venerdì 5 giugno 2020

Muffa (Küf) – Ali Aydın

la Turchia non è un posto per ridere. 
anche l'opera prima di Ali Aydın non può non dirlo.
quando i giovani vanno a combattere il potere dello stato, alla fine dello scorso secolo, come adesso, metti in conto che il nemico vuole il tuo annientamento fisico.
Bescet aspetta un figlio che non tornerà, lo sappiamo, lui vuole sapere che fine ha fatto.
è un uomo buono, vinto dalla vita, dall'attesa infinita.
è un film che merita molto, guardatelo, se potete - Ismaele







QUI il film completo, in italiano



Ali Aydin pone grande attenzione al paesaggio, lo usa narrativamente, e cura maniacalmente la collocazione degi attori nello spazio dell’inquadratura. Videoartisticamente, anche gli interpreti si fanno elementi (oggetti) di una composizione squisitamente visuale, e si pensi solo a quella che è la sequenza fose più bella, quasi un manifesto programmatico, del film, il primo incontro tra il commissario e Bescat, con la macchina fissa a riprendere i due disposti in perfetta simmetria ai bordi opposti di un tavolo, e quell’accendino messo esattamente al centro dell’inquadratura a segnalare la divisione in due del campo visivo. Una scena che dura molto a lungo, perfetta, dove le scarne parole che i due si scambiano, all’apparenza così qualunque, suonano pesanti, gravide di conseguenze, definitive. Un bell’esempio di virtuosismo cinematografico, anche perché Ali Aydin riesce a unire qui (e nel resto del film) l’occhio implacabile e infallibile a buone doti di narratore. Pur nella lentezza e nell’estenuazione di un cinema rarefatto, e di silenzi e tempi interni dilatati fino a suscitare un effetto ipnotico, in Muffa la narrazione non manca mai, la storia ci appassiona e ci tiene legati fino alla fine. Una fine che arriverà con una rivelazione forse non così sorprendente, ma lo stesso sconvolgente. E quelle immagini nelle sinistre camere di un istituto di Istanbul ci restano dentro.

Ricco di un forte esistenzialismo e del rigore formale tipico della cinematografia mediorientale (fotografia cupa, recitazione per sottrazione, dialoghi scarni ed essenziali, lunghe inquadrature statiche, montaggio minimo), il film si fa ritratto emblematico di una realtà ormai volutamente dimenticata, rendendo il protagonista simbolo di una coscienza storica e civile che non vuole farsi cancellare, persistendo nella sua pacifica protesta al fine di ottenere ciò per cui da tempo lotta. Come tanti turchi, l’anziano Barsi – umile guardiano delle ferrovie dello Stato – vuole conoscere la sorte capitata al figlio, scomparso in carcere durante le repressioni politiche di quasi vent’anni prima.

C’è un forte attaccamento alla letteratura nel film di Ali Aydın, non solo il citato Kemal Yetkin (Istanbul, 1903-1980) ma anche Dostoevskij, presente soprattutto nel tema del senso di colpa, che troverà spazio in una vicenda parallela al racconto principale, tratto che lo accomuna a un grande autore del cinema turco appartenente alla generazione precedente come Zeki Demirkubuz. Ma c’è soprattutto molto cinema: nei dialoghi, nella capacità di trasformare i luoghi da scenografia in protagonisti, nella direzione degli attori. E se la storia potesse sembrare semplice – ma potrebbe apparire tale solo a una lettura superficiale – le emozioni che suscita scavano nel profondo di ognuno. La fotografia di Murat Tuncel inquadra Basri in un paesaggio bellissimo ma incombente con il risultato di fare apparire l’uomo ancora più piccolo e vulnerabile e le lunghe riprese catalizzano il senso di un’attesa forse senza fine che suscita tutta la nostra empatia in un bellissimo film che ha il potere di rimanere impresso attraverso la discrezione che solo il vero dolore sa portare con se…

Aydin evita qualsiasi tipo di spettacolarizzazione a favore di un racconto spoglio e minimalista, oggettivamente distaccato ma che non può lasciare indifferenti coloro che lo guardano, restituendo loro la sofferenza di un padre privato dell’affetto del proprio figlio e la solitudine istituzionale di un cittadino che non ha e non avrà mai voce in capitolo, privato del diritto a una risposta a una domanda sacrosanta. Il film ci restituisce con rispetto e una contemplazione mai morbosa la sensazione di un urlo di dolore soffocato in gola, che trova in un continuo vagabondare del protagonista tra i binari della ferrovia e le caserme della polizia la materializzazione di un dolore straziante. La macchina da presa del regista turco osserva gli eventi e il pellegrinaggio invisibilmente disperