lunedì 29 settembre 2025

Una battaglia dopo l’altra - Paul Thomas Anderson

tratto da un romanzo di Thomas Pynchon (Vineland), il film  di PTAnderson racconta una storia avvincente, con attori e attrici bravissimi (e Willa, la figlia di Di Caprio nel film, che bellissima sorpresa!).

un gruppo in clandestinità combatte il Potere, con azioni eclatanti, come la liberazione dei migranti imprigionati (che coincidenza, come oggi!).

il film comincia a 100 all'ora, poi rallenta, il gruppo viene decimato e cerca di proteggersi per anni dai soldati statiunitensi guidati dal maniaco Sean Penn.

una cosa importante che sembra folle, ma non troppo, è la società segreta razzista e suprematista, una specie di mafia/massoneria, sembra laterale rispetto alla storia, ma tutto torna.

le società segrete e misteriose (sono loro il Potere vero), appaiono in un libro di Paul Auster (La musica del caso, bellissimo, come tutti i suoi libri, ne è stato tratto anche un film) e in Eyes wide shut, di Stanley Kubrick.

in Una battaglia dopo l’altra ci sono tanti colpi di scena che riempiono gli occhi e le menti, che quando si esce si resta soddisfatti, senza alcun dubbio.

uno dei film più belli dell'anno, da non perdere, Paul Thomas Anderson fa pochi film, ma ottimi.

buona (resistente) visione - Ismaele

 

 

 

 

...Una battaglia dopo l’altra spaventa e diverte, galvanizza e disarma. Ha fatto impazzire Spielberg, che l’ha visto tre volte e l’ha paragonato al Dottor Stranamore: “Arrivi a un punto dove vuoi ridere, perché se non ti metti a ridere inizi ad urlare”, ha detto. “È tutto troppo reale”. Troppo vicino, troppo adesso. È un nuovo classico: un film d’Autore che diventa un blockbuster ineluttabile. È il lavoro di un Cineasta al massimo della forma, capace di raccogliere il delirio dell’attualità e di farne – lo dico? Sì, lo dico – un capolavoro contemporaneo.

Politicamente affilato senza mai essere moralista, Anderson costruisce un racconto ricco di azione, che una volta ingranata la marcia non si ferma più, e che sa alternare l’epica incendiaria a momenti di comicità folgorante. È un film che ha la forza delle proprie convinzioni: ride, sì, ma ride con i denti stretti, perché dietro la risata c’è la vertigine dell’analisi spietata sugli Stati Uniti che non sono mai stati tanto sull’orlo del collasso. Eppure PTA non cede mai alla tentazione del pamphlet: i suoi personaggi restano al centro, con le loro fragilità, i loro fallimenti, le loro ombre. La rivoluzione resta sempre e comunque un fatto umano, prima che politico.

E proprio per questo Una battaglia dopo l’altra è forse il film più radicale della sua filmografia: se Il petroliere era una tragedia americana, se The Master era un duello filosofico, se Licorice Pizza era una lettera d’amore adolescenziale, qui c’è tutto, insieme: manifesto, farsa, melodramma, satira, epopea familiare, tragedia contemporanea. È l’atto con cui Anderson accetta il caos del presente e lo trasforma in Cinema purissimo. Esattamente quel tipo di ossessione che sogniamo di poter chiamare “film dell’anno”. O forse del decennio.

da qui

 

l’esordiente al cinema Chase Infiniti, che è la vera protagonista di Una battaglia dopo l’altra. Supportata da un personaggio magnificamente sviluppato, l’attrice lo mette in scena con un virtuosismo trattenuto degno di colleghe molto più esperte. Infiniti tratteggia una Willa confusa, curiosa, spaventata ma mai passiva di fronte agli eventi drammatici che le se presentano di fronte. Il senso di pragmatica seppur dolorosa accettazione con cui pian piano deve fare i conti col proprio passato, viene raccontato espresso una prova ammirevole. Negli occhi dell’attrice passa tutto il mondo interiore del personaggio, che noi spettatori non dobbiamo neppure comprendere con chiarezza perché quegli stessi occhi vogliono nasconderlo, proteggerlo dal pericolo, mentre invece lo suggeriscono con una tale forza espressiva da renderlo emozionante. In un lungometraggio decentrato, fragoroso e ondivago come Una battaglia dopo l’altraChase Infiniti e la sua Willa rappresentano invece un punto di riferimento indiscutibile…

da qui

 

Eccezionale il cast, con un Leonardo Di Caprio che finalmente riesce a lavorare con PTA dopo il rifiuto, di cui ora si dice pentito, di "Boogie nights", con una caratterizzazione esilarante ma al tempo stesso di forte risalto espressivo del suo bombarolo anarchico dipendente dagli stupefacenti, ma pronto a riesumare la propria dignità di padre e di essere umano in nome degli ideali per cui ha lottato una vita intera. Nel ricco cast di supporto si distinguono il citato Sean Penn, un Benicio Del Toro improbabile ma commovente, una Teyana Taylor di oscuro sex appeal e una Chase Infiniti che dà alla figlia Willa vibrazioni ribelli adolescenziali che arricchiscono ulteriormente la tastiera emotiva di questo grande Romanzo Americano. Le musiche di Jonny Greenwood sono ormai un marchio di fabbrica del cinema di PTA, ma servono benissimo molte sequenze soprattutto di inseguimento, per il resto non serve fare la lista dei contributi tecnici, ma la cosa migliore è abbandonarsi ancora una volta alla magia del cinema di questo grande affabulatore, che ormai fa un film ogni 4/5 anni, e si spera che stavolta gli incassi siano elevati e che magari arrivino i tanto sospirati premi Oscar.

da qui

 

