“Perché i vuoti possano
diventare pieni serve una grande idea politica”. L’intervista a Vito Teti - Elisabetta Galgani
Restanza e disperanza, pandemia, nostalgia, futuro. A
colloquio con il grande antropologo calabrese
Una
partitura musicale, una poesia, un documentario. È tutto questo “Il
Paese interiore”, il film di Luca Calvetta che narra la Calabria con le parole
dell’antropologo Vito Teti attraverso la voce di Ascanio Celestini. Un film libero,
senza budget, che si può trovare online (link in fondo all’articolo) ed è
accessibile a tutti. Un viaggio in un mondo scomparso che ritorna, nelle
macerie vive che hanno tanto da insegnare. L’uscita del film è stato un modo di
avvicinare e incontrare Teti, che ha scelto di tornare a insegnare nella sua
Calabria e ad abitare la casa dov’è nato, a San Nicola da Crissa (Vv), seguendo
il filo di quello che lui chiama la “restanza”.
«Per me la restanza è molto legata a un’idea di mobilità e di erranza, di
sentirmi in esilio da fermo, spaesato. Non è qualcosa di statico, apatico.
Abitare i luoghi con consapevolezza, viverli e cambiarli in meglio, rendendoli
più accoglienti e aperti. La storia lunga della Calabria è fatta di grande
emigrazione e di grandi svuotamenti: io sono nato in un paese di cinquemila
abitanti, oggi ne rimangono solo mille. Questa è la situazione generale delle
aree interne dell’Italia, dagli Appennini alle Alpi. Il rischio è che questi
paesi diventino dei musei vuoti che nessuno vuole più visitare».
Si fa un
gran parlare della cesura imposta dal Coronavirus: c’è davvero un ritorno dalle
grandi città alle aree interne?
La restanza riassume il partire e il rimanere: così come c’era mio padre che
era partito per il Canada, così mia madre rimaneva nel paese ad aspettarlo. I
termini sono inseparabili, si compenetrano e si comprendono solo insieme. Negli
ultimi tempi c’è stato più un desiderio di restare che di andare, si è superato
il mito della città. Con la pandemia c’è un numero maggiore di persone che
torna o vorrebbe tornare ma lo smartworking calato in un paese vuoto non fa
altro che riproporre un modello urbanocentrico. E soprattutto, chi verrebbe a
lavorare in un paese vuoto? Di che cosa vivrebbe? I paesi sono vuoti anche
perché non hanno più i servizi, gli ospedali, le scuole. Ho paura che davanti a
questa immagine edulcorata e retorica del tornare si possa consumare l’ennesima
beffa nei confronti dei paesi e del Sud. “Ripopolare” è un termine complicato:
non si ripopola nell’arco di due anni un luogo che si è spopolato in cento
anni, in un Paese dove c’è una crisi demografica altissima. Si dovrebbero prima
di tutto ricreare delle comunità che mettano insieme quelli che sono rimasti
con quelli che ritornano e quelli che arrivano, gli immigrati. E assieme
costruire modelli, pratiche economiche sociali e culturali per riabilitare i
luoghi in maniera diversa dal passato, per renderli di nuovo centrali. Si
ribalta il vecchio paradigma: non partire dal centro ma ripartire dai margini,
dalle periferie, dai luoghi apparentemente vuoti. Perché i vuoti possano
diventare pieni serve una grande idea politica, un progetto. Se si ristruttura
un vecchio palazzo in un paese abbandonato e poi non verrà usato e la via
rimane vuota abbiamo creato una nuova rovina, una rovina moderna. Bisogna
partire non dai bisogni di chi vuole fare affari, ma da quelli delle persone,
rispondendo alla vocazione economica ed emotiva di un luogo.
Parla spesso
nei suoi libri di nostalgia. Per essere contemporanei e prevedere il futuro c’è
bisogno di pensare il passato e riconquistarlo?
La nostalgia
come sentimento collettivo potrebbe significare restare ancorati a potenzialità
inespresse da recuperare. Ad esempio, oggi in Calabria il 55% dell’acqua va
sprecata, poi abbiamo quella gestita dai grandi acquedotti che non è potabile e
la compriamo in bottiglia. Certi sistemi di approvvigionamento del passato
forse potrebbero essere più adeguati di quelli imposti dalla modernità.
