domenica 31 agosto 2025

Regno Unito, la polizia arresta lo sceneggiatore di Ken Loach, Paul Laverty, per una maglietta contro il genocidio

                                  Paul Laverty. Foto: BBC films

 Lo sceneggiatore di Io, Daniel Blake è stato arrestato perché indossava una maglietta con la scritta Genocidio in Palestina, è ora di agire

La polizia ha arrestato lo sceneggiatore di Io, Daniel Blake, Paul Laverty perché indossava una maglietta con la scritta Genocidio in Palestina, è ora di agire.

L’arresto è avvenuto nella capitale della Scozia Edimburgo durante una protesta contro l’appoggio del governo del Regno Unito ad Israele nel corso del genocidio a Gaza.
Lunedì scorso un annuncio su X a nome del regista di Io, Daniel Blake Ken Loach e della sua società di produzione Sixteen Films, ha confermato l’arresto di Laverty.
Paul Laverty si trova attualmente trattenuto in custodia nella stazione di polizia di St. Leonard di Edimburgo, presumibilmente a causa del sostegno a Palestine Action, scrive la nota sulla piattaforma social.
Un portavoce della polizia scozzese ha dichiarato: ”In seguito ad una protesta di fronte alla stazione di polizia di St Leonard lunedì 25 agosto 2025 un uomo di 68 anni è stato arrestato in base al Terrorism Act 2000 per aver espresso sostegno ad un’ organizzazione messa al bando. Le indagini proseguono”.

A luglio il Regno Unito ha messo al bando l’organizzazione Palestine Action, un gruppo di protesta che avrebbe presuntamente preso di mira fabbriche di armi e attrezzature militari in una serie di episodi di azione diretta.
Esprimere o sollecitare il sostegno a Palestine Action nel Regno Unito è un crimine punibile con la detenzione fino a 14 anni, in base al Terrorism Act 2000.
L’11 agosto sono state arrestate più di 500 persone, in maggioranza sopra i 50 anni, per presunto sostegno all’organizzazione mentre partecipavano ad una protesta che chiedeva al governo di togliere il bando. Decine di altre sono state arrestate in altre proteste nel Paese.
Volker Turk, alto commissario ONU per i diritti umani, a luglio ha detto che la decisione del Regno Unito di mettere al bando l’associazione di attivisti in quanto organizzazione terrorista era sproporzionata e non necessaria ed ha chiesto che la definizione venisse revocata.
Ha affermato: “La legislazione antiterrorismo interna al Regno Unito definisce gli atti terroristici così ampiamente da includere ”gravi danni alla proprietà”.
“Ma, in base agli standard internazionali, gli atti di terrorismo dovrebbero essere circoscritti ad atti criminali finalizzati a provocare morte o gravi ferite o la presa di ostaggi, con lo scopo di intimidire una popolazione o costringere un governo ad intraprendere o meno una certa azione”.
”È un travisamento della gravità e dell’impatto del terrorismo ampliarne la definizione al di là di quei precisi limiti, per includere ulteriori condotte che costituiscono già un reato in base alla legge”.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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sabato 30 agosto 2025

Nazarín - Luis Buñuel

un prete, malvisto dalle autorità ecclesiatiche e alla fine arrestato dai militari, in Messico, vive di niente, di elemosina, ma quella che dà e più di quella che riceve, come Gesù si accompagna a prostituìte, che scandalo!

un film che non ti stanchi di vedere, denso di significati, Buñuel è davvero unico, un film da non perdere assolutamente.

buona (cristiana) visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo, in italiano o in spagnolo

 

 

Buñuel e la lezione di carità di “Nazarín” - Goffredo Fofi 

Mentre in Italia una cultura in fatto di storia del cinema è impossibile farsela, per le nuove generazioni (anche per il disastro di un sistema scolastico che andrebbe “revisionato” da capo a fondo), con la sola eccezione della splendida attività della Cineteca di Bologna, capita altrimenti altrove, per esempio a Parigi, dove sono attive due cineteche con programmazioni quotidiane, e sono tuttora tante le cosiddette sale d’essai. Capita dunque di rivedere, in nuove edizioni e su grande schermo, i grandi titoli del passato, e tra questi ho avuto la fortuna di poter rivedere Nazarín di Luis Buñuel, uno dei film che in passato mi hanno più sconvolto e dato da pensare. È un film messicano del 1958, tratto da un romanzo di Benito Pérez Galdós del 1895 (ne conosco un’edizione italiana di Avagliano, recuperabile tramite internet), l’autore da cui il regista trasse anni dopo, stavolta tra Francia e Spagna, un altro capolavoro, Tristana.

Perché Nazarín è uno dei film che più mi mise in crisi e mi dette da pensare, quando lo vidi la prima volta tanti anni fa, proprio a Parigi, dove avevo seguito per diversi anni i miei che vi erano immigrati per sopravvivere? Perché raccontava anche certe mie fantasie giovanili e le metteva in crisi. Nazarín è un giovane prete che, nella periferia di Città del Messico al tempo della dittatura porfiriana, come altri prima di lui vuole imitare il Cristo e si fa mendicante e pellegrino per le strade del Messico, raccogliendo involontariamente intorno a sé un piccolo gruppo di disastrosi fedeli, un nano, due prostitute eccetera. Nonostante la sua riluttanza in alcuni villaggi trova chi lo venera come una specie di santo, di guaritore. La sua sconfitta maggiore è quando vuole assistere una giovane moribonda, che invece della consolazione divina invoca il suo uomo e vuole ancora, fino alla fine, abbracciarlo (è un episodio che cita Sade), ma in generale il suo ostinato far del bene non porta serenità ma gelosie e opportunismi nel piccolo gruppo dei seguaci, ed è visto con ostilità dalle autorità dei villaggi finché non viene arrestato, perché in suo nome accadono liti e disgrazie. Ed è allora che, lungo la strada in cui è portato a piedi e ammanettato da una prigione a un’altra, quando una contadina che porta una cesta al mercato gli fa la carità di un frutto, che Nazarín capisce il senso vero della carità, nella solidarietà degli umili. Buñuel detestava l’uso della musica nei film, considerandolo una sorta di ricatto sui sentimenti degli spettatori, ma a questa scena unì il suono improvviso ed esplosivo dei tamburi della settimana santa del suo paese natale, Calanda, e noi capiamo dal volto di Nazarín che egli infine ha rinunciato all’orgoglio di una presunta santità per l’accettazione della lezione più vera della carità tra umili. Molti hanno ragionato su questo finale, uno dei più intensi, e sì, educativi, dell’intera storia del cinema. La sceneggiatura del film si può leggerla in Sette film di Luis Buñuel, che curai per Einaudi tanti anni fa con l’aiuto dello stesso regista.