Paul Thomas Anderson realizza l’action politico che voleva fare da anni e che riesce a portare a termine mettendo insieme Pynchon e un budget, secondo le fonti Warner, di 130 milioni di dollari. Intende cogliere lo spirito dei tempi raccontando, con sfumature grottesche, le rivoluzioni (o le imminenti guerre civili?) di oggi. Punta l’intera posta sulla struggente utopia autoriale intrapresa da Welles, Coppola, Cimino, ovvero il kolossal hollywoodiano filo-marxista, fino a incunearsi coraggiosamente nelle afose terre di confine di Sam Peckinpah e negli inseguimenti deliranti di William Friedkin. Sorprendente. E poi c’è il film “privato” di Anderson, quello che alla fine si scioglie nella sua tematica prediletta che è la Famiglia. Con la Willa di Chase Infiniti che diventa il tipico personaggio “figlio” andersoniano, costretto a sopravvivere alle “colpe” di padri e madri e a costruire da solo il suo Tempo, il suo Destino. Mentre la linea temporale di Di Caprio è claudicante, sempre in ritardo, al perenne inseguimento delle donne che ama (la compagna, la figlia). E quella di Sean Penn è frammentata, tragica, contro-Natura, scissa tra il desiderio e la sua soppressione, tra l’istinto biologico della paternità e quello artificiale, massonico, dell’America reazionaria. Un film di traiettorie pazze e indecifrabili questo di PTA. Linee dritte, parallele, spezzate. Traiettorie sentimentali, politiche e familiari incompiute, che si incrociano, si inseguono, si guardano a distanza da uno specchietto retrovisore, come nella straordinaria sequenza ipnotica dell’inseguimento in macchina in mezzo al deserto. L’unico ricongiungimento possibile è quello dell’abbraccio, ovviamente. Il “riconoscimento” tra padri e figli. Si torna sempre lì. È quello il Tempo Assoluto per Paul Thomas Anderson. Fino alla prossima battaglia, da far combattere ai figli… magari ascoltando American Girl di Tom Petty and the Heartbreakers.

E così, mentre siamo qui a domandarci cosa ci sta succedendo intorno e come salvare o amare quello che abbiamo, Anderson ci regala il suo “classico” meticcio, già memorabile, finalmente consegnato al suo e al nostro Tempo. Ma, chissà, forse Una battaglia dopo l’altra è semplicemente una magnifica, fottuta allucinazione collettiva… sulle rivoluzioni che abbiamo o non abbiamo immaginato di fare. Sul mondo in cui stiamo vivendo.

da qui

 

…Una battaglia dopo l’altra quindi, attorno all’ora e mezza comincia a rallentare, anzi quasi si ferma verso un’ultima mezz’ora che prima attraversa una parentesi di confine (lasciamo stare il vacuo inserimento del personaggio di Benicio Del Toro) e poi si disloca in un lungo inseguimento/duello tra larghe cunette di infinite autostrade nel deserto tra una mezza dozzina di auto e di personaggi. Un’ultima parte classicamente risolutiva e rassicurante che deve tutto al debito che ogni cineasta statunitense ha con il western di Ford qui in versione Strada a doppia corsia di Monte Hellman. Insomma, Una battaglia dopo l’altra è molto meccanismo e ipotetica emozione, con rappresentazione del potere e contropotere che bussano alle porta della farsa. Ispirato alla lontana a Vineland, quarto romanzo di Thomas Pynchon. Se nessuno ci viene a cercare scriviamo che l’unico momento in cui DiCaprio recita da Dio è negli ultimi cinque minuti di film quando chiacchiera calmo con Willa e cerca di farsi un selfie con il flash.

da qui



domenica 28 settembre 2025

Tutto quello che resta di te - Cherien Dabis

sarà una scoperta per alcuni distratti vedere nel film che "c'era il deserto e gli israeliani ne hanno fatto un giardino" era una bugia grande come un grattacielo e che gli inglesi i maledetti inglesi, avrebbero protetto i palestinesi.

invece le cose andarono molto diversamente e oggi, nell'inazione del mondo, si complie il progetto originario.

il film racconta la storia di una famiglia dal 1948 a oggi, una famiglia buona, gentile, formata da persone meravigliose, tutti e tutte, alla mercè di uno stato che opprime, umilia, tiranneggia, incarcera, tortura, uccide i palestinesi, eccellente rappresentante dell'impero del MALE, i colonialisti, gli imperialisti, i razzisti, gli assassini.

il film non fa proclami, non urla, non mostra combattenti palestinesi assatanati, solo persone che cercano di resistere, pacificamente, in attesa di un aiuto che non verrà mai.

è un film politico, sì, con attori e attrici davvero bravi, compresi i bambini.

un film da non perdere, promesso, solo in una sessantina di sale, purtroppo, non ci sono supereroi,solo eroi normali.

buona (palestinese) visione - Ismaele


ps: fra qualche anno, se e quando passerà in tv, cercheranno di non farlo vedere, perchè è un film di parte (come lo era Schindler's List , d'altronde), magari con un dibattito fra un comandante del gentile esercito genocida israeliano e un palestinese morto, donna o bambino o medico, chissà.




Vedendo questo film vengono alla mente le parole pronunciate nel febbraio di quest'anno ad una radio ultraortodossa dal vicepresidente della Knesset (il parlamento israeliano): "Chi è innocente a Gaza? I civili sono usciti e hanno massacrato la gente a sangue freddo. Sono feccia, subumani, nessuno al mondo li vuole. I bambini e le donne vanno separati e gli adulti eliminati." Sono parole che dovrebbero far rabbrividire chiunque si ritenga umano e, purtroppo, non si tratta di una fake news.

