passione laica con molti carnefici e una vittima sacrificalea. Qui non ci sono le concitazioni di tanto cinema giovane con uso e abuso di macchina a mano, la camera è lenta quando non immobile, i personaggi dislocati con sapienza all’interno dello spazio schermico. Cinema cerebrale e costruito, che mostra orgogliosamente il proprio artificio, la propria progettualità. Non c’è traccia di naturalismo e di ogni spontaneismo-immediatismo, e nemmeno del tanto diffuso oggi neo-neorealismo. Zvyagintsev muove la macchina da presa (quando la muove), in una liturgia che ci induce tutti a interrogarci sulla colpa e la forse impossibile redenzione. E che sapienza, già vista in Leviathan, nell’usare i paesaggi per farne proiezione e estensione delle anime, e sono desolati pezzi di Russia invernale congelata, sono edifici abbandonati e ridotti a rovine della contempraneità, metafora trasparentissima di un mondo in disfacimento. Film monumentale, titanico, che usa i drammi personali non per un banale chiacchiericcio psicologistico, ma per avvertirci della presenza di quella cosa che si chiama Male. E memorabile la sequenza con la madre di lei disseccata dentro dalla vita, e forse anche dai troppi anni di comunismo. Cinema etico che crede in se stesso e nella propria missione di denunciare il male. Cinema con l’anima che si rivolge a un mondo, e a uno spettatore, che l’ha persa da un pezzo.

… Andrey Zvyagintsev nous confronte à une société malade dont ses personnages sont le reflet, une société où le dialogue est virtuel ou sourd. Et si ses personnages sont détestables, il nous tient en haleine sans jamais nous prendre au piège. Le thriller s’impose dès lors qu’il y a disparition et recherche, mais la force du scénario (le quatrième écrit pour le réalisateur par Oleg Negin) est de dresser un portrait à la fois singulier de la société russe contemporaine et universel du devenir du monde. Avec en arrière-fond la situation internationale envisagée sous l’angle des médias russes…
L’approche esthétique est à dessein glacée au point d’en devenir glaçante. Optant pour une frontalité et une fixité littéralement « impressionnantes », Andrey Zvyagintsev nous confronte à ses personnages, nous invite à les observer tandis qu’il les scrute. Tantôt très proche d’eux, tantôt distant, ils les appréhendent sans concession, laissant parler leur environnement (à l’instar des lieux de « vie ») et offrant à leur comportement toute leur expressivité. Habile metteur en scène, il gomme toute idée de représentation parvenant à nous plonger au cœur d’un théâtre pourtant dépourvu d’humanité ; au cœur du théâtre de l’inhumain. Il attise habilement notre attention dès lors qu’il opte pour une ponctuelle mobilité, toujours fluide, en recourant à quelques travellings et mouvements vers l’avant qui se révèlent hypnotiques. Il s’agit alors de sensation.
Le montage est père de contrastes engendrant deux lignes rythmiques (entre coupes rapides, hâchées, et sequentialité des scènes) qui confèrent au film son intensité. Les compositions musicales d’Evgueni et Sacha Galperine, employées avec parcimonie, ancrent un trouble – le nôtre – et rendent le développement narratif, les interrogations soulevée et l’ouverture finale absolument hypnotisants. Comme un pavé jeté dans une marre, elles résonnent en nous, se dissipant peu à peu. C’est alors que les images d’ouverture nous reviennent. La joie des écoliers et la peine d’Aliocha. La nôtre.

Il suo è uno sguardo privo di qualsiasi pietà nei confronti di una nuova generazione parentale che ha perso qualsiasi senso di appartenenza. Alyosha non 'appartiene' a nessuno. Non al padre che, non contento di avere un figlio di cui non si è mai occupato, ha già messo incinta la propria giovane nuova compagna con la quale ha intrecciato un legame che lo sta avviluppando mentre lui crede possa aprirgli nuovi orizzonti di vitalità. Lo stesso accade alla madre, Zhenya, la quale si è sposata per sfuggire al controllo oppressivo di una madre amata/odiata e ha vissuto la gravidanza come un peso che tuttora si trova davanti nell'aspetto di un bambino che non ama e da cui non si sente amata.

