Lo sceneggiatore di Io, Daniel Blake è
stato arrestato perché indossava una maglietta con la scritta Genocidio in
Palestina, è ora di agire
La polizia ha arrestato lo sceneggiatore
di Io, Daniel Blake, Paul Laverty perché indossava una maglietta con la
scritta Genocidio in Palestina, è ora di agire.
L’arresto è avvenuto nella capitale della Scozia Edimburgo durante una
protesta contro l’appoggio del governo del Regno Unito ad Israele nel corso
del genocidio a Gaza.
Lunedì scorso un annuncio su X a nome del regista di Io, Daniel Blake Ken
Loach e della sua società di produzione Sixteen Films, ha confermato l’arresto
di Laverty. Paul Laverty si trova attualmente trattenuto in custodia nella stazione di
polizia di St. Leonard di Edimburgo, presumibilmente a causa del sostegno a
Palestine Action, scrive la nota sulla piattaforma social.
Un portavoce della polizia scozzese ha dichiarato: ”In seguito ad una protesta
di fronte alla stazione di polizia di St Leonard lunedì 25 agosto 2025 un uomo
di 68 anni è stato arrestato in base al Terrorism Act 2000 per aver espresso
sostegno ad un’ organizzazione messa al bando. Le indagini proseguono”.
A luglio il Regno Unito ha messo al bando
l’organizzazione Palestine Action, un gruppo di protesta che avrebbe
presuntamente preso di mira fabbriche di armi e attrezzature militari in una
serie di episodi di azione diretta.
Esprimere o sollecitare il sostegno a Palestine Action nel Regno Unito è un
crimine punibile con la detenzione fino a 14 anni, in base al Terrorism Act
2000.
L’11 agosto sono state arrestate più di 500 persone, in maggioranza sopra i 50
anni, per presunto sostegno all’organizzazione mentre partecipavano ad una
protesta che chiedeva al governo di togliere il bando. Decine di altre sono
state arrestate in altre proteste nel Paese.
Volker Turk, alto commissario ONU per i diritti umani, a luglio ha detto che la
decisione del Regno Unito di mettere al bando l’associazione di attivisti in
quanto organizzazione terrorista era sproporzionata e non necessaria ed ha
chiesto che la definizione venisse revocata.
Ha affermato: “La legislazione antiterrorismo interna al Regno Unito definisce
gli atti terroristici così ampiamente da includere ”gravi danni alla
proprietà”.
“Ma, in base agli standard internazionali, gli atti di terrorismo dovrebbero
essere circoscritti ad atti criminali finalizzati a provocare morte o gravi
ferite o la presa di ostaggi, con lo scopo di intimidire una popolazione o
costringere un governo ad intraprendere o meno una certa azione”. ”È un travisamento della gravità e dell’impatto del terrorismo ampliarne la
definizione al di là di quei precisi limiti, per includere ulteriori condotte
che costituiscono già un reato in base alla legge”.
un prete, malvisto dalle autorità ecclesiatiche e alla fine arrestato dai militari, in Messico, vive di niente, di elemosina, ma quella che dà e più di quella che riceve, come Gesù si accompagna a prostituìte, che scandalo!
un film che non ti stanchi di vedere, denso di significati, Buñuel è davvero unico, un film da non perdere assolutamente.
buona (cristiana) visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo, in italiano o in spagnolo
Buñuel e la lezione di carità di “Nazarín”
- Goffredo Fofi
Mentre in Italia una cultura in
fatto di storia del cinema è impossibile farsela, per le nuove generazioni
(anche per il disastro di un sistema scolastico che andrebbe “revisionato” da
capo a fondo), con la sola eccezione della splendida attività della Cineteca di
Bologna, capita altrimenti altrove, per esempio a Parigi, dove sono attive due
cineteche con programmazioni quotidiane, e sono tuttora tante le cosiddette
sale d’essai. Capita dunque di rivedere, in nuove edizioni e su grande schermo,
i grandi titoli del passato, e tra questi ho avuto la fortuna di poter rivedere
Nazarín di Luis Buñuel, uno dei film che in passato mi hanno più sconvolto e
dato da pensare. È un film messicano del 1958, tratto da un romanzo di Benito
Pérez Galdós del 1895 (ne conosco un’edizione italiana di Avagliano,
recuperabile tramite internet), l’autore da cui il regista trasse anni dopo,
stavolta tra Francia e Spagna, un altro capolavoro, Tristana.
Perché Nazarín è uno dei film che
più mi mise in crisi e mi dette da pensare, quando lo vidi la prima volta tanti
anni fa, proprio a Parigi, dove avevo seguito per diversi anni i miei che vi
erano immigrati per sopravvivere? Perché raccontava anche certe mie fantasie
giovanili e le metteva in crisi. Nazarín è un giovane prete che, nella
periferia di Città del Messico al tempo della dittatura porfiriana, come altri
prima di lui vuole imitare il Cristo e si fa mendicante e pellegrino per le
strade del Messico, raccogliendo involontariamente intorno a sé un piccolo
gruppo di disastrosi fedeli, un nano, due prostitute eccetera. Nonostante la
sua riluttanza in alcuni villaggi trova chi lo venera come una specie di santo,
di guaritore. La sua sconfitta maggiore è quando vuole assistere una giovane
moribonda, che invece della consolazione divina invoca il suo uomo e vuole
ancora, fino alla fine, abbracciarlo (è un episodio che cita Sade), ma in
generale il suo ostinato far del bene non porta serenità ma gelosie e
opportunismi nel piccolo gruppo dei seguaci, ed è visto con ostilità dalle
autorità dei villaggi finché non viene arrestato, perché in suo nome accadono
liti e disgrazie. Ed è allora che, lungo la strada in cui è portato a piedi e
ammanettato da una prigione a un’altra, quando una contadina che porta una
cesta al mercato gli fa la carità di un frutto, che Nazarín capisce il senso
vero della carità, nella solidarietà degli umili. Buñuel detestava l’uso della
musica nei film, considerandolo una sorta di ricatto sui sentimenti degli
spettatori, ma a questa scena unì il suono improvviso ed esplosivo dei tamburi
della settimana santa del suo paese natale, Calanda,
e noi capiamo dal volto di Nazarín che egli infine ha rinunciato all’orgoglio
di una presunta santità per l’accettazione della lezione più vera della carità
tra umili. Molti hanno ragionato su questo finale, uno dei più intensi, e sì,
educativi, dell’intera storia del cinema. La sceneggiatura del film
si può leggerla in Sette film di Luis Buñuel, che curai per Einaudi tanti anni
fa con l’aiuto dello stesso regista.