Questo film ci porta dalla parte dei 'subumani' e ce ne mostra la vita nel susseguirsi degli anni, mostrando come chi viene sottoposto a soprusi non venga messo nella condizione di poter sviluppare sentimenti di fratellanza ma possa conservare comunque un senso profondo di umanità…

da qui

 

…Numerosi sono gli elementi che rendono questo film emozionante: l’amore familiare, la fede religiosa, il legame profondo con la terra e la sua coltivazione, l’attaccamento alle origini e alle tradizioni, l’educazione scolastica vissuta in un contesto ostile e proibitivo. E infine, come vertice emotivo e morale della narrazione, il dibattito sulla donazione degli organi, reso esplicito e comprensibile attraverso le parole di Salimè giusto che gli organi di Noor possano salvare vite che, un giorno, potrebbero tornare a puntare un’arma contro un palestinese? Il finale, intriso di malinconia, trasforma la grande Storia in un dilemma etico angosciante: da un lato, la generosità di un corpo che dona; dall’altro, la possibilità che quel dono permetta la sopravvivenza di un nemico. Cosa è giusto fare? Fino a che punto si può essere misericordiosi verso chi potrebbe non ricambiare quella pietà? Ora SalimHanan portano i segni del tempo - capelli bianchi, rughe profonde, anche nell’anima - ma anche la maturità necessaria per affrontare una scelta dolorosa e il coraggio di incontrare il giovane che vive grazie al cuore di Noor. Un cuore che batte proprio a Jaffa, città da cui Salim era fuggito decenni prima, e che ora visita per la prima e unica volta. In quell’incontro difficile, la regista sottolinea, suo malgrado, la distanza che ancora separa i due popoli. Oggi Salim e Hanan vivono in Canada, emigrati come tanti, con il cuore colmo di tristezza e la memoria ancora viva.

Parafrasando il titolo, tutto quello che resta di Noor è altrove, è in altri, ma resta nel cuore dei genitori. Ma quello che resta non è solo memoria o dolore, ma anche dignità, affetto, valori, e la volontà di trasmettere tutto ciò alle generazioni future. È un modo poetico per dire che, nonostante tutto, qualcosa sopravvive e quel qualcosa è ciò che ci definisce. Cosa resta davvero di noi, quando tutto il resto ci è stato tolto?

Film che rapisce, che incanta, che commuove, che colpisce soprattutto perché, dal 1948, non solo nulla è cambiato ma addirittura il presente non indica alcun futuro per chi viveva in santa pace nella propria terra. Il disastro è tra noi. Che brava Cherien Dabis! Che dolcezza nella sua interpretazione: il più sensibile dei personaggi, la rappresentazione più limpida di una donna moralmente elevata. Ed una grande artista, capace di approfondire ogni personaggio, fino al punto di farceli capire tutti, uno ad uno.

Un film che lascia il segno, imperdibile, una storia che risuona con il presente. Una famiglia spezzata dall’esilio, un cuore che batte oltre il confine, un’eredità che nessuna guerra può cancellare. Tutto quello che resta di te: quando la memoria diventa resilienza.

da qui

 

Quarant’anni non solo per muoversi attraverso tre generazioni della stessa famiglia – Sharif, che nel 1948 abbandona la sua casa a Giaffa, con lo splendido aranceto, solo quando i militari israeliani lo stordiscono, imprigionano e costringono ai lavori forzati; suo figlio Salim, che in esilio in Cisgiordania cerca di perseguire la poesia e l’insegnamento; il figlio di Salim, Noor, che già da bimbo sperimenta la crudeltà israeliana per poi trovarsi nel bel mezzo degli scontri della prima Intifada, che prese il via nel campo profughi di Jabaliya nel 1987 per poi estendersi a Gaza, nella succitata Cisgiordania e nella parte orientale di Gerusalemme – ma anche per testimoniare a chi ritiene che ciò che sta accadendo oggi a Gaza, con lo sterminio, l’affamamento e la deportazione, sia una risposta magari anche “esagerata” ai fatti del 7 ottobre 2023 come questo sia un errore grave. Narrativamente Dabis sa come gestire ingredienti già noti, tipici del mélo famigliare, e lo fa con evidente solidità, senza concedersi deviazioni dal percorso. Analizza il dolore, l’accettazione del lutto, il tentativo di trovare una dimensione umana all’interno della barbarie, la necessità di ribadire alcuni punti fermi, a partire dal fatto che quelle terre che oggi sono abitate da israeliani, in alcuni casi a pochi minuti a piedi dal mare, non erano “di nessuno”, ma avevano una storia famigliare decennale se non secolare. Di queste memorie interrotte si interessa Tutto quello che resta di te, trovando la sua dimensione più felice quando si muove tra il 1948 e il 1978 e faticando un po’ di più nella parte finale, soprattutto quando la rappresentazione riguarda la contemporaneità – di salti temporali il film ne presenta molti. È interessante soprattutto la messa in scena del mondo israeliano, perché se da un lato la rappresentazione dei militari non prevede deviazioni dal concetto di “villain”, dall’altro anche i singoli cittadini, perfino quelli che non hanno servito nell’esercito, sono raccontati come ignavi, o forse persino incapaci di comprendere fino in fondo le iniquità che il loro Stato ha commesso nei confronti di un popolo a cui non è riconosciuto nemmeno il diritto di esistere da un punto di vista istituzionale (si vedano i siparietti in ospedale, o l’incontro della saggia e non compromissoria Hanan – sposa di Salim e mamma di Noor, interpretata dalla stessa regista – con un uomo che ha qualcosa in comune con la sua famiglia). Un popolo assopito, quello israeliano, così abituato a esercitare il potere dopo l’immane tragedia della Shoah da non porsi nemmeno il dubbio di quel che si sta mettendo in pratica. Dabis non cerca comunque lo scontro, preferisce alimentare il magone di un pubblico che non può non aderire alle paturnie della povera famiglia protagonista, che tutto ha perso e nulla può pensare di recuperare, se non farsi fotografare di fronte a un finto fondale marino o davanti alla casa che un tempo fu sua, e da quasi ottant’anni più sua non è. Attraverso un racconto in tutto e per tutto popolare Tutto quello che resta di te prova a ricordare, in un film a suo modo fluviale, l’infinita ingiustizia patita dalla Palestina e dalla sua gente. Questo nulla smuoverà, ovviamente, ma è un’operazione doverosa.

da qui

 

…La regia di Cherien Dabis è caratterizzata da un profondo e crudo realismo, che si manifesta nella scelta di uno sguardo diretto, privo di artifici, capace di restituire con autenticità la vita quotidiana dei personaggi. La macchina da presa si muove con discrezione, ma con precisione chirurgica, soffermandosi sui paesaggi, sui dettagli delle abitazioni, sugli oggetti che raccontano storie silenziose. Ogni elemento visivo è carico di significato: le crepe sui muri, le fotografie incorniciate, le tende mosse dal vento. Nulla è decorativo, tutto è narrativo.