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…Nazarin è un film impegnativo come tutte le opere di Buñuel, che non lascia inerte lo spettatore, perché lo spinge in ogni momento a domandarsi quale sia il significato di ciò che vede sullo schermo, anche se spesso (per sadica volontà surrealista del regista) un significato preciso non c'è. Nazarin è comunque un film importante che può in un primo momento spiazzare lo spettatore (è tratto da un romanzo realista; sembra prefigurare un'adesione di Buñuel al cristianesimo), ma con un po' d'occhio si può riconoscere il Buñuel migliore, quello del "grazie a Dio sono ateo", che con il film successivo, Viridiana (1961) chiarirà meglio ciò che pensa della religione rivelata (ma si tengano d'occhio i preti che Nazarin incontra durante il film). Nazarin è un film notevole anche dal punto di vista figurativo, fotografato superbamente dal maestro Gabriel Figueroa, che tiene a mente le opere pittoriche di Velasquez, Murillo e Goya…

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…Il protagonista interpretato Francisco Rabal è l'incarnazione di una religiosità autentica, direttamente ispirata al messaggio evangelico, disposta al sacrificio di sé e all'aiuto incondizionato al prossimo come valori-guida. Questa concezione è avversata e addirittura perseguitata dal potere ecclesiastico (viene rimproverato da un agiato prete “borghese” per il suo stile di vita frugale e pertanto indegno di un sacerdote; un alto prelato che si accompagna ad un arrogante militare definisce addirittura Nazarín “eretico” per aver affermato che un poveraccio ha la stessa dignità umana di un re). E' una figura che ricorda San Francesco o lo stesso Cristo per la noncuranza delle convenzioni sociali e delle apparenze (come accompagnarsi con due donne) che lo espone agli attacchi di un moralismo che guarda solo alla facciata di un'ipocrita presentabilità invece che alla sostanza delle condotte personali.

Nazarín è però distante anche dalla religiosità superstiziosa del popolo e cerca di allontanare le donne dalle ingenue credenze sul malocchio ed i miracoli per affidarsi più concretamente alla scienza medica. Questi “ultimi”, come le prostitute, assassini, nani, seppur peccatori sono comunque visti come depositari di un candore che li può avvicinare a Dio, come emerge dalle domande, ingenue confusionarie, ma profonde e pungenti, che la fuggiasca Andara pone a Nazarín (“Perché uno nasce? E come fanno i pulcini a diventare proprio uguali alla gallina? E perché tre corvi portano sfortuna e due fortuna? E mi dica, perché i topi così piccoli sono tanto vivaci e le mucche così grandi sono tanto stupide? E un'altra cosa … perché facendo l'elemosina ai preti le anime escono dal Purgatorio?”)…

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Film connotato da una lucidità espositiva impressionante, dove l’armonia complessiva di ambientazione, personaggi e storia raggiunge livelli altissimi.
È poi così anticristiano il messaggio di fondo di questo film? Certamente resta un film profondamente religioso, che impone allo spettatore interrogativi complessi e destinati a risposte mai definitive.

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venerdì 29 agosto 2025

Una lucertola con la pelle di donna – Lucio Fulci

una sempre bravissima Florinda Bolkan ha una vicina hippie che le piace molto.

con l'aiuto di uno psicoanalista (ridicolo) riesce a non essere imprigionata per un omicidio, ma l'ispettore (Stanley Baker, che ha una certa somiglianza con Sean Connery) non ci crede molto.

un film da non perdere, come capita spesso a Lucio Fulci, non privatevene, non vi deluderà.

buona (swinging) visione - Ismaele


 

 

QUI o QUI si può vedere il film completo in italiano

 


 

Questo è uno dei film più celebrati di Fulci (a ragione secondo il mio modesto parere) in cui oltre alla furbizia da parte dei produttori per inserirsi nel genere inaugurato dal giovane Argento con i suoi primi film dal titolo zoologico baciati da grande successo commerciale c'è da riconoscere l'indubbio talento visionario di Fulci,vero e proprio valore aggiunto di questa pellicola.In più abbiamo le musiche di Morricone che ben si abbinano alle molte sequenze psichedeliche del film e una swinging London coloratissima,irrazionale,irrefrenabile nella sua vitalità.Il film è un continuo disseminare piste false,un susseguirsi di atrocità assortite chiaramente mostrate e di orrori più subliminali che si insinuano sottopelle.Fulci è bravo soprattutto dal punto di vista visivo scatenandosi in una regia al limite del barocchismo formale.Il titolo zoologico è una di quelle furbate che si devono ai produttori(la leggenda narra che Fulci aveva l'intenzione di intitolarlo La gabbia),il finale affatto consolatorio non colpisce per logica ma è lo stesso una discreta sorpresa.Dal giallo nella parte centrale il film vira all'horror(la parte nel manicomio)con tutta una serie di colpi di scena abbastanza artificiosi.Ma contano poco:il film vale soprattutto per la sua tavolozza cromatica impazzita,per il mescolarsi di simbologie psicanalitiche e deliri lisergici inseriti in un atmosfera da incubo,vale per alcune sequenze girate veramente con grande maestria.La verità è servita a frammenti,viene quasi rubata,origliando.E in questo la soluzione del giallo,poco verosimile finchè si vuole,viene data allo spettatore in maniera decisamente originale.Non consolandolo affatto ma facendogli sorgere nuovi interrogativi....