…Nazarin è un film impegnativo come tutte le opere di Buñuel,
che non lascia inerte lo spettatore, perché lo spinge in ogni momento a
domandarsi quale sia il significato di ciò che vede sullo schermo, anche se
spesso (per sadica volontà surrealista del regista) un significato preciso non
c'è. Nazarin è comunque un film importante che può in un primo momento
spiazzare lo spettatore (è tratto da un romanzo realista; sembra prefigurare
un'adesione di Buñuel al cristianesimo), ma con un po' d'occhio si può
riconoscere il Buñuel migliore, quello del "grazie a Dio sono ateo",
che con il film successivo, Viridiana (1961) chiarirà meglio ciò che pensa
della religione rivelata (ma si tengano d'occhio i preti che Nazarin incontra
durante il film). Nazarin è un film notevole anche dal punto di vista
figurativo, fotografato superbamente dal maestro Gabriel Figueroa, che tiene a
mente le opere pittoriche di Velasquez, Murillo e Goya…
…Il protagonista interpretato Francisco Rabal è l'incarnazione di una
religiosità autentica, direttamente ispirata al messaggio evangelico, disposta
al sacrificio di sé e all'aiuto incondizionato al prossimo come valori-guida. Questa
concezione è avversata e addirittura perseguitata dal potere ecclesiastico
(viene rimproverato da un agiato prete “borghese” per il suo stile di vita
frugale e pertanto indegno di un sacerdote; un alto prelato che si accompagna
ad un arrogante militare definisce addirittura Nazarín “eretico” per aver
affermato che un poveraccio ha la stessa dignità umana di un re). E' una figura
che ricorda San Francesco o lo stesso Cristo per la noncuranza delle
convenzioni sociali e delle apparenze (come accompagnarsi con due donne) che lo
espone agli attacchi di un moralismo che guarda solo alla facciata di
un'ipocrita presentabilità invece che alla sostanza delle condotte personali.
Nazarín è però distante anche dalla religiosità superstiziosa del
popolo e cerca di allontanare le donne dalle ingenue credenze sul malocchio ed
i miracoli per affidarsi più concretamente alla scienza medica. Questi
“ultimi”, come le prostitute, assassini, nani, seppur peccatori sono comunque
visti come depositari di un candore che li può avvicinare a Dio, come emerge
dalle domande, ingenue confusionarie, ma profonde e pungenti, che la fuggiasca
Andara pone a Nazarín (“Perché uno nasce? E come fanno
i pulcini a diventare proprio uguali alla gallina? E perché tre corvi portano
sfortuna e due fortuna? E mi dica, perché i topi così piccoli sono tanto vivaci
e le mucche così grandi sono tanto stupide? E un'altra cosa … perché facendo
l'elemosina ai preti le anime escono dal Purgatorio?”)…
Film connotato da una lucidità espositiva impressionante,
dove l’armonia complessiva di ambientazione, personaggi e storia raggiunge
livelli altissimi. È poi così anticristiano il messaggio di fondo
di questo film? Certamente resta un film profondamente religioso, che impone
allo spettatore interrogativi complessi e destinati a risposte mai definitive.
una sempre bravissima Florinda Bolkan ha una vicina hippie che le piace molto.
con l'aiuto di uno psicoanalista (ridicolo) riesce a non essere imprigionata per un omicidio, ma l'ispettore (Stanley Baker, che ha una certa somiglianza con Sean Connery)non ci crede molto.
un film da non perdere, come capita spesso a Lucio Fulci, non privatevene, non vi deluderà.
buona (swinging) visione - Ismaele
QUI o QUI si può vedere il film completo in italiano
Questo è uno dei film più celebrati di Fulci (a ragione
secondo il mio modesto parere) in cui oltre alla furbizia da parte dei
produttori per inserirsi nel genere inaugurato dal giovane Argento con i suoi
primi film dal titolo zoologico baciati da grande successo commerciale c'è da
riconoscere l'indubbio talento visionario di Fulci,vero e proprio valore
aggiunto di questa pellicola.In più abbiamo le musiche di Morricone che ben si
abbinano alle molte sequenze psichedeliche del film e una swinging London
coloratissima,irrazionale,irrefrenabile nella sua vitalità.Il film è un
continuo disseminare piste false,un susseguirsi di atrocità assortite
chiaramente mostrate e di orrori più subliminali che si insinuano
sottopelle.Fulci è bravo soprattutto dal punto di vista visivo scatenandosi in
una regia al limite del barocchismo formale.Il titolo zoologico è una di quelle
furbate che si devono ai produttori(la leggenda narra che Fulci aveva
l'intenzione di intitolarlo La gabbia),il finale affatto consolatorio non colpisce per
logica ma è lo stesso una discreta sorpresa.Dal giallo nella parte centrale il
film vira all'horror(la parte nel manicomio)con tutta una serie di colpi di
scena abbastanza artificiosi.Ma contano poco:il film vale soprattutto per la
sua tavolozza cromatica impazzita,per il mescolarsi di simbologie
psicanalitiche e deliri lisergici inseriti in un atmosfera da incubo,vale per
alcune sequenze girate veramente con grande maestria.La verità è servita a
frammenti,viene quasi rubata,origliando.E in questo la soluzione del
giallo,poco verosimile finchè si vuole,viene data allo spettatore in maniera
decisamente originale.Non consolandolo affatto ma facendogli sorgere nuovi
interrogativi....