Le transizioni temporali, seppur improvvise, non spezzano la coerenza del racconto. Al contrario, si inseriscono con naturalezza nella struttura narrativa, contribuendo a costruire un flusso di memoria che attraversa le generazioni. Il montaggio e la fotografia — firmata da Christopher Aoun — lavorano in perfetta sintonia, creando un linguaggio visivo coerente, sobrio, ma potentemente evocativo. La luce, spesso naturale, scolpisce i volti e gli spazi con delicatezza, mentre il ritmo del montaggio accompagna le emozioni senza forzarle.

La memoria, in questa storia, non è semplice nostalgia. È un elemento salvifico, una chiave per comprendere il presente e per costruire un’identità collettiva. In un’opera che è al tempo stesso umana e politica, la memoria diventa strumento di resistenza, di trasmissione, di riconoscimento. Non si tratta di ricordare per rimpiangere, ma di ricordare per capire, per dare senso alle ferite, per riconnettere le storie individuali alla storia di un popolo…

da qui

 

 

  


venerdì 26 settembre 2025

Duse – Pietro Marcello

Valeria Bruni Tedeschi (che interpreta Eleonora Duse) è la protagonista assoluta del film, un'attrice che ritorna "in campo" dopo diversi anni di pensione negli Usa.

torna in patria e riprende il suo lavoro, in un momento storico terribile per l'Italia, qualche anno dopo la fine della prima guerra mondiale.

la storia dell'attrice è accompagnata da un filmato d'epoca del viaggio in treno che attraversa l'Italia, da Aquileia a Roma, per trasportare il milite ignoto all'Altare della Patria.

Valeria Bruni Tedeschi è Eleonora Duse, piena di dubbi e paure, decisa a tornare in teatro, ma in pochi anni l'Italia è cambiata, e le sue relazioni personali sono complicate, con la figlia sopratutto. 

il film non è un'agiografia, il registra mostra una donna che è nella fase discendente della sua vita, e non riesce ad accettare il tramonto.

buona (Valeria Duse) visione - Ismaele



…Duse resta un'opera sincera, coerente, ricca di suggestioni e visioni potenti. E' un film che non ti concede nulla, che richiede attenzione e tempo, ma che riesce comunque a lasciare un segno tangibile, seppur silenzioso, in chi è disposto ad ascoltarlo. Non tutto funziona, specie in qualche personaggio secondario (il cameo dello storico Giordano Bruno Guerri è una marchetta pura e semplice), e non tutti usciranno dalla sala emozionati. Ma chi ama il cinema che sa prendersi il suo tempo, che guarda al passato per interrogare il presente, troverà in Duse un qualcosa di prezioso: un film che crede ancora nella forza delle immagini e nella memoria delle voci che non si sentono più.

da qui 

...La regia di Pietro Marcello è ricca di trovate ispirate, fotografate nei toni freddi del blu in una Venezia desolata ed eterea. Mentre si moltiplicano le immagini che richiamano alla cecità e a uno sguardo offuscato, nella seconda parte si fa strada un palpabile senso di imbarazzo per una protagonista che si vende a Mussolini dopo aver "bruciato" Ibsen e lo stesso D'Annunzio (il sempre notevole Fausto Russo Alesi in un'interpretazione estrema, che non si fa schiacciare dagli eccessi di Valeria Bruni Tedeschi) sull'altare di un'incrollabile devozione - alla propria storia, al teatro, o forse all'idea di poter rimanere avanti al tempo

da qui

 

…Il risultato, nel complesso, non assume di certo le fattezze di un brutto film: l’estetica autoriale di Pietro Marcello conferisce spessore e dignità al racconto, trovando una buona sintonia con la scrittura del personaggio interpretato da Valeria Bruni Tedeschi, la cui prova, ripetizioni permettendo, resta il fulcro dell’opera, ciò che la sostiene nei momenti più fragili e le impedisce di crollare del tutto. Duse non è quindi considerabile un fallimento, ma un film irrisolto, a tratti bipolare, in cui elementi riusciti convivono con altrettanti punti deboli e si traducono in un prodotto destinato a sfiorare appena la sufficienza senza mai riuscire a spingersi veramente oltre.

Non sorprende allora che la complessità di questa seconda parte abbia generato una ricezione altrettanto sfaccettata. Se sui social la polemica si è concentrata soprattutto sulla prima metà, bollata in maniera anche fin troppo punitiva come ingenua e talvolta pretenziosa, l’accoglienza in sala durante la conferenza stampa ha raccontato un’altra storia: sin dall’ingresso degli attori, e poi ancor più durante le risposte alle domande dei giornalisti, la sala si è scaldata in un applauso fragoroso e prolungato, insolito per un contesto in cui di solito si tende a trattenersi e ad aprire non più di uno spiraglio al proprio io. È un segno di quanto Duse divida e al tempo stesso colpisca, di come riesca a far parlare di sé tra entusiasmo e irritazione, proprio come il personaggio che porta in scena.

da qui

 