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Se è vero che esistono film che meritano di essere studiati e ricordati anche solo per l’idea, la scintilla creativa che fece mettere in moto il sistema produttivo, con quale decenza si può pensare di negare un posto nella storia del cinema italiano ed europeo a Una lucertola con la pelle di donna? Basterebbe la poesia maldororiana del titolo, forse. Ma se così non fosse bisognerebbe inchinarsi di fronte ai primi cinque minuti, che rappresentano la liberazione definitiva di Lucio Fulci, e di tutto il cinema giallo e thriller, dalle pastoie della logica, del buon senso, della prassi. Ma sull’incipit e sulla sua folgorante forza si tornerà tra poco. Il punto ovviamente è che all’epoca dell’uscita in sala il film venne visto con un malcelato disprezzo, e il dito accusatorio puntava in direzione di una sceneggiatura rabberciata, poco sensata, un po’ buttata via. Anche il critico quotidianista più famoso d’Italia, Paolo Mereghetti, mostra una prosa a dir poco sprezzante nelle brevi righe che dedica al film suo suo “Dizionario”: «Fulci (sceneggiatore con Roberto Gianviti) avrebbe fatto meglio a seguire fino in fondo la pista onirico-psichedelica, e invece arranca cercando una logica in un intreccio che non ne ha. Lampi di talento visivo, baracconate ed echi della Swinging London: se non altro ci sono le ottime musiche di Ennio Morricone (in vena sperimentale) e la fotografia di Luigi Kuveiller. Gli effetti speciali (inutili e brutti) sono di Carlo Rambaldi». L’insistenza su sostantivi come “baracconata” e aggettivi quali “inutile” o “brutto” denota la voglia di tenersi a debita distanza da questo film, e forse dall’intera esperienza autoriale di Fulci. Un regista troppo estremo, nella sua messa in scena dell’orrore, per assecondare le voglie di logica di una nazione normata nel benestare borghese…

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…Generalmente messo in secondo piano rispetto ai successivi gialli fulciani (in particolare ai celebratissimi Non si sevizia un paperino e Sette note in neroUna lucertola con la pelle di donna in realtà, per moltissimi versi non ha niente da invidiare a questi ultimi; almeno sul piano squisitamente visivo, e in un’atmosfera che dall’iperrealismo iniziale scivola lentamente verso un lucido delirio, il film di Fulci fa una cavalcata sulle ali dell’inconscio e delle più basiche pulsioni umane, non avendo paura a “sporcare” il genere – e il discorso psicanalitico che abbozza – con generose dosi di effetti gore. Effetti, questi ultimi, che tuttavia non risultano mai gratuiti, ma contribuiscono al contrario a quell’onirismo privo di compromessi, a quella voglia di destabilizzare le certezze di chi guarda – ivi compreso chi pensi di mettersi davanti a un giallo con dentro un po’ di erotismo – di cui il regista farà un po’ il suo marchio di fabbrica. Non a caso, molti anni più tardi, lui stesso si definirà un “terrorista dei generi”; quello stesso “terrorismo”, quella voglia di rovesciare il genere, contaminandolo e rivoltandolo da dentro, è già evidentissimo in questo suo secondo thriller.

Oltre il giallo

Sarebbe sbagliato valutare Una lucertola con la pelle di donna (che originariamente doveva intitolarsi La gabbia, e fu in seguito rinominato per adeguarsi alla “moda” dei titoli con gli animali) con le lenti della pura coerenza narrativa, o soffermandosi semplicemente sui dettagli del suo intreccio giallo. Se preso squisitamente come thriller, il film di Lucio Fulci mostra più di una forzatura narrativa e diversi buchi logici, segno di una sceneggiatura su cui – com’era d’uopo all’epoca – misero le mani in molti. Lo script costruisce un meccanismo giallo più cervellotico di quello dei contemporanei film di Argento, ma a tratti sembra faticare a venirne fuori; ma quello che conta, qui – e questa risulta una novità nel panorama del thriller all’italiana – è la costruzione della singola sequenza più che il legame logico tra le stesse. Anzi, quanto più il regista sembra osare nell’impatto visivo (con un’abbondanza di zoom, panoramiche a schiaffo, dettagli di occhi e particolari truculenti) tanto più la trama pare distaccarsi dalle regole del genere, quasi irridendone le basi…

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giovedì 28 agosto 2025

Drug War – Johnny To

la polizia vuole smantellare una rete di trafficanti di droga e, grazie a un trafficante che diventa pentito/collaboratore, riesce a trovare tanti tasselli del traffico di droga.

i poliziotti sono coraggiosi e rischiano la vita ogni momento, ma quel pentito/collaboratore fa il doppio e triplo gioco, e tiene in scacco la polizia, vuole solo salvarsi, a qualsiasi costo.

alla fine non si salva quasi nessuno, e la pena di morte chiude i conti, almeno temporaneamente.

un gran bel film, da non perdere.

buona (drogata) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

 

…To è il Michael Mann d'oriente ed impone un ritmo solenne al film.  Satura la tensione decellerando i tempi del racconto , descrivendo le mosse della polizia e dei trafficanti quasi con piglio documentaristico; doppie facce ed inganni sono all'ordine del giorno, campanelli d'allarme e anticamere di agguati , inseguimenti e sparatorie che verranno , tutti elementi  inscenati questa volta (contrariamente al solito) con il contagocce; una guerra senza quartiere, un incubo lungo novanta minuti, “guardie e ladri” come si faceva una volta, disposti a tutto pur di averla vinta, non importa che si tratti di sordomuti o capitani della polizia; si fa sempre in tempo a morire.