Bisognerebbe rifare dei piccoli acquedotti gestiti a livello comunale, con
l’acqua che tu vedi, conosci e controlli e arriva facilmente nelle case,
anziché le mega opere. Il passato ha molto da insegnare, soprattutto in un
tempo in cui il progresso è considerato inarrestabile, l’imprevisto e la
catastrofe negati. C’è un vecchio detto calabrese che dice: Alla
scordata si rende la pizzata, il danno che hai fatto ti verrà restituito
quando te ne sarai scordato. Questo è molto vero rispetto al rischio sismico
che sappiamo alto in Calabria. Perché non difendiamo il paesaggio? Perché non
costruiamo in maniera da difenderlo saggiamente secondo le normative? Quando il
terremoto verrà, avremo meno devastazioni, meno morti… In Calabria abbiamo
centinaia di riti che ricordano i flagelli, le alluvioni, i terremoti, ma sono
manifestazioni rituali, nel senso più brutto del termine, perché non ti
consegnano un memento, una memoria attiva: non ti ricordano veramente che
quello che è accaduto potrebbe succedere di nuovo. È quello che racconto con
l’esempio di Cavallerizzo, un paesino calabrese che pur essendo sorto in una
zona in cui c’era già una frana è riuscito a conviverci per secoli. E poi,
improvvisamente, la morte di questo paese viene “chiamata” (il 7 marzo 2005 una
nuova frana ha costretto la popolazione a spostarsi, nda). A Cavallerizzo c’è
sempre stata la leggenda di San Giorgio in lotta contro il drago, che
simboleggia il sottoterra, il pericolo. È l’animale che annuncia. Eppure qui
hanno continuato a tagliare i boschi, a seppellire i corsi d’acqua, a costruire
con il cemento armato sulla frana.
Sta
accadendo lo stesso con la pandemia?
Abbiamo ripetuto per mesi dai balconi, dai giornali, dai social che “niente
sarà più come prima”. A me pare che purtroppo sarà peggio di prima. L’innevato
deserto canadese che si incendia o la Germania alluvionata, con centinaia di
morti, gli scienziati che ci dicono che non sono fatti occasionali ma eventi
che dovrebbero farci riflettere. E invece si continua a essere colti dalla
grande “cecità” di cui parla Amitav Gosh, per cui il problema dominante diviene
il chiudere o aprire le discoteche, o la mascherina sì o no. Mi sembrano
questioni legittime, che non colgono però la dimensione catastrofica, da “fine
del mondo”, di quello che è successo. Quella spinta iniziale al cambiamento non
è stata raccolta, non è stata ascoltata la visione profetica del Papa, al di là
che uno creda o meno (l’omelia di Pasqua 2020 in una piazza San Pietro vuota,
nda). Ma anche quegli insegnamenti che venivano dal passato sono inascoltati.
Come quell’altro detto di mia nonna e mia madre: U peju è arrede,
il peggio è indietro, un detto che significa che il peggio in realtà è avanti,
potrebbe accadere. Tutta questa saggezza popolare aveva la consapevolezza del
limite: non si potevano superare certi limiti della finitudine, della malattia,
della morte. Oggi, per l’ennesima volta, si parla di incidente: superato si
torna alla normalità, anche se ormai non si sa quale sia la normalità. È chiaro
dal modo in cui ci salutiamo e abbracciamo, in cui comunichiamo, dalla percezione
che abbiamo del corpo, della salute, della morte, delle feste: nulla sarà come
prima. Lo stiamo rimuovendo al punto che si tornerà a un “prima” a cui non è
utile tornare poiché è esattamente quel “prima” che ci ha portati nel baratro.
Non bisogna tornare al mondo di prima, ma immaginare il mondo di domani.
Lei parla di
nostalgia del futuro e la sua ricetta è fatta di “responsabilità, saggezza,
prudenza, etica del futuro come limitazione del rischio e
ridimensionamento dell’imprevedibile”. Chiudiamo questa intervista con
ottimismo?
Non sono
ottimista ma non posso dire che il mondo sia già finito perché non è vero. Tra
la disperazione e la speranza, scelgo la “disperanza”. Una speranza dolorosa,
dolente. Questa mia visione può sembrare consolatoria ma è una sorta di buon
auspicio per le nuove generazioni. Continuiamo a dire “non superiamo il limite,
non sprechiamo, recuperiamo quello che c’è da recuperare”. Essendomi definito
“rivoluzionario” in gioventù, adesso posso dire che il problema non è
rivoluzionare il mondo ma conservarlo. La vera rivoluzione sta nel curare,
custodire. Nell’imprevedibilità del domani un atteggiamento possibile è quello
delle “piccole utopie quotidiane”: amare gli altri, andare a visitare gli
ammalati, non lo dico evangelicamente, parlare con gli anziani, dialogare con i
defunti per scongiurare la morte, sprecare meno, consumare meno cibo. Tutto
questo forse non salverà il mondo ma tante piccole utopie quotidiane
individuali potrebbero contribuire a fondare nuove comunità, nuovi modi di
stare assieme. Per poter dire che abbiamo fatto tutto quello che era nelle
nostre possibilità.
Clicca qui per vedere “Il Paese Interiore”
Vito
Teti è professore ordinario di Antropologia culturale
dell’Unical, dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche
“Antropologie e letterature del Mediterraneo”. Tra le sue pubblicazioni: “Il
senso dei luoghi”, “Maledetto Sud”, “Terra inquieta”, “Quel che resta. L’Italia
dei paesi, tra abbandoni e ritorni”, “Prevedere l’imprevedibile”.
Nessun commento:
Posta un commento