…Marcello sembra voler costruire un ritratto che tende al simbolo: la Duse come una Vergine Maria laica, colei che tutto illumina e tutto redime. Un'immagine potente, ma che semplifica e impoverisce. È l'idea della santa più che quella della donna, un'icona costruita con cura estetica ma privata di ambiguità. La pietà domina il racconto, sostituendosi alle contraddizioni che avrebbero potuto renderlo vivo. Ciò che resta è una trita santificazione, dove l'eccesso di riverenza diventa un freno alla narrazione.
Eppure Marcello sa costruire immagini di grande bellezza. I palcoscenici vuoti, i lampioni che tremano nella notte, i costumi d'epoca catturati in inquadrature delicate restituiscono un tempo sospeso, fatto di polvere, di attesa, di memoria che sfugge. La regia è attenta, raffinata, elegante: ogni inquadratura è composta con una precisione pittorica che testimonia la sensibilità visiva del regista. Ma proprio questa perfezione formale rischia di diventare un ostacolo. L'occhio si compiace della bellezza delle immagini, ma il cuore resta distante. La cura estetica, invece di aprire alla vita, costruisce una barriera che separa lo spettatore dall'umanità della protagonista.
Alla fine, tutto quello che ci è dato è solo un'ombra nobile, elegante, sempre in posa: ciò che manca è la vita vera, l'imprevedibilità, l'errore. In questo scarto tra intenzione e risultato, tra estetica e sostanza, si consuma il limite del film. Il rimpianto resta: la Duse, donna di carne e contraddizioni, merita un racconto che restituisca la sua complessità, la sua imprevedibilità, non una versione levigata e mitizzata che conforta più di quanto interroghi. L'intensità esasperata, la pietà eccessiva, la santificazione banale della protagonista lasciano il film più vicino a un omaggio stilizzato che a un biopic memorabile. Rimane l'immagine di una santa del palcoscenico, ma si perde la vitalità della donna che osò consumarsi sul palco e nella vita. Ed è proprio questo il rimpianto più grande.

da qui

 

Duse sembra talvolta un lavoro a corrente alternata, con picchi e disomogeneità intensive, nel suo voler inquadrare un trapasso, parlando anche di cosa facciamo noi, qui, mentre tutto è in rovina, ma anche nel voler restituire il più possibile un ritratto tridimensionale, e su più piani esistenziali, della Divina, come se non si potesse sfuggire, almeno in una certa misura, alla necessità di esplicitare la personalità. In questo senso, la bravissima Valeria Bruni Tedeschi porta sulle proprie spalle qualcosa di più di una “semplice” interpretazione, facendosi vettore di accensione o stasi, di epifanie palpitanti o azioni/gesti maggiormente “di repertorio”, dipendendo il film da lei in misura decisamente marcata o, viceversa, essendo la sua interprete il barometro più netto dell’intero lavoro. La dialettica con l’immagine archivistica, tratto stilistico piuttosto frequente in Marcello, è qui quasi un raddoppio, teso all’esplicitazione del mortuario implicito, tramite un ritornello funerario e le inquietanti maschere degli italiani, specie a Roma durante l’ascesa del fascismo. La maggior convenzionalità narrativa di Duse rispetto ad altri film del regista lo rendono un’opera dalle traiettorie interne più centrifughe rispetto a un “nucleo” tematico ossessivo o monolitico. E questo è sia un cambiamento ben legittimo e positivo rispetto alla filmografia di Marcello, sia un percorso che conduce a dimensioni differenziali non sempre armoniche, non sempre compenetrantesi. Ma comunque molto interessanti.

da qui

 

Marcello arricchisce la pellicola di filmati d’epoca, un escamotage con cui rendere ancora più forte il legame della “Divina” con il periodo storico epocale.

“Duse" è un film davvero interessante poiché racconta il nostro recente passato, un passato da cui dovremmo imparare qualcosa. "Duse" è un resoconto che si destreggia egregiamente tra il privato ed il pubblico mettendo in scena l’immobilità del teatro dusiano e la velocità dei cambiamenti politici del Bel Paese. Marcello parla di Eleonora Duse ma narra soprattutto l’orribile Italietta dei papponi, degli approfittatori, dei vigliacchi che nel ventennio si accomodarono sul carro fascista per commettere crimini e sfruttare le più sordide occasioni di successo. L’Italietta del soldato ed aspirante drammaturgo Giacomo Rossetti Dubois sulle cui spalle poggiano le sconsiderate scelte di milioni di italiani che si fecero fascisti per rivalersi sugli altri dei propri fallimenti. Il suo incontro in camicia nera con una Eleonora Duse delusa ed incredula è forse il centro nevralgico di questo ritratto d'epoca. Di quella loro e di quella nostra.

da qui



giovedì 25 settembre 2025

Milarepa – Liliana Cavani

Liliana Cavani gira una versione senza effetti speciali della vita di Milarepa, l'Himalaya sta in Abruzzo e Milarepa è il "sogno" di uno studente di famiglia proletaria che sta facendo una tesi su Milarepa.

in certi momenti un po' lento, merita però la visione.

buona (proletaria) visione - Ismaele

 

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

 

Che anni quegli anni. Alla Cavani venivano proibiti e/o tagliati film dalla Commissione di censura per ragioni ideologiche (come il Galileo), ma poteva realizzare film come questo che, oggi, sarebbe censurato dal mercato: sempre che lo potesse realizzare, resisterebbe nelle sale un giorno e mezzo, a meno che non trovi qualche cinema specializzato in pellicole new age. A me è risultato un film piuttosto pesante, anche se interessante nell'illustrare le vie all'illuminazione ed indubbiamente rifuggente qualsiasi logica commercialmente spettacolare. Certo, è forse troppo chiedere agli Appennini abruzzesi di interpretare l'Himalaya tibetano: le nostre cime - mi si consenta la battuta - non sono all'altezza di quelle vette. Ed anche i discepoli degli yogi tibetani somigliano più a comparse di film di kung fu o di pirati della Malesia.

da qui

 

Una Liliana Cavani degli esordi, molto promettente e trascendente, che ci coinvolge in un viaggio erudito e affascinante ove il mix tra la cultura tibetana e la natura schietta ed agreste dei nostri Appennini, riesce a risultare affascinante così come il viaggio tra le dimensioni temporali che trasformano il giovane laureando in un nuovo profeta  lungo la via per la perfezione e l'armonia.

da qui

 

martedì 23 settembre 2025

Pa negre - Agustí Villaronga

durante la guerra (in)civile spagnola Andreu, un bambino, scopre il mondo dove vive, i franchisti hanno il potere e gli altri vanno sterminati, il padre compreso.