E poi quel finale in strada tutti contro tutti, ineluttabile e brutale, senza pietà, coreografato magistralmente come il marchio “To” impone. Un’altra ottima prova che soddisferà gli appassionati del genere ed i fans del regista. Ma attenzione al ritmo: non è elevatissimo e chi si aspetta troppa azione potrebbe rimanere deluso. Per me un film fantastico…

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…Non è tanto la mannaia della censura cinese ad aver alterato Johnnie To, quanto quest’ultimo ad essersi adattato alle sue rigide maglie: ideali per celebrare il funerale di una cinema che non esiste più, lo stesso che nella nuova/vecchia Cina cresce verso l’età consapevole, conserva intatta la sua stilistica muscolarità ma rinuncia all’eroismo di fondo e inizia a contare i cadaveri che si lascia dietro.

Non ci sono eroi in Drug War, solo pedine e galoppini appartenenti a due sistemi contrapposti: come tali non meritano celebrazione o approfondimento caratteriale alcuno.
Gli eroi del primo To non morivano mai e se lo facevano venivano consegnati all’immortalità come l’Alain Delon al quale si ispiravano.
Louis Koo non è un eroe ma un codardo qualunque, un irresponsabile, un traditore: non merita eternità iconica bensì la conseguenza naturale delle sue gesta prive di onore, inconciliabili con qualsiasi codice di lealtà malavitosa.
Johnnie To è il primo a saperlo e lo abbandona al suo stomachevole destino, lasciandolo in preda al suo falso e disperato farneticare. Illudendolo, solo per un attimo, che una preghiera possa ancora salvargli la vita.

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…Drug War è inoltre un film fondamentale per il nuovo corso del cinema cinese: per la prima volta il pessimismo cosmico del noir e del poliziesco di Hong Kong non vengono colorati di rosa confetto durante il passaggio dalla piccola città-stato alla Mainland China. Anzi, To si permette di disquisire di droga e pena di morte, due argomenti su cui il governo centrale di Pechino preferirebbe il silenzio mediatico e artistico. Da questo punto di vista la sequenza finale, con la messa in scena dell’esecuzione legalizzata tramite iniezione di veleno – dopo che il film aveva passato la precedente ora e mezza a mettere alla berlina gli omicidi e la droga come elemento di svago dalla realtà – rappresenta un pugno nello stomaco difficile da sopportare, e una critica neanche troppo velata alle scelte del governo cinese. Per tutto questo, e forse per molto altro ancora, non riconoscere la grandezza di Drug War potrebbe essere un errore di cui pentirsi amaramente negli anni a venire…

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…Non a caso il film inizia mostrandoci il più squallido e straziante prodotto della miseria figlia del capitalismo: gli essere umani ridotti a contenitori viventi di ovuli di coca, ingeriti e trasportati nel ventre, poi espulsi quando (e se) si arriva a destinazione.

Se poi, cazzo, tale espulsione ed il conseguente lavaggio degli ovuli avvengono davanti ai miei occhi mentre mangio salmone affumicato, l’effetto disturbante è amplificato a dismisura.

Il disturbo è durato mezzo secondo comunque, ho ripreso subito a mangiare con gusto.

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Il racconto segue le vicende di una squadra di polizia che, come magari il titolo potrebbe far intuire, è impegnata nella lotta al traffico di droga. Tutto viene raccontato attraverso il punto di vista dei poliziotti e infatti, per una volta, non ci si trova di fronte al classico melodramma orientale tutto onore ed eleganza criminale. Gli unici lampi di "simpatia criminosa" arrivano da Jimmy Choi, un trafficante costretto dalla polizia a fare il doppio gioco per sostenere una complessa rete di schemi in cui praticamente chiunque, fra poliziotti e criminali, si nasconde dietro una maschera. Gran parte del film ruota attorno al rapporto di (scarsa) fiducia che viene a crearsi fra lui e il capitano di polizia Zhang e l'unico bagliore di umanità espressa dalla "fazione criminale" si manifesta nella suggestiva scena che vede Choi riunirsi ai suoi collaboratori e struggersi in lutto…

…primo film d'azione girato da Johnnie To in Cina, probabilmente costretto per questo a muoversi all'interno di limiti produttivi ben precisi e mostrare un dipartimento di polizia irreprensibile contro dei criminali senza ritegno, ma il risultato è comunque un gran poliziesco, teso, crudo, brutale, pieno di piccole idee fulminanti nella risoluzione dei conflitti e ricco di personaggi interessanti. Senza contare che comunque, di fondo, riesce a raccontare tanto degli antagonisti infami, ma profondamente umani, quanto degli eroi sì incorruttibili, ma certo non infallibili e che commettono anzi continuamente errori dalle conseguenze gravissime. Il tutto, poi, è messo in scena in una maniera incredibile: Drug War è un film pieno di immagini splendide, ambizioso nella costruzione di scene d'azione in esterni ariose, ricche, splendidamente coreografate e in cui - pazzesco! - si capisce sempre perfettamente cosa stia accadendo, con un'attenzione fenomenale per gli spazi, le geometrie, l'evoluzione delle sparatorie, senza per questo rinunciare a un approccio serio, a modo suo credibile, lontano, come detto, dai balletti assurdi che ci si potrebbe aspettare in un film orientale di questo genere.