Zvyagintsev non ci va leggero nella sua accusa e regala alla sua splendida protagonista Maryana Spivak almeno un paio di bellissimi, terrificanti monologhi in cui emerge tutta l'insoddisfazione di una vita che ha alla base la nascita di un figlio mai veramente voluto. Ma questa coppia di genitori orribili, che nemmeno davanti alla possibilità della peggiore delle tragedie riesce a trovare la forza per riunirsi, siamo davvero tutti noi? Mentre questa domanda aleggia nella testa di noi spettatori, il film procede implacabile in due direzioni differenti: quella del "thriller" in cui, scena dopo scena - grazie all'abile uso di un'efficace colonna sonora e di lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa sembra costantemente alla ricerca di un dettaglio che potrebbe essere sfuggito ai protagonisti - siamo sempre più preoccupati per il destino del bambino e meno interessati alla vita privata dei due genitori; contemporaneamente il film comincia a svelare sempre di più le sue reali intenzioni e in un crescendo finale, inserisce una nuova lettura politica caricando di simbolismi i protagonisti e gli eventi finora raccontati in maniera forse fin troppo evidente ma comunque efficace. Tanto che sul bellissimo finale non si può che immediatamente pensare alla canzone di Sting (Russians) in cui il cantautore lanciava un chiaro messaggio di pace con il verso "I hope the Russians love their children too". Dopo questo film è quantomeno lecito chiedersi se lo stesso valga anche per la Madre Russia.

La trama è racchiusa in una struttura formale potentissima, per cui questa è un’opera, come i film precedenti del regista siberiano – Il ritornoThe BanishmentElenaLeviathan -, in cui fabula e intreccio sono legati indissolubilmente. Un prologo e un epilogo mostrano uno sguardo lirico su una natura invernale cristallizzata in uno stato di immobilità e di impossibilità di cambiamento che già anticipa il significato profondo della vicenda. Alyosha, un ragazzino di dodici anni, esce da scuola e per tornare a casa attraversa una porzione di natura che sembrerebbe un bosco selvaggio, invece è adiacente alla periferia di Mosca dove vive. Lo spettatore è subito proiettato nella drammaticità della vicenda: Zhenya e Boris, i genitori di Alyosha, si stanno separando, hanno messo in vendita l’appartamento, e nessuno dei due vuole tenere con sé il ragazzino, il quale ascolta un confronto verbalmente violento tra i suoi, dove gli si prospetta un futuro in istituto, e lui, nel buio della sua camera, piange, appiattito contro la parete, come se volesse sparire…
… Il pregio della ricercatezza formale che è visibile in ogni inquadratura e che si arresta sempre a un passo dall’estetismo fine a se stesso; la ricerca di un senso dell’immagine cinematografica che faccia da contrappunto al girare a vuoto delle vite dei personaggi; l’utilizzo del piano sequenza che comunque nulla toglie alla tensione e all’implacabilità del precipitare degli eventi; i movimenti della macchina da presa calcolati con precisione maniacale; la capacità di sfruttare in senso narrativo e stilistico la profondità di campo; tutti questi elementi fanno di questo film un’esperienza visiva di grande impatto e di assoluto valore. A fronte di chi sostiene che questo sia un cinema all’insegna dello schematismo e di un’eccessiva inclinazione per la metafora, politica o morale, giova ricordare  che la cinematografia russa è nata come quella formalista per eccellenza, e che Zvyagintsev si colloca, con pieno merito, su un asse di registi che parte da Ejzenštejn, passa per Tarkovskij e arriva fino a Sokurov.

El cineasta ruso construye una demoledora crítica a la activa clase media soviética, seres sin escrúpulos que se esfuerzan por alimentar la única fuente de energía que parece mantenerlos socialmente atareados: el odio. En concreto nos encontramos con Zhenya y Boris, un matrimonio en proceso de separación cuya relación y la escasa interacción comunicativa que se produce entre ambos nos impiden concebir la idea de que, en un pasado no muy lejano, pudo existir entre ambos algo parecido al amor. Sin embargo, el realizador no se centrará en la desgastada situación marital, sino en los vínculos afectivos de cada uno de los cónyuges por separado; encontrando como nexo inexcusable al hijo que tienen en común…

En dépit d’une mise en scène assez virtuose, le scénario trop corseté et académique de Zviaguintsev ne réussit pas à masquer une certaine indigence dans le fond. Certes, il y a par moment quelque chose d’assez jouissif lorsque le réalisateur tourne le regard vers ces employés de bureau tous entassés en silence comme des zombies dans l’ascenseur - on pense alors à l’ascenseur social dans La Garçonnière, de Billy Wilder. La sexualité, traitée comme un acte utilitariste et pas plus engageant qu’un selfie, trace aussi d’assez belles lignes de force, non loin des effets nihilistes de Yorgos Lanthimos ou de Nadav Lapid. Pour autant, Faute d’amour présente ses enjeux avec tant d’application et de rigueur mathématique qu’il s’avère trop facile d’en découdre les tenants. L’absence d’Aliocha digérée, le film ne trouve en définitive pas plus d’arguments marquants qu’il en avait distillé dès la scène d’ouverture. Le regard doit ainsi finalement composer avec ces arbres morts et gelés, dont le reflet n’est que celui d’une Russie incapable d’accepter ses faiblesses. Tandis que la mère trottine sur son tapis de course, le père place son nouveau-né reclus dans son lit à barreaux. On a connu conclusion plus percutante, de même que Zviaguintsev nettement plus caustique et pénétrant.

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