Andreu deve andare a vivere con la nonna, le zie e cugini e cugine, in una di quelle famiglie allargate di un tempo, che si proteggono contro il male.

un film ad altezza di occhi di bambino, che merita molto.

buona (repubblicana) visione - Ismaele



…Il mistero infatti non è il punto centrale del film è viene apparentemente svelato abbastanza presto. Il nodo centrale del film è la figura del piccolo Andreu che è costretto ad abbandonare la sua casa proprio per via di quell'omicidio di cui è sospettato il padre, figura di ribelle quasi romantica, uomo che mette gli ideali addirittura prima della propria vita. Il padre deve fuggire in Francia e lui deve riparare nella casa dei cugini, una casa di sole donne perchè nella Spagna poco prima della fine della fine della Seconda Guerra Mondiale gli uomini o sono impegnati col regime per mantenere l'ordine o sono alla macchia per combatterlo.

In mezzo possono stare solo i malati( vedi i ragazzi del sanatorio, con uno dei quali Andreu stringe amicizia e gli porta da mangiare perchè incuirosito dal mistero delle ali che quello dice di portare dietro le spalle, un'altra figura reale dai contorni sfumati nella fiaba) oppure personaggi come quello del maestro a prima vista innocui però pericolosissimi socialmente per ragioni che vengono spiegate durante il film.
Andreu impara molte più cose dalla cugina Nuria( una tipetta furastica e che ha l'aria di saperla molto lunga nonostante la sua giovane età) che dalla madre.
Il film parte proprio dal suo punto di vista per descrivere una Spagna che sembra essersi fermata al Medioevo, un villaggio fuori dal tempo e dallo spazio come circondato dai fumi delle leggende e dei miti ancestrali in cui i bambini imparano troppo presto cose che non dovrebbero sapere. Mentre i grandi perseverano nell'ignoranza spezzandosi la schiena in fabbrica in un mondo popolato solo di padroni e servi. E anche il piccolo Andreu sarà costretto a crescere molto più in fretta ma ben si adatterà rileggendo l'ambigua figura del padre in un modo nuovo…

da qui


…Pan negro es una película de extremos, sin grises, en la que nos encontramos momentos brillantes y otros que nos hacen recordar los típicos problemas del cine español, y me explico: Villaronga demuestra por un lado, gran talento y capacidad para situar la cámara y retratar la Cataluña de posguerra. Es llamativa la planificación de muchas secuencias en las que queda plasmado un gran trabajo por parte del director en este sentido. Visualmente la película es una autentica maravilla, nada que objetar. Pero todo ese gran trabajo se diluye con un guión mal construido, que no ayuda al espectador a centrarse en la historia, con giros injustificados, múltiples tramas que pululan sin una cohesión y sobre todo, una narración que se centra única y exclusivamente en mostrar el punto de vista de uno de los personajes, Andreu, que empobrece sobremanera el resultado final. Hay situaciones en la película que se me hacen difícil de justificar: la niña que les acompaña a todas partes y que no para de insultar a Andreu y sus primos; el joven leproso que dice ser un ángel; el momento «erótico» en el bosque entre Andreu y su prima… y no son los únicos…

da qui


Il pane nero è senza virtù, né anima, è morto. È la sostanza coriacea e inerte, sporca di miseria, che tocca a coloro i quali, mancando di risorse materiali, sono tenuti moralmente in ostaggio dai potenti, rimanendo nell’impossibilità di seguire i propri principi e coltivare i propri ideali. Tra i beni che sono loro negati vi sono anche quelli fondamentali del rispetto per se stessi, e del diritto a vivere e morire per qualcosa che non sia lo squallido frutto di un compromesso stipulato per sopravvivere. Nella Catalogna del primo dopoguerra, il piccolo Andreu, un ragazzino di campagna, figlio di un’operaia tessile e di un militante comunista, è testimone di una serie di atrocità, viste con i suoi occhi o sentite raccontare dalla gente del villaggio; di queste, però, coglie soltanto la parte dolorosa, quella che le circonda della nobile aura del sacrificio, in cui la vittima è innocente, ed il carnefice non è mai un colpevole in carne e ossa. Culet, il bambino che all’inizio della storia viene fatto precipitare con la carrozza giù da un dirupo, è stato ucciso da un mostro dei boschi di nome Pitorluia, che quasi certamente è un fantasma. Se suo padre viene arrestato ed incarcerato, è soltanto per via della sua fede politica, che lo spinge a lottare per un futuro migliore…

da qui

 

…Questo incipit impressionate e fantastico al tempo stesso, costituisce il presupposto per consentire al bravissimo (e molto premiato in questa occasione) regista iberico Villaronga di calarci perfettamente in quegli anni di oscurantismo, povertà e miseria: un epoca di orrori e massacri visti con gli occhi infantili, disincantati ma lucidi di un bambino, dove la dimensione “dark” di una vita di stenti e incertezze si tinge dei colori accesi e favolistici di una visione gotica in cui le spiegazioni dei misteri e delle morti vengono attribuite alla presenza di un fantasma delle caverne: il tanto temuto Pitourlia che da sempre impaurisce i  bambini del villaggio e che nasce da una brutta vicenda di intolleranza nei confronti di un giovane omossessuale, seviziato e castrato come un maiale dal branco, un'orda assetata di sangue, un manipolo di compaesani ignoranti ed invidiosi.
Povertà, cattiveria ed ignoranza si arricchiscono e maturano fino ad esplodere nel sangue della vendetta premeditata, che si tinge di un alone di mistero e di orrore nella mente e nei racconti dei ragazzi che si trovano a sopravvivere in quei territori aspri ed inaccessibili e che preferiscono trovare spiegazioni nell’irrazionale piuttosto che scendere a patti con la dura realtà che deriva da una vita condizionata dalla miseria e dalla fame  di una società che ha appena superato una guerra per finire nelle morse di una dittatura (e dunque dalla padella alla brace)…

da qui 

 


lunedì 22 settembre 2025

Alpha - Julia Ducournau

appare solo in una sessantina di sale Alpha, il nuovo film di Julia Ducournau, dopo Grave e Titane.

una famiglia di origine berbera nella Parigi degli anni dell'Aids, la madre medico (Golshifteh Farahani), la figlia (bambina e adolescente) Alpha (una bravissima Mélissa Boros) e il fratello della mamma Amin (Tahar Rahim), tossicodipendente e senza futuro.