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Come quasi tutti i suoi film anche Drug War è un film politico, dove però il politico scivola dolorosamente nell’autoptico, film sull’autopsia del politico, autopsia folle, interminabile, che non recede, se si intende qui per autoptico proprio quella punta o fondo - grund che giace dentro il politico, parte maledetta non assimilabile alla narrazione a posteriori, alle giustificazioni in base a logiche superiori, alle trame del linguaggio. Se il politico è, infatti, il manifestarsi dato dall’incontro di più esseri e della loro concatenazione e rinsaldarsi reciproco (come il un filo dell’ordito che si intreccia con un filo della trama: è lo stato della discriminazione e dell’analisi, è il tempo della coniugazione, del linguaggio), l’autoptico sarebbe il momento ulteriore dove la trama viene sfilacciata nel groviglio confuso e infinito dei fili che la costituiscono, e, iper - ravvicinata come per allucinazione, si scompone fino a diventare bava biancastra, lacerazione, sedimento scuro dove tutto il politico precipita per ritornare alla violenza primordiale dell’interno, della lotta intestina del tutti contro tutti, prima di ogni mediazione, sintesi, stabilità dei significati…

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martedì 26 agosto 2025

Diabolik – Mario Bava

nel 1968 Mario Bava girò Diabolik, che batte sempre la polizia, e la ridicolizza, sono esiti rivoluzionari, quelli erano i tempi giusti, nel fumetto e nel film.

John Phillip Law (Diabolik), che ha un'aria di famiglia di Jude Law, Marisa Mell (la bellissima Eva Kant), Michel Piccoli (l'ispettore Ginko) sono perfettamente credibili, e bravissimi, come tutti gli attori, d'altronde, merito del regista, no?

il film ancora oggi non è invecchiato per niente, e si vede con piacere ed entusiasmo (più e meglio dei film dei Manetti Brothers, senza offesa).

guardate questo gioiellino, e godetene tutti.

buona (diabolica) visione - Ismaele


  

QUI si può vedere il film completo online

 

 


l’anarchia visiva dell’opera non è fine a se stessa. È sintomo di un qualcosa situato più in profondità. Se analizziamo il plot del film in sé, non c’è poi molto da dire; l’intera narrazione è un susseguirsi di avvenimenti sopra le righe, col nostro (anti)eroe che fugge dalle grinfie della polizia. Ma siamo sicuri che sia tutto qui?

In una delle scene più famose del film, Diabolik ed Eva stanno consumando un rapporto sotto un’infinita pila di banconote, appena rubate. L’aria che si respira, oltre alla carica erotica dell’atto in sé, è un mix tra psichedelica tranquillità e morbosa ossessione. Quest’atmosfera è praticamente presente in ogni singolo momento del film. Il crimine è inteso quindi come puro piacere fisico, quasi irrazionale, in contrasto con la meticolosa preparazione dei colpi.

Ma non è solo il sesso a rappresentare un filo conduttore. È infatti presente una gran quantità di violenza grafica. Una violenza che potremmo definire addirittura arrabbiata. La morte ha un suo peso specifico. E il tutto è ovviamente condito da quell’asfissiante morbosità di cui si parlava poc’anzi.

Ma perché si è deciso di evidenziare questi elementi? La risposta è semplice. Siamo nel ‘68. Il sesso viene finalmente slegato dalla sfera della procreazione e viene in qualche modo “istituzionalizzato” come atto di piacere. E, sempre in questi anni, assistiamo allo sdoganamento della violenza, grazie anche al cinema. Per quanto riguarda la narrazione, dal ritmo feroce e quasi estenuante, potremmo dire che è in relazione con la frenesia di quegli anni. Anni in cui un cambiamento, anche in Italia, sembrava possibile, e che invece confluirono in un decennio, gli anni ‘70, parecchio difficili per il nostro paese…

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Il Diabolik cinematografico di Bava ispirato al fumetto dalle sorelle Giussani è in realta' abbastanza diverso dal suo omologo cartaceo differenziandosi soprattutto per non avere nessuno scrupolo ad uccidere e per un rapporto molto piu' carnale con Eva Kant(siamo sempre negli anni 60 nel fumetto la censura aveva costretto le Giussani a farli dormire in camere separate).Il film non ha struttura vera e propria ma è una sequenza di colpi uno piu' ingegnoso dell'altro con un finale nel rifugio che piu' aperto al seguito non si puo'.Curiosa la similitudine del rifugio con la bat caverna di burtoniana memoria, mentre la pop art affiora prepotente nelle bellissime scenografie.

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…Non un grande successo di pubblico (andò meglio sul mercato francese), di seguito trovate curiosità e aneddoti sulla lavorazione nelle 11 cose da sapere su Diabolik:

1) Nella versione a fumetti, Diabolik – conosciuto anche come ‘Il Re del terrore’ – è molto più sinistro della sua controparte cinematografica: è un criminale che combatte il male con il male, spesso ricorrendo all’omicidio per “punire” i malfattori che incontra. Il film è stato realizzato assumendo una certa conoscenza del materiale disegnato alla base da parte degli spettatori, spiegando in tal modo la reazione negativa che ha inizialmente ricevuto la pellicola al di fuori dell’Italia, anche se da allora è stato rivalutato come un classico della psichedelia cinematografica e della pop art degli anni ’60.