Se è vero che esistono film che meritano di essere studiati e
ricordati anche solo per l’idea, la scintilla creativa che fece mettere in moto
il sistema produttivo, con quale decenza si può pensare di negare un posto
nella storia del cinema italiano ed europeo a Una lucertola con la pelle di donna? Basterebbe la poesia maldororiana del titolo, forse. Ma se così non fosse bisognerebbe
inchinarsi di fronte ai primi cinque minuti, che rappresentano la liberazione
definitiva di Lucio Fulci, e di tutto il cinema giallo e thriller, dalle
pastoie della logica, del buon senso, della prassi. Ma sull’incipit e sulla sua
folgorante forza si tornerà tra poco. Il punto ovviamente è che all’epoca
dell’uscita in sala il film venne visto con un malcelato disprezzo, e il dito
accusatorio puntava in direzione di una sceneggiatura rabberciata, poco sensata,
un po’ buttata via. Anche il critico quotidianista più famoso d’Italia, Paolo
Mereghetti, mostra una prosa a dir poco sprezzante nelle brevi righe che dedica
al film suo suo “Dizionario”: «Fulci (sceneggiatore con Roberto Gianviti)
avrebbe fatto meglio a seguire fino in fondo la pista onirico-psichedelica, e
invece arranca cercando una logica in un intreccio che non ne ha. Lampi di
talento visivo, baracconate ed echi della Swinging London: se non altro ci sono
le ottime musiche di Ennio Morricone (in vena sperimentale) e la fotografia di
Luigi Kuveiller. Gli effetti speciali (inutili e brutti) sono di Carlo
Rambaldi». L’insistenza su sostantivi come “baracconata” e aggettivi quali
“inutile” o “brutto” denota la voglia di tenersi a debita distanza da questo
film, e forse dall’intera esperienza autoriale di Fulci. Un regista troppo
estremo, nella sua messa in scena dell’orrore, per assecondare le voglie di logica di una nazione normata nel benestare
borghese…
…Generalmente
messo in secondo piano rispetto ai successivi gialli fulciani (in particolare
ai celebratissimi Non si sevizia un paperino e Sette note in nero) Una
lucertola con la pelle di donna in realtà, per moltissimi versi
non ha niente da invidiare a questi ultimi; almeno sul piano squisitamente
visivo, e in un’atmosfera che dall’iperrealismo iniziale scivola lentamente
verso un lucido delirio, il film di Fulci fa una cavalcata sulle ali dell’inconscio
e delle più basiche pulsioni umane, non avendo paura a “sporcare” il genere – e
il discorso psicanalitico che abbozza – con generose dosi di effetti gore.
Effetti, questi ultimi, che tuttavia non risultano mai gratuiti, ma
contribuiscono al contrario a quell’onirismo privo di compromessi, a quella
voglia di destabilizzare le certezze di chi guarda – ivi compreso chi pensi di
mettersi davanti a un giallo con dentro un po’ di erotismo – di cui il regista
farà un po’ il suo marchio di fabbrica. Non a caso, molti anni più tardi, lui
stesso si definirà un “terrorista dei generi”; quello stesso “terrorismo”,
quella voglia di rovesciare il genere, contaminandolo e rivoltandolo da dentro,
è già evidentissimo in questo suo secondo thriller.
Oltre il giallo
Sarebbe sbagliato valutare Una lucertola con la pelle di donna (che
originariamente doveva intitolarsi La gabbia, e fu in seguito rinominato per
adeguarsi alla “moda” dei titoli con gli animali) con le lenti della pura
coerenza narrativa, o soffermandosi semplicemente sui dettagli del suo
intreccio giallo. Se preso squisitamente come thriller, il film di Lucio Fulci
mostra più di una forzatura narrativa e diversi buchi logici, segno di una
sceneggiatura su cui – com’era d’uopo all’epoca – misero le mani in molti. Lo
script costruisce un meccanismo giallo più cervellotico di quello dei
contemporanei film di Argento, ma a tratti sembra faticare a venirne fuori; ma
quello che conta, qui – e questa risulta una novità nel panorama del thriller
all’italiana – è la costruzione della singola sequenza più che il legame logico
tra le stesse. Anzi, quanto più il regista sembra osare nell’impatto visivo
(con un’abbondanza di zoom, panoramiche a schiaffo, dettagli di occhi e
particolari truculenti) tanto più la trama pare distaccarsi dalle regole del
genere, quasi irridendone le basi…
la polizia vuole smantellare una rete di trafficanti di droga e, grazie a un trafficante che diventa pentito/collaboratore, riesce a trovare tanti tasselli del traffico di droga.
i poliziotti sono coraggiosi e rischiano la vita ogni momento, ma quel pentito/collaboratore fa il doppio e triplo gioco, e tiene in scacco la polizia, vuole solo salvarsi, a qualsiasi costo.
alla fine non si salva quasi nessuno, e la pena di morte chiude i conti, almeno temporaneamente.