è un film d'amore, in fondo, in un mondo che sembra alla fine, con il vento rosso in agguato e in attesa.

c'è una grave malattia che stravolge le vite, trasforma i corpi in pezzi di marmo, senza speanza di guarigione (come l'Aids nei primi anni).

è un film intenso, doloroso, disperato e tuttavia pieno d'amore, è grande cinema, con attrici e attori più che perfetti.

un film da non perdere, per i miei gusti.

buona (Alpha) visione - Ismaele

 

 

 

…Julia Ducournau non prende la strada più semplice per condurre lo spettatore nel percorso di crescita di un’adolescente e nell’elaborazione del lutto di sua madre, anzi ci sbatte in faccia proprio il percorso più tortuoso, quello fatto di ostacoli e tanta buona volontà nel superarli. Inoltre, esattamente come accadeva in Titane, l’autrice gode nel confezionare un cinema respingente e ostico, che crea domande invece di dare risposte. Quindi non aspettatevi una visione leggere, Alpha non lo è, e soprattutto sappiate che quando inizieranno a scorrere i titoli di coda, non tutti i nodi saranno venuti al pettine. Ma la delicatezza e la credibilità con i quali viene affrontato questo coming of age sono esemplari, così come il volto incredibilmente espressivo della giovane Mélissa Boros che veste i panni della protagonista.

Inoltre, Julia Ducournau conferma un talento incredibile nel trovare il punto giusto in cui posizionare la macchina da presa, lo stesso talento che ha nel raccontare l’universo femminile borderline e nel dirigere i suoi attori. Se in Titane era Vincent Lindon a risultare particolarmente magnetico, qui è Tahar Rahim a offrire un’interpretazione meritevole di qualsiasi premio.

Alpha non è un film facile, dunque, sicuramente chiede una particolare predisposizione dello spettatore alla ricezione, come del resto i precedenti film dell’autrice, ma se si riesce a cogliere il senso dell’operazione (meno ostico di quello che qualcuno vi potrebbe dire), allora si tratta di un bellissimo viaggio emotivo nella vita turbolenta di una madre e una figlia.

da qui

 

La storia segue due linee temporali: Alpha a cinque anni e Alpha a tredici anni. Le due temporalità finiscono per incrociarsi, sovrapporsi e qualche volta convergere nella stessa sequenza, traducendo propriamente la visione che una bambina ha del mondo che la circonda, decifrando quello che percepisce ma anche la maniera in cui gli eventi sedimentano col tempo nella sua memoria, come una successione di sogni che si appoggiano l'uno sull'altro.

Oblio, reinterpretazione, reinvenzione, reminiscenza cortocircuitano tempo e spazio, ogni normalità è sospesa per instaurare il caos. Una confusione che spalanca le porte del passato e risveglia il fratello e lo zio, fantasma inquieto tra overdose, prigione e destino in frantumi. In questo triangolo affettivo, solo la madre non ha un nome. È bastione, riparo, figura materna che 'porta soccorso' e defibrilla per ripristinare il normale ritmo vitale dei suoi cari, per scongiurare la morte della figlia, che potrebbe essere stata infettata da un tatuaggio artigianale, e per aiutare il fratello tossicomane a vivere, ancora e ancora. E la sua attitudine alla vita, fino all'accanimento, trasfonde energia romantica a un film emozionante come una nascita e struggente come un lutto. Golshifteh Farahani è semplicemente mamma, la cura e il prendersi cura, in ospedale come a casa, uno spazio domestico che assomiglia più a un gabinetto medico che a un focolare.

Daccapo, Ducournau si avventura nel territorio dell'orrore corporale ma la carica (virale) è meno viscerale, meno apertamente sanguinolenta, che nei suoi film precedenti, nonostante la sequenza in piscina, le siringhe infilzate come coltelli e il mauvais sang.

Tahar Rahim, spaventosamente magro, come un dannato con gli occhi vuoti, sembra di fatto un'incarnazione di Denis Lavant nei film di Leos Carax. La figurazione incandescente dell'attore è coerente con la realtà della malattia ma soprattutto con l'estetica del cinema francese degli anni Ottanta: forme bidimensionali, tinte unite, neon, lunghi intervalli musicali.

Al corpo minerale (e calcificato) di Tahar Rahim reagisce quello 'in formazione' di Alpha, un'altra adolescente ducournauiana che scopre un segreto di famiglia e porta la 'differenza' in un mondo che ha perso tutti i ripari. Mélissa Boros, consumata dai traumi di un'infanzia al cuore di un clan disfunzionale, piange lacrime di polvere dentro un film sepolcrale e ferito, imperfetto e folgorante. La sua Alpha è carne tra sculture funerarie, torrente di sentimenti cullato da una ninna nanna berbera ("A Vava Inouva"), prima che il mondo finisca e il vento si posi
.

da qui


 

Anche Alpha, la tredicenne protagonista del nuovo omonimo film di Julia Ducournau, è una reietta, esattamente come la Hester raccontata da Nathaniel Hawthorne ne La lettera scarlatta, e non a caso anche lei si ritrova con una A apposta alla sua pelle. Certo, quella lettera è l’iniziale del suo nome e non sta lì a indicare un’adultera, ed è marchiata a fuoco sulla pelle e non cucita sull’abito, ma l’apparentamento non pare così peregrino, perché anche la giovane adolescente che vive con la madre dottoressa obbligata a turni massacranti in ospedale a causa di un virus letale che sgretola letteralmente le persone in realtà viene guardata da tutti come un’appestata. Forse a sua volta potrebbe aver contratto quel virus che non lascia scampo e che si trasmette attraverso gli aghi. Si è nella Francia dei primi anni Novanta, lo si comprende dal fatto che in televisione viene trasmesso Le avventure del barone di Munchausen di Terry Gilliam, e la metafora non potrebbe essere più chiara: il terzo lungometraggio di Ducournau, dopo essersi concentrata sulle pratiche del cannibalismo in Raw e aver riportato alla mente connubi incestuosi tra essere umano e macchina in Titane, si muove in direzione della riflessione sull’AIDS, la sindrome da immunodeficienza acquisita che per oltre un ventennio è stato l’incubo costante con il quale almeno tre generazioni sono state costrette a convivere. Nata nel 1983, la regista parigina deve aver introiettato la paura degli aghi, dei tossici, e dei rapporti sessuali che il dilagare dell’AIDS portò con sé, e la getta tutta in questo film che assume dunque dei connotati quasi catartici. In realtà Alpha è una ragazzina decisamente indomita e coraggiosa: non teme i continui dileggi che subisce in classe – soprattutto dalla fidanzatina del suo migliore amico Adrien, che è segretamente innamorato di lei –, non ha paura della malattia che pure forse potrebbe aver contratto, e affronta con un coltello lo sconosciuto che trova un giorno in casa e che scopre essere il fratello di sua madre (eroinomane che tenta disperatamente di uscire dalla dipendenza), di cui non serba memoria nonostante lo spettatore li abbia visti insieme nella sequenza introduttiva, quando però Alpha aveva appena cinque anni…