2) Il budget stanziato da Dino De Laurentiis – 3 milioni di dollari – era molto alto degli standard ai quali Mario Bava fosse abituato e gli avrebbe permesso di lavorare con più soldi e un cast molto più prestigioso di quelli cui era normalmente abituato. Tuttavia, il regista nato a Sanremo rimase fedele ai suoi principi, puntando sull’immaginazione piuttosto che sul denaro, e portò a termine il film con una spesa sostanzialmente inferiore alle previsioni, soli 400.000 dollari (altri tempi vero?)…

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Bava dirige volontariamente un’opera stupida, da intendere nel senso più etimologico del termine: un disvalore, senza dubbio, ma che ha comunque a che fare con il verbo latino stupēre, «stupire». E stupisce ancora oggi la totale libertà espressiva raggiunta da Bava sul finire degli anni Sessanta, la sua capacità di farsi beffe – un po’ come il criminale protagonista – delle regole del prodotto industriale, a partire dalla logica, dal rispetto ossequioso della trama, dalla capacità di trasmettere in ogni caso un messaggio morale, o comunque non privo di moralità…

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domenica 24 agosto 2025

The innocents - Eskil Vogt

Eskil Vogt è stato sempre lo sceneggiatore di Joachim Trier, per esempio in Thelma, film che ha qualche importante somiglianza con The innocents.

nella pacifica Norvegia non tutto è come sembra, un gruppo di bambini, due sorelle bionde di sangue norvegese (Anna e Ida) e un bambino (Ben) e una bambina (Aisha), figli, probabilmente, di rifugiati (da Somalia e Siria?), si trovano a giocare insieme nel parco sotto casa.

e però i bambini hanno dei superpoteri (cattivi?) che usano alla grande, à la guerre comme à la guerre.

all'inizio vediamo che Anna, una bambina autistica, interagisce con Aisha, si leggono nel pensiero, e Anna comincia anche a parlare.

e poi comincia una guerra senza pietà, nessuno capisce cosa succede, solo i bambini (e noi che vediamo il film) capiscono.

è una lotta senza quartiere, questione di vita o di morte.

un film che inquieta, e che ti ricorderai per molto tempo.

gli innocenti del titolo non sono così innocenti, vedrai.

un film da non perdere, davvero un gran film.

buona (innocente) visione - Ismaele




QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

 

The Innocents è spietato, non c’è modo migliore per definirlo. Spietato con noi spettatori e con i suoi piccoli -bravissimi-protagonisti che da villain diventano vittime e carnefici perdendo il controllo. Poche scene, in realtà, sono esplicitamente cattive, eppure così intense da spargere a macchia d’olio un’inquietudine che mal si sopporta. Una certa pazienza bisogna averla nell’approcciarsi al film di Vogt, perché è un film in crescendo che segue minuziosamente i piccoli diavoli e ne costruisce un background affascinante e triste allo stesso tempo, così da fondare il loro comportamento su una scrittura solida e non lasciata al puro divertimento di combinare guai in giro per la città. Condividono, oltre a capacità fuori dal normale, una situazione familiare decisamente non delle migliori. Le figure genitoriali non sono un reale punto di riferimento e, nello specifico caso di Ida e Anna, quando si ricordano d’essere un padre e una madre dedicano molto più tempo alla seconda perché malata e bisognosa di più attenzioni. Questa mancanza è un collante che li unisce e che li spinge a passare insieme le giornate ad “allenare” con un certo sadismo i poteri extrasensoriali che possiedono.

Il film è sostanzialmente questo, un viaggio nell’ignoto che i bambini compiono alla scoperta di sé stessi. Musica, ambientazione e la capacità del direttore della fotografia di catturare il meglio della luce tiepida norvegese concorrono alla creazione di un’atmosfera misteriosa, paurosa a piccole dosi, ma da cui è impossibile distogliere lo sguardo. The Innocents omaggia nel titolo anche il film omonimo di Jack Clayton del 1961, un capolavoro di suspense e paura da cui Vogt ha sicuramente imparato molto. È presumibile anche che sia fan del cinema di genere, perché un’opera così sofisticata non si tira su senza una conoscenza pregressa di specifiche regole. Ci fossero più film horror della stessa fattura al giorno d’oggi, il genere respirerebbe più spesso aria così fresca e salutare.

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Dal punto di vista tecnico il film è girato benissimo. La telecamera è posta costantemente ad altezza bambino, per immergerci proprio in quel contesto di vita dato che, come detto, i grandi sono figure di contorno (che non saranno comunque risparmiati, alcuni vittime inconsapevoli dei poteri dei loro figli). La fotografia è gelida, (del resto ci troviamo in Scandinavia) perfetta per comunicare la freddezza e l’impassibilità dei piccoli protagonisti di fronte alla violenza. La musica è perfetta, fatta di linee leggere al synth con virate verso partiture dai toni bassi che accompagnano le scene più inquietanti. Ma è su quello che dicevo all’inizio che il regista, Eskil Vogt (autore anche dell’ottima sceneggiatura), dimostra la sua bravura, ovvero la costruzione delle suspence attraverso dei tempi di montaggio perfetti e grazie a delle inquadrature ansiogene.
The Innocents è un film che inquieta e spaventa, perché quando si tratta di unire la figura dei bambini a concetti quali cattiveria, violenza e, in generale, al male, veniamo scossi nel profondo, giudicando la cosa così innaturale. In realtà non è un pensiero così blasfemo e questo film lo dimostra in modo intelligente, del resto il lato oscuro è in ognuno di noi, e ci accompagna dalla nascita  fino alla morte.

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Al cospetto di direttive che guardano di buon occhio all’omologazione, imponendo direttamente/indirettamente dei paletti che da consigliabili stanno diventando invalicabili, con il senso del pudore che viene osservato con deferenza/timore (talvolta senza crederci), è sempre più raro imbattersi in modelli/dettami/idiomi in grado di percorrere sentieri che siano a tutti gli effetti alternativi. In abbinamento, una propensione al coraggio, accompagnata da una consapevolezza senza la quale sarebbe tutto inutile a prescindere e solamente controproducente, è una mercanzia praticamente introvabile su piazza.

Per quanto vada preso con le pinze, The innocents riesce nell’impresa di entrare in questa esclusiva categoria. Non concede contentini di sorta (se non parziali e destinati a essere disintegrati alla prima occasione), non ha la benché minima indecisione (sfidando il buon senso) e non scende a compromessi con la sensibilità comune, con tutto ciò che questo significa/implica…

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Carbura lentamente e senza troppi eccessi impetuosi il thriller di Vogt, che sembra abbracciare il pruriginoso esistenzialismo infantile sconfinando, non di rado, in territori horror dalle evidenti venature metapsichiche. Restano gli sguardi, i silenzi, i gesti abnormi di giovani esseri “indifesi”, uniti da piccoli squarci di realtà ma divisi da grandi contese ataviche. Bello.

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Il film - quasi una storia di genesi di piccoli incontrollabili supereroi divisi tra un bene ancora sconosciuto o scarsamente decifrabile ed un male con cui si sperimentano le proprie caratteristiche più recondite, dinanzi ad un mondo sempre superficiale e materiale fatto di adulti troppo distratti ed afflitti ognuno dalla propria caotica vita - è strutturato come un thriller incalzante e sufficientemente realistico per risultare coinvolgente ed in grado di inquietare, sentimento che già traspare dal sinistro ma accattivante manifesto scelto per pubblicizzarlo.

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sabato 23 agosto 2025

Il caso Matteotti - Florestano Vancini

nel 1924 Giacomo Matteotti, a causa delle sue posizioni e discorsi antifascisti, fu rapito e assassinato su ordine di Mussolini.

il film racconta e ricostruisce senza ambiguità i fatti e le troppe cautele dei politici antifascisti.

gli attori sono bravissimi, come il regista, meno conosciuto dei suoi colleghi, ma non meno bravo dei registi famosi.

in tempi di governi nostalgici degli assassini fascisti, ed emanazione della P2, andrebbe programmato una volta alla settimana in tv, ma sarà impossibile.

un film da non perdere, senza dubbio.

buona (antifascista) visione - Ismaele


  

QUI o QUI si può vedere il film completo

 


 

…Il focus del film è tutto sulle dinamiche di potere che si dispiegano a seguito di questi fatti, e sulla contrapposizione tra i sofismi dei politici e la violenza agita sui corpi delle vittime: il manganello, per parafrasare De Andrè, non ha una natura gentile, e quando cala sulle ossa e sui crani delle vittime non fa distinzioni sottili ma crea traumi destinati a durare a lungo, nel corpo e nello spirito. Se buona parte del popolo, operai e contadini in testa, è pronto a scendere in piazza per rivendicare la fine delle violenze ed elezioni libere, i suoi rappresentanti del popolo, imbalsamati nei loro panciotti e infiocchettati dai papillon, discettano di Aventino, ritengono che non sia ancora il momento per reagire, si spingono addirittura a spartirsi le poltrone per il dopo Mussolini, confidando che il rapimento e il delitto avrebbero destabilizzato il Paese fino a far cadere il Governo.

Una distanza incolmabile tra politica e vita reale, evidenziata nelle riunioni dei leader dell’opposizione; ma anche nei confronti tra industriali e agrari, nelle faide interne al partito fascista, nelle minacce delle squadracce allo stesso capo del Governo. Spicca la dissonanza espressiva e semantica tra gli squadristi, dal linguaggio volgare e primitivo, e i politici, dall’eloquio elegante e cardinalizio: ma ad avere la meglio, e a condurre il Paese al Ventennio, è il combinato tra ignavia delle opposizioni e violenza di chi detiene il potere…

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Bisogna assolutamente guardare questo film, è un appello questo. Florestano Vancini offre un quadro lucido, esposto con chiarezza, teso e avvincente, di un periodo (anche abbastanza recente) della storia italiana AGGHIACCIANTE. C’è da far tremare i polsi, chiedersi come sia stato possibile consentire al nostro paese di vivere una tale esperienza. “Il delitto Matteotti” potrebbe definirsi quasi un thriller politico, l’esempio di un cinema impegnato, tipico degli anni ’70, oggi solo sporadicamente ripetibile.

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…Film di ricostruzione storica in puro stile anni ’60 e ’70 del secolo scorso con un sapore da inchiesta giornalistica tipo Chi l’ha visto.

Non è un capolavoro ed in alcuni punti perde leggermente mordente anche se comunque rimane un ottimo calcio in faccia alle spinte fascistoidi che a moti ondosi bagnano i nostri lettini democratici dove è il popolo a comandare, in bocca e sulle gengive alla classe borghese.

In bocca.

Sulle gengive.

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Un capolavoro assoluto. Il più bel film contro il fascismo (il che equivale a dire “sul fascismo”) della quindicina che ho visto sinora (e sono tutti bei film, alcuni gran bei film). Una perla scintillante.

Raramente un film riesce a coniugare tutto: verità storica; interesse su questioni storicamente fondamentali (come purtroppo il fascismo in Italia); perfezione tecnica nella ricostruzione storica di sceneggiatura, scenografia e costumi; recitazione di alto livello da parte di tutti (protagonisti e non), di un cast che nella media è strepitoso; musica; soprattutto, regia…

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dopo dei bellissimi titoli di testa che ci fanno un quadro della situazione contemporanea del film, veniamo catapultati in un modo dove la retorica e l'oratoria la fanno da padrone.

Si perchè il film è un lunghissimo dialogo, un esempio di film politico discorsivo dove soprattutto i personaggi di Nero, Matteotti, e Adorf, Mussolini, hanno i momenti più interessanti e affascinanti (tra l'altro bravissimi entrambi con menzione speciale per un Adorf che non ti aspetti).

e tutti questi dialoghi scritti splendidamente sono la vera forza del film, catturano appassionano e fanno capire più di quanto scritto. lodevole anche la costruzione dei personaggi.

un film che deve la sua forza ad una grandiosa scrittura, anche se per i gusti attuali può risultare lento e compassato, ma in realtà è imprescindibile del genere.

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Mare nero – Roberta Torre

bravi tutti, ma il film non convince troppo, non riesce a coinvolgere chi guarda, resta un film freddo, ottima la fotografia, come la musica, ma...

buona (fredda ) visione - Ismaele

 

 

QUI o QUI si può vedere il film completo su Raiplay

 

  

Contro il cinema italiano della buonanotte Roberta Torre regala un’ossessione sincera sottoforma di incubo dai colori del buio, con la cupa sospensione di Twin Peaks e la stringente lucidità di Luci nella notte (un altro percorso, concreto e/o immaginario, alla cui meta è arduo ritrovarsi), e la critica ha sparato su questo film: sarà perché ignora il cappio dell’intreccio, non ha inizio né fine, consegna durrenmattianamente l’omicida a metà e si concede totalmente al dato onirico, in un finale d’antologia a tanti livelli, che rigira tra l’altro la sciabola nell’eterno, doloroso conflitto uomo/donna con paurosa efficacia. Interpreti maiuscoli, da Lo Cascio stravolto alla sfuggente Mouglalis, fotografia da camera oscura di Daniele Ciprì e infallibile base ipnotica di Shigeru Umebayashi. Una perla nera, più sfrontata e splendente dei sorrisi contraffatti che siamo condannati ad ingoiare.

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La Torre non è una regista "facile" e lo dimostra con questo film; criticabilissimo quanto volete (i punti deboli sono molti: da Lo Cascio alle ambientazioni, dalla sceneggiatura abbastanza sfilacciata alla regia un po' pretenziosa) eppure affascinante: la fotografia specialmente, con quel blu quasi irreale, è magica e le inquadrature, i giochi di sguardi ed alcune scene sono davvero registicamente memorabili (il parcheggio, il locale di scambisti). Resta il disappunto per un prodotto potenzialmente bellissimo ma reso involuto e male sviluppato.

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dove Mare nero compromette quasi del tutto la propria credibilità è sul versante drammaturgico: il trattamento ellittico e misurato della materia narrativa è clamorosamente contraddetto da dialoghi fastidiosamente forzati (la maggior parte delle conversazioni tra Luca e Veronica sono da antologia dell’improbabile) e da una recitazione spaventosamente artificiosa. La Mouglalis e Lo Cascio non soltanto non sembrano in parte, ma risultano tremendamente impostati perfino quando si lavano i denti o si rotolano sul letto accapigliandosi. Il problema purtroppo non si limita a loro: chiunque entri in una qualsiasi delle inquadrature assume automaticamente posture rigide e affettate, adeguando la recitazione all’innaturalezza dell’atteggiamento corporeo. Il culmine dell’artificiosità si raggiunge nelle sequenze ambientate nella centrale di polizia, dove gli attori ripresi frontalmente ostentano una teatralità che, anche se fosse voluta, risulta francamente irricevibile, finendo per disintegrare la credibilità residua della pellicola. È un autentico peccato, ché, a tratti, Roberta Torre mostra di saper dipingere squarci di inquietante enigmaticità a colpi di cinepresa. Restano frammenti di cinema prezioso e la sensazione di un film ferocemente irrisolto.

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Mare nero si apre sul Satiro danzate, un’antica statua sinuosa ritrovata tempo fa nel mare della Sicilia. Roberta Torre la vide poco dopo che era stata ripescata, immersa in una vasca di acido che la ripuliva, e ne rimase affascinata: «È stata un’attrazione forte, irresistibile… Ti perdi quando la guardi… Mi piaceva iniziare il film da un ritrovamento che arriva dal fondo del mare… È il ”dionisiaco“ in cui si immerge il protagonista, l’inizio del suo viaggio». Incipit suggestivo, non c’è che dire. Senonché, subito dopo, veniamo sbalzati in un’asettica realtà metropolitana, dove il protagonista, un ispettore di polizia, si immerge in un ”dionisiaco“ molto particolare, oscuro, ritroso, sadomasochistico, nel quale mescola le immagini della ragazza uccisa sulla quale sta indagando con quelle della fidanzata francese con la quale ha appena cominciato a convivere. Ambizioso e irrisolto, Mare nero non colpisce il bersaglio, non affonda nelle patologie del protagonista e del mondo che lo circonda, non riesce a renderci partecipi dei suoi dilemmi. Le sceneggiatrici (la Torre e Heidrun Schleef) osservano la psicologia maschile dall’alto e semplificano quella femminile, servite male anche dai due protagonisti, improbabili. Troppo cristallo, troppo minimalismo, troppa patinatura alla Helmut Newton (ma di seconda scelta, basti pensare alla scena, piuttosto ridicola, del partouze con la coppia borghese). Pochissima autentica ossessione.

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Film controverso e poco riuscito. Nel tentativo di firmare un noir con pretese autoriali il regista costruisce una trama dai toni cupi, artificiosamente malati, ma poco coinvolgenti. Il viaggio che il protagonista intraprende, alla scoperta della depravazione sommersa, sembra voler citare altri illustri (ma riusciti) predecessori di celluloide. Quì però tutto scade nalla banalità, nel ridicolo, nella noia. Sprecato e imbarazzato Lo Cascio.

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