…To è il Michael Mann d'oriente ed impone un ritmo solenne al
film. Satura la tensione decellerando i tempi del racconto , descrivendo
le mosse della polizia e dei trafficanti quasi con piglio documentaristico;
doppie facce ed inganni sono all'ordine del giorno, campanelli d'allarme e
anticamere di agguati , inseguimenti e sparatorie che verranno , tutti elementi
inscenati questa volta (contrariamente al solito) con il contagocce; una
guerra senza quartiere, un incubo lungo novanta minuti, “guardie e ladri” come
si faceva una volta, disposti a tutto pur di averla vinta, non importa che si
tratti di sordomuti o capitani della polizia; si fa sempre in tempo a morire.
E
poi quel finale in strada tutti contro tutti, ineluttabile e brutale, senza
pietà, coreografato magistralmente come il marchio “To” impone. Un’altra ottima
prova che soddisferà gli appassionati del genere ed i fans del regista. Ma
attenzione al ritmo: non è elevatissimo e chi si aspetta troppa azione potrebbe
rimanere deluso. Per me un film fantastico…
…Non è tanto la mannaia della censura cinese ad
aver alterato Johnnie To, quanto
quest’ultimo ad essersi adattato alle sue rigide maglie: ideali per celebrare
il funerale di una cinema che non esiste più, lo stesso che nella nuova/vecchia
Cina cresce verso l’età consapevole, conserva intatta la sua stilistica
muscolarità ma rinuncia all’eroismo di fondo e inizia a contare i cadaveri che
si lascia dietro.
Non ci sono eroi in Drug War, solo pedine e galoppini
appartenenti a due sistemi contrapposti: come tali non meritano celebrazione o
approfondimento caratteriale alcuno.
Gli eroi del primo To non morivano
mai e se lo facevano venivano consegnati all’immortalità come l’Alain Delon al quale si
ispiravano. Louis Koo non è un eroe ma un
codardo qualunque, un irresponsabile, un traditore: non merita eternità iconica
bensì la conseguenza naturale delle sue gesta prive di onore, inconciliabili
con qualsiasi codice di lealtà malavitosa. Johnnie To è il primo a
saperlo e lo abbandona al suo stomachevole destino, lasciandolo in preda al suo
falso e disperato farneticare. Illudendolo, solo per un attimo, che una
preghiera possa ancora salvargli la vita.
…Drug War è inoltre un film fondamentale per il nuovo corso del
cinema cinese: per la prima volta il pessimismo cosmico del noir e del
poliziesco di Hong Kong non vengono colorati di rosa confetto durante il
passaggio dalla piccola città-stato alla Mainland China. Anzi, To si permette
di disquisire di droga e pena di morte, due argomenti su cui il governo
centrale di Pechino preferirebbe il silenzio mediatico e artistico. Da questo
punto di vista la sequenza finale, con la messa in scena dell’esecuzione legalizzata
tramite iniezione di veleno – dopo che il film aveva passato la precedente ora
e mezza a mettere alla berlina gli omicidi e la droga come elemento di svago
dalla realtà – rappresenta un pugno nello stomaco difficile da sopportare, e
una critica neanche troppo velata alle scelte del governo cinese. Per tutto
questo, e forse per molto altro ancora, non riconoscere la grandezza di Drug War potrebbe essere un errore di cui pentirsi amaramente
negli anni a venire…
…Non a caso
il film inizia mostrandoci il più squallido e straziante prodotto della miseria
figlia del capitalismo: gli essere umani ridotti a contenitori viventi di ovuli
di coca, ingeriti e trasportati nel ventre, poi espulsi quando (e se) si arriva
a destinazione.
Se poi, cazzo, tale espulsione ed il conseguente lavaggio degli ovuli
avvengono davanti ai miei occhi mentre mangio salmone affumicato, l’effetto
disturbante è amplificato a dismisura.
Il disturbo è durato mezzo secondo comunque, ho ripreso subito a mangiare
con gusto.
…Il racconto segue le vicende di una
squadra di polizia che, come magari il titolo potrebbe far intuire, è impegnata
nella lotta al traffico di droga. Tutto viene raccontato attraverso il punto di
vista dei poliziotti e infatti, per una volta, non ci si trova di fronte al
classico melodramma orientale tutto onore ed eleganza criminale. Gli unici
lampi di "simpatia criminosa" arrivano da Jimmy Choi, un trafficante
costretto dalla polizia a fare il doppio gioco per sostenere una complessa rete
di schemi in cui praticamente chiunque, fra poliziotti e criminali, si nasconde
dietro una maschera. Gran parte del film ruota attorno al rapporto di (scarsa)
fiducia che viene a crearsi fra lui e il capitano di polizia Zhang e l'unico
bagliore di umanità espressa dalla "fazione criminale" si manifesta
nella suggestiva scena che vede Choi riunirsi ai suoi collaboratori e
struggersi in lutto…
…primo film d'azione girato da Johnnie To in
Cina, probabilmente costretto per questo a muoversi all'interno di limiti
produttivi ben precisi e mostrare un dipartimento di polizia irreprensibile
contro dei criminali senza ritegno, ma il risultato è comunque un gran
poliziesco, teso, crudo, brutale, pieno di piccole idee fulminanti nella
risoluzione dei conflitti e ricco di personaggi interessanti. Senza contare che
comunque, di fondo, riesce a raccontare tanto degli antagonisti infami, ma
profondamente umani, quanto degli eroi sì incorruttibili, ma certo non infallibili
e che commettono anzi continuamente errori dalle conseguenze gravissime. Il
tutto, poi, è messo in scena in una maniera incredibile: Drug War è un film
pieno di immagini splendide, ambizioso nella costruzione di scene d'azione in
esterni ariose, ricche, splendidamente coreografate e in cui - pazzesco! - si
capisce sempre perfettamente cosa stia accadendo, con un'attenzione fenomenale
per gli spazi, le geometrie, l'evoluzione delle sparatorie, senza per questo
rinunciare a un approccio serio, a modo suo credibile, lontano, come detto, dai
balletti assurdi che ci si potrebbe aspettare in un film orientale di questo
genere.
…Come quasi tutti i suoi film anche Drug War è un film politico, dove però il politico scivola dolorosamente nell’autoptico, film sull’autopsia del politico, autopsia folle,
interminabile, che non recede, se si intende qui per autoptico proprio quella
punta o fondo - grund che giace dentro il politico, parte
maledetta non assimilabile alla narrazione a posteriori, alle giustificazioni
in base a logiche superiori, alle trame del linguaggio. Se il politico è, infatti, il manifestarsi dato
dall’incontro di più esseri e della loro concatenazione e rinsaldarsi reciproco
(come il un filo dell’ordito che si intreccia con un filo della trama: è lo
stato della discriminazione e dell’analisi, è il tempo della coniugazione, del
linguaggio), l’autoptico sarebbe il momento ulteriore dove la trama
viene sfilacciata nel groviglio confuso e infinito dei fili che la
costituiscono, e, iper - ravvicinata come per allucinazione, si scompone fino a
diventare bava biancastra, lacerazione, sedimento scuro dove tutto il politico
precipita per ritornare alla violenza primordiale dell’interno, della lotta
intestina del tutti contro tutti, prima di ogni mediazione, sintesi, stabilità
dei significati…
nel 1968 Mario Bava girò Diabolik, che batte sempre la polizia, e la ridicolizza, sono esiti rivoluzionari, quelli erano i tempi giusti, nel fumetto e nel film.
John Phillip Law (Diabolik), che ha un'aria di famiglia di Jude Law, Marisa Mell (la bellissima Eva Kant), Michel Piccoli (l'ispettore Ginko) sono perfettamente credibili, e bravissimi, come tutti gli attori, d'altronde, merito del regista, no?
il film ancora oggi non è invecchiato per niente, e si vede con piacere ed entusiasmo (più e meglio dei film dei Manetti Brothers, senza offesa).
…l’anarchia visiva dell’opera non è fine a
se stessa. È sintomo di un qualcosa situato più in profondità. Se analizziamo
il plot del film in sé, non c’è poi molto da dire;
l’intera narrazione è un susseguirsi di avvenimenti sopra le righe, col nostro
(anti)eroe che fugge dalle grinfie della polizia. Ma siamo sicuri che sia tutto
qui?
In una delle scene più famose del film,
Diabolik ed Eva stanno consumando un rapporto sotto un’infinita pila di
banconote, appena rubate. L’aria che si respira, oltre alla carica erotica
dell’atto in sé, è un mix tra psichedelica tranquillità e
morbosa ossessione. Quest’atmosfera è praticamente presente in ogni
singolo momento del film. Il crimine è inteso quindi come puro piacere fisico,
quasi irrazionale, in contrasto con la meticolosa preparazione dei colpi.
Ma non è solo il sesso a rappresentare un
filo conduttore. È infatti presente una gran quantità di violenza grafica. Una
violenza che potremmo definire addirittura arrabbiata. La morte ha un suo peso
specifico. E il tutto è ovviamente condito da quell’asfissiante morbosità di
cui si parlava poc’anzi.
Ma perché si è deciso di evidenziare
questi elementi? La risposta è semplice. Siamo nel ‘68. Il
sesso viene finalmente slegato dalla sfera della procreazione e viene in
qualche modo “istituzionalizzato” come atto di piacere. E, sempre in questi
anni, assistiamo allo sdoganamento della violenza, grazie anche al cinema. Per
quanto riguarda la narrazione, dal ritmo feroce e quasi estenuante, potremmo
dire che è in relazione con la frenesia di quegli anni. Anni in cui un
cambiamento, anche in Italia, sembrava possibile, e che invece confluirono in
un decennio, gli anni ‘70, parecchio difficili per il nostro paese…
Il Diabolik
cinematografico di Bava ispirato al fumetto dalle sorelle Giussani è in realta'
abbastanza diverso dal suo omologo cartaceo differenziandosi soprattutto per
non avere nessuno scrupolo ad uccidere e per un rapporto molto piu' carnale con
Eva Kant(siamo sempre negli anni 60 nel fumetto la censura aveva costretto le
Giussani a farli dormire in camere separate).Il film non ha struttura vera e
propria ma è una sequenza di colpi uno piu' ingegnoso dell'altro con un finale
nel rifugio che piu' aperto al seguito non si puo'.Curiosa la similitudine del
rifugio con la bat caverna di burtoniana memoria, mentre la pop art affiora
prepotente nelle bellissime scenografie.
…Non un grande successo di pubblico (andò meglio sul
mercato francese), di seguito trovate curiosità e aneddoti sulla lavorazione
nelle 11 cose da sapere su Diabolik:
1) Nella versione a fumetti, Diabolik – conosciuto anche
come ‘Il Re del terrore’ – è molto più sinistro della sua
controparte cinematografica: è un criminale che combatte il male con
il male, spesso ricorrendo all’omicidio per “punire” i malfattori che incontra.
Il film è stato realizzato assumendo una certa conoscenza del materiale
disegnato alla base da parte degli spettatori, spiegando in tal modo la
reazione negativa che ha inizialmente ricevuto la pellicola al di fuori
dell’Italia, anche se da allora è stato rivalutato come un classico della psichedelia
cinematografica e della pop art degli anni ’60.
2) Il budget stanziato da Dino De Laurentiis – 3
milioni di dollari – era molto alto degli standard ai quali Mario
Bava fosse abituato e gli avrebbe permesso di lavorare con più soldi e un cast
molto più prestigioso di quelli cui era normalmente abituato. Tuttavia, il
regista nato a Sanremo rimase fedele ai suoi principi, puntando
sull’immaginazione piuttosto che sul denaro, e portò a termine il film con una
spesa sostanzialmente inferiore alle previsioni, soli 400.000
dollari (altri tempi vero?)…
…Bava dirige
volontariamente un’opera stupida, da
intendere nel senso più etimologico del termine: un disvalore, senza dubbio, ma
che ha comunque a che fare con il verbo latino stupēre,
«stupire». E stupisce ancora oggi la totale libertà espressiva raggiunta da
Bava sul finire degli anni Sessanta, la sua capacità di farsi beffe – un po’
come il criminale protagonista – delle regole del prodotto industriale, a
partire dalla logica, dal rispetto ossequioso della trama, dalla capacità di
trasmettere in ogni caso un messaggio morale, o comunque non privo di moralità…
Eskil Vogt è stato sempre lo sceneggiatore di Joachim Trier, per esempio in Thelma, film che ha qualche importante somiglianza con The innocents.
nella pacifica Norvegia non tutto è come sembra, un gruppo di bambini, due sorelle bionde di sangue norvegese (Anna e Ida) e un bambino (Ben) e una bambina (Aisha), figli, probabilmente, di rifugiati (da Somalia e Siria?), si trovano a giocare insieme nel parco sotto casa.
e però i bambini hanno dei superpoteri (cattivi?) che usano alla grande, àlaguerrecommeàlaguerre.
all'inizio vediamo che Anna, una bambina autistica, interagisce con Aisha, si leggono nel pensiero, e Anna comincia anche a parlare.
e poi comincia una guerra senza pietà, nessuno capisce cosa succede, solo i bambini (e noi che vediamo il film) capiscono.
è una lotta senza quartiere, questione di vita o di morte.
un film che inquieta, e che ti ricorderai per molto tempo.
gli innocenti del titolo non sono così innocenti, vedrai.
…The
Innocents è spietato, non c’è modo migliore per definirlo.
Spietato con noi spettatori e con i suoi piccoli -bravissimi-protagonisti che
da villain diventano vittime e carnefici perdendo il controllo. Poche scene, in
realtà, sono esplicitamente cattive, eppure così intense da spargere a macchia
d’olio un’inquietudine che mal si sopporta. Una certa pazienza bisogna averla
nell’approcciarsi al film di Vogt, perché è un film in crescendo che segue
minuziosamente i piccoli diavoli e ne costruisce un background affascinante e
triste allo stesso tempo, così da fondare il loro comportamento su una
scrittura solida e non lasciata al puro divertimento di combinare guai in giro
per la città. Condividono, oltre a capacità fuori dal normale, una situazione
familiare decisamente non delle migliori. Le figure genitoriali non sono un
reale punto di riferimento e, nello specifico caso di Ida e Anna, quando si ricordano
d’essere un padre e una madre dedicano molto più tempo alla seconda perché
malata e bisognosa di più attenzioni. Questa mancanza è un collante che li
unisce e che li spinge a passare insieme le giornate ad “allenare” con un certo
sadismo i poteri extrasensoriali che possiedono.
Il film è
sostanzialmente questo, un viaggio nell’ignoto che i bambini compiono alla
scoperta di sé stessi. Musica, ambientazione e la capacità del direttore della
fotografia di catturare il meglio della luce tiepida norvegese concorrono alla
creazione di un’atmosfera misteriosa, paurosa a piccole dosi, ma da cui è
impossibile distogliere lo sguardo. The Innocents omaggia
nel titolo anche il film omonimo di Jack Clayton del
1961, un capolavoro di suspense e paura da cui Vogt ha sicuramente imparato
molto. È presumibile anche che sia fan del cinema di genere, perché un’opera
così sofisticata non si tira su senza una conoscenza pregressa di specifiche
regole. Ci fossero più film horror della stessa fattura al giorno d’oggi, il
genere respirerebbe più spesso aria così fresca e salutare.
…Dal punto di vista tecnico il film è
girato benissimo. La telecamera è posta costantemente ad altezza bambino, per
immergerci proprio in quel contesto di vita dato che, come detto, i grandi sono
figure di contorno (che non saranno comunque risparmiati, alcuni vittime
inconsapevoli dei poteri dei loro figli). La fotografia è gelida, (del resto ci
troviamo in Scandinavia) perfetta per comunicare la freddezza e l’impassibilità
dei piccoli protagonisti di fronte alla violenza. La musica è perfetta, fatta
di linee leggere al synth con virate verso partiture dai toni bassi che
accompagnano le scene più inquietanti. Ma è su quello che dicevo all’inizio che
il regista, Eskil Vogt (autore anche dell’ottima
sceneggiatura), dimostra la sua bravura, ovvero la costruzione delle suspence
attraverso dei tempi di montaggio perfetti e grazie a delle inquadrature
ansiogene. The Innocents è un film che inquieta e spaventa,
perché quando si tratta di unire la figura dei bambini a concetti quali
cattiveria, violenza e, in generale, al male, veniamo scossi nel profondo,
giudicando la cosa così innaturale. In realtà non è un pensiero così blasfemo e
questo film lo dimostra in modo intelligente, del resto il lato oscuro è in
ognuno di noi, e ci accompagna dalla nascita fino alla morte.
Al cospetto di direttive che guardano di buon occhio
all’omologazione, imponendo direttamente/indirettamente dei paletti che da
consigliabili stanno diventando invalicabili, con il senso del pudore che viene
osservato con deferenza/timore (talvolta senza crederci), è sempre più raro
imbattersi in modelli/dettami/idiomi in grado di percorrere sentieri che siano
a tutti gli effetti alternativi. In abbinamento, una propensione al coraggio,
accompagnata da una consapevolezza senza la quale sarebbe tutto inutile a
prescindere e solamente controproducente, è una mercanzia praticamente
introvabile su piazza.
Per quanto vada preso con le pinze, The innocents riesce
nell’impresa di entrare in questa esclusiva categoria. Non concede contentini
di sorta (se non parziali e destinati a essere disintegrati alla prima
occasione), non ha la benché minima indecisione (sfidando il buon senso) e non
scende a compromessi con la sensibilità comune, con tutto ciò che questo
significa/implica…
Carbura lentamente e senza troppi
eccessi impetuosi il thriller di Vogt, che sembra abbracciare il pruriginoso
esistenzialismo infantile sconfinando, non di rado, in territori horror dalle
evidenti venature metapsichiche. Restano gli sguardi, i silenzi, i gesti
abnormi di giovani esseri “indifesi”, uniti da piccoli squarci di realtà ma
divisi da grandi contese ataviche. Bello.
…Il film - quasi una storia di genesi di piccoli
incontrollabili supereroi divisi tra un bene ancora sconosciuto o scarsamente
decifrabile ed un male con cui si sperimentano le proprie caratteristiche più
recondite, dinanzi ad un mondo sempre superficiale e materiale fatto di adulti
troppo distratti ed afflitti ognuno dalla propria caotica vita - è strutturato
come un thriller incalzante e sufficientemente realistico per risultare
coinvolgente ed in grado di inquietare, sentimento che già traspare dal
sinistro ma accattivante manifesto scelto per pubblicizzarlo.
nel 1924 Giacomo Matteotti, a causa delle sue posizioni e discorsi antifascisti, fu rapito e assassinato su ordine di Mussolini.
il film racconta e ricostruisce senza ambiguità i fatti e le troppe cautele dei politici antifascisti.
gli attori sono bravissimi, come il regista, meno conosciuto dei suoi colleghi, ma non meno bravo dei registi famosi.
in tempi di governi nostalgici degli assassini fascisti, ed emanazione della P2, andrebbe programmato una volta alla settimana in tv, ma sarà impossibile.
…Il focus del film è tutto sulle dinamiche di potere
che si dispiegano a seguito di questi fatti, e sulla contrapposizione tra i
sofismi dei politici e la violenza agita sui corpi delle vittime: il
manganello, per parafrasare De Andrè, non ha una natura gentile, e quando cala
sulle ossa e sui crani delle vittime non fa distinzioni sottili ma crea traumi
destinati a durare a lungo, nel corpo e nello spirito. Se buona parte del
popolo, operai e contadini in testa, è pronto a scendere in piazza per
rivendicare la fine delle violenze ed elezioni libere, i suoi rappresentanti
del popolo, imbalsamati nei loro panciotti e infiocchettati dai papillon,
discettano di Aventino, ritengono che non sia ancora il momento per reagire, si
spingono addirittura a spartirsi le poltrone per il dopo Mussolini, confidando
che il rapimento e il delitto avrebbero destabilizzato il Paese fino a far
cadere il Governo.
Una distanza incolmabile tra politica e vita reale,
evidenziata nelle riunioni dei leader dell’opposizione; ma anche nei confronti
tra industriali e agrari, nelle faide interne al partito fascista, nelle
minacce delle squadracce allo stesso capo del Governo. Spicca la dissonanza
espressiva e semantica tra gli squadristi, dal linguaggio volgare e primitivo,
e i politici, dall’eloquio elegante e cardinalizio: ma ad avere la meglio, e a
condurre il Paese al Ventennio, è il combinato tra ignavia delle opposizioni e
violenza di chi detiene il potere…
Bisogna assolutamente
guardare questo film, è un appello questo. Florestano Vancini offre un quadro
lucido, esposto con chiarezza, teso e avvincente, di un periodo (anche
abbastanza recente) della storia italiana AGGHIACCIANTE. C’è da far tremare i
polsi, chiedersi come sia stato possibile consentire al nostro paese di vivere
una tale esperienza. “Il delitto Matteotti” potrebbe definirsi quasi un
thriller politico, l’esempio di un cinema impegnato, tipico degli anni ’70,
oggi solo sporadicamente ripetibile.
…Film di
ricostruzione storica in puro stile anni ’60 e ’70 del secolo scorso con un
sapore da inchiesta giornalistica tipo Chi l’ha visto.
Non è un
capolavoro ed in alcuni punti perde leggermente mordente anche se comunque
rimane un ottimo calcio in faccia alle spinte fascistoidi che a moti ondosi
bagnano i nostri lettini democratici dove è il popolo a comandare, in bocca e
sulle gengive alla classe borghese.
Un capolavoro assoluto. Il più bel film contro il
fascismo (il che equivale a dire “sul fascismo”) della quindicina che ho visto
sinora (e sono tutti bei film, alcuni gran bei film). Una perla scintillante.
Raramente un film riesce a coniugare tutto: verità
storica; interesse su questioni storicamente fondamentali (come purtroppo il
fascismo in Italia); perfezione tecnica nella ricostruzione storica di
sceneggiatura, scenografia e costumi; recitazione di alto livello da parte di
tutti (protagonisti e non), di un cast che nella media è strepitoso; musica;
soprattutto, regia…
dopo dei bellissimi titoli di testa che ci fanno un
quadro della situazione contemporanea del film, veniamo catapultati in un modo
dove la retorica e l'oratoria la fanno da padrone.
Si perchè il film è un lunghissimo dialogo, un esempio
di film politico discorsivo dove soprattutto i personaggi di Nero, Matteotti, e
Adorf, Mussolini, hanno i momenti più interessanti e affascinanti (tra
l'altro bravissimi entrambi con menzione speciale per un Adorf che non ti
aspetti).
e tutti questi dialoghi scritti splendidamente sono la
vera forza del film, catturano appassionano e fanno capire più di quanto
scritto. lodevole anche la costruzione dei personaggi.
un film che deve la sua forza ad una grandiosa
scrittura, anche se per i gusti attuali può risultare lento e compassato,
ma in realtà è imprescindibile del genere.
bravi tutti, ma il film non convince troppo, non riesce a coinvolgere chi guarda, resta un film freddo, ottima la fotografia, come la musica, ma...
buona (fredda ) visione - Ismaele
QUI o QUIsi può vedere il film completo su Raiplay
…Contro il cinema italiano della buonanotte Roberta
Torre regala un’ossessione sincera sottoforma di incubo dai colori del buio,
con la cupa sospensione di Twin Peaks e la stringente lucidità di Luci nella notte (un altro percorso, concreto e/o
immaginario, alla cui meta è arduo ritrovarsi), e la critica ha sparato su
questo film: sarà perché ignora il cappio dell’intreccio, non ha inizio né
fine, consegna durrenmattianamente l’omicida a metà e si concede totalmente al dato
onirico, in un finale d’antologia a tanti livelli, che rigira tra l’altro la
sciabola nell’eterno, doloroso conflitto uomo/donna con paurosa efficacia.
Interpreti maiuscoli, da Lo Cascio stravolto alla sfuggente Mouglalis,
fotografia da camera oscura di Daniele Ciprì e infallibile base ipnotica di
Shigeru Umebayashi. Una perla nera, più sfrontata e splendente dei sorrisi
contraffatti che siamo condannati ad ingoiare.
La
Torre non è una regista "facile" e lo dimostra con questo film;
criticabilissimo quanto volete (i punti deboli sono molti: da Lo Cascio alle
ambientazioni, dalla sceneggiatura abbastanza sfilacciata alla regia un po'
pretenziosa) eppure affascinante: la fotografia specialmente, con quel blu
quasi irreale, è magica e le inquadrature, i giochi di sguardi ed alcune scene
sono davvero registicamente memorabili (il parcheggio, il locale di scambisti).
Resta il disappunto per un prodotto potenzialmente bellissimo ma reso involuto
e male sviluppato.
…dove Mare nero compromette quasi del tutto la propria credibilità è sul
versante drammaturgico: il trattamento ellittico e misurato della materia
narrativa è clamorosamente contraddetto da dialoghi fastidiosamente forzati (la
maggior parte delle conversazioni tra Luca e Veronica sono da antologia
dell’improbabile) e da una recitazione spaventosamente artificiosa. La
Mouglalis e Lo Cascio non soltanto non sembrano in parte, ma risultano
tremendamente impostati perfino quando si lavano i denti o si rotolano sul
letto accapigliandosi. Il problema purtroppo non si limita a loro: chiunque
entri in una qualsiasi delle inquadrature assume automaticamente posture rigide
e affettate, adeguando la recitazione all’innaturalezza dell’atteggiamento
corporeo. Il culmine dell’artificiosità si raggiunge nelle sequenze ambientate
nella centrale di polizia, dove gli attori ripresi frontalmente ostentano una
teatralità che, anche se fosse voluta, risulta francamente irricevibile,
finendo per disintegrare la credibilità residua della pellicola. È un autentico
peccato, ché, a tratti, Roberta Torre mostra di saper dipingere squarci di
inquietante enigmaticità a colpi di cinepresa. Restano frammenti di cinema
prezioso e la sensazione di un film ferocemente irrisolto.
Mare nero si apre sul Satiro danzate, un’antica statua
sinuosa ritrovata tempo fa nel mare della Sicilia. Roberta Torre la vide poco
dopo che era stata ripescata, immersa in una vasca di acido che la ripuliva, e
ne rimase affascinata: «È stata un’attrazione forte, irresistibile… Ti perdi
quando la guardi… Mi piaceva iniziare il film da un ritrovamento che arriva dal
fondo del mare… È il ”dionisiaco“ in cui si immerge il protagonista, l’inizio
del suo viaggio». Incipit suggestivo, non c’è che dire. Senonché, subito dopo,
veniamo sbalzati in un’asettica realtà metropolitana, dove il protagonista, un
ispettore di polizia, si immerge in un ”dionisiaco“ molto particolare, oscuro,
ritroso, sadomasochistico, nel quale mescola le immagini della ragazza uccisa
sulla quale sta indagando con quelle della fidanzata francese con la quale ha
appena cominciato a convivere. Ambizioso e irrisolto, Mare nero non colpisce il bersaglio, non affonda nelle
patologie del protagonista e del mondo che lo circonda, non riesce a renderci
partecipi dei suoi dilemmi. Le sceneggiatrici (la Torre e Heidrun Schleef)
osservano la psicologia maschile dall’alto e semplificano quella femminile,
servite male anche dai due protagonisti, improbabili. Troppo cristallo, troppo
minimalismo, troppa patinatura alla Helmut Newton (ma di seconda scelta, basti
pensare alla scena, piuttosto ridicola, del partouze con la coppia borghese).
Pochissima autentica ossessione.
Film controverso e poco riuscito. Nel tentativo di firmare
un noir con pretese autoriali il regista costruisce una trama dai toni cupi,
artificiosamente malati, ma poco coinvolgenti. Il viaggio che il protagonista
intraprende, alla scoperta della depravazione sommersa, sembra voler citare
altri illustri (ma riusciti) predecessori di celluloide. Quì però tutto scade
nalla banalità, nel ridicolo, nella noia. Sprecato e imbarazzato Lo Cascio.