da qui

 

Ducournau non controlla gli eccessi – soprattutto della colonna sonora che a volta va troppo ‘a palla’ – ma un film (e un cinema) del genere, non può, anzi non deve avere limiti. Cerca l’aria e l’acqua ma mostra anche come gli elementi possono diventare soffocanti come nel soffitto che si abbassa e si rischia di schiacciare Alpha o la magnifica sequenza in piscina, alla de Palma, sulla linea di Carrie ma agli occhi degli altri può trasformarsi anche in uno squalo spielberghiano. Gli occhi nascondono il demone. Il corpo diventa la propria arma di un martirio. Del contagio, principalmente, c’è la paura, anche se poi in un abbraccio emozionante tra nipote e zio, le figure si mescolano. Prima di tornare ancora polvere?

Soffocante, ma anche devastante. Alpha è (anche) una storia familiare sulla tossicodipendenza. È il film più estremo e cupo della regista, quello in cui i cadaveri (del cinema) potrebbero essere sepolti per decenni, secoli, prima di tornare a muoversi nella notte. Si presenta totalmente respingente. Ha l’impatto di un pugno in pieno volto ma anche di un’indimenticabile notte di sesso. Per questo ancora più degli altri due film, stavolta la cineasta non ha mezze misure nel filmare la bellezza della mostruosità e gli abbracci perduti e ritrovati. Alpha è un cinema impetuoso e abbagliante, tra più radicali degli ultimi anni. Il contagio (sensoriale) – anche nella contrapposizione tra dolore e piacere – si insinua come un virus, in una sinfonia dissonante che continua a rimbombare nella nostra testa.

da qui

 

 


domenica 21 settembre 2025

El verdugo (La Ballata del Boia) - Luis García Berlanga

film sceneggiato (benissimo, ca va sans dire) da Rafael Azcona e Ennio Flaiano, diretto da Luis García Berlanga, interpretato da ottimi attori, sopra tutti Nino Manfredi, è una commedia che vira in tragedia, fare il boia non è facile, per chi ha un animo gentile.

girato nel 1963, in pieno franchismo, all'inizio fu autorizzato dai censori spagnoli, che forse non avevano visto tutto il film, come una commedia divertente.

la realtà era ben altra.

un film da non perdere, promesso.

buona (garrota) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo 

 


 

"La garrota inumana?! Ghigliottina e sedia elettrica ben di più". Questo il parere dell'anziano boia spagnolo cui il bravissimo Nino Manfredi finirà per imparentarsi anzichè emigrare in Germania a fare il meccanico e non più il becchino. Ma talvolta la vita è dura e ti porta dove non vorresti. Bianco e nero che fu boicottato in Spagna, da vedere.

da qui

 

Manfredi vive in Spagna ed è un pacifico addetto alle pompe funebri. Un giorno si sposa con la figlia di un boia e deve accettare di succedergli per avere un appartamento. Poi arriva la sua prima esecuzione...

Bellissimo dramma d'impegno civile contro la pena di morte. Qua e là, vista anche la presenza di Manfredi, la storia si alleggerisce e si ammanta di umorismo, ma il tono della pellicola è tragico ed è pregna di una cattiveria degna di Ferreri. Bravissimo ed intenso, come sempre, Manfredi.

da qui

 

il finale è tragico e fa intravedere un futuro amaro: l’apprendista boia, per quanto disgustato dal proprio compito, si avvia a diventare l’indifferente macchina di morte che era stato il suocero (“Non lo faccio più” “L’ho detto anch’io la prima volta”). Così com’è, resta un documento dell’atmosfera plumbea della Spagna franchista; ma sospetto che sarebbe stato ancora più efficace lasciando l’ambientazione indeterminata.

hda qui

 

Il film è scritto benissimo e alcune sequenze sono davvero indimenticabili: Amadeo che tenta di onorare il proprio lavoro quarantennale, spiegando all'appena conosciuto Josè Luis, contrario alla pena di morte poiché "la gente dovrebbe morire nel proprio letto", che la garrota è ben più umana della ghigliottina francese o della sedia elettrica statunitense, è un momento incredibile, perché visto oggi da una parte raggela, ma dall'altra è veramente esilarante.

Allo stesso modo è di grande comicità la sequenza in cui José Luis e Carmen vengono scoperti seminudi in casa dopo un pomeriggio d'amore, ben prima del matrimonio, da un furioso Amadeo, davanti al quale il personaggio di Nino Manfredi si presenta ancora trafelato per riparare chiedendo ufficialmente la mano della figlia, ma nel farlo perde i pantaloni. Altri due passi, almeno, sono degni di un film comico dell'era del muto: il corteo funebre sulla pista dell'aeroporto, con la vedova che avendo sposato il marito per corrispondenza non riconosce il defunto; e il matrimonio dei due protagonisti, che si svolge in una chiesa in cui durante la celebrazione vengono portati via tutti i fiori e le decorazioni del matrimonio precedente…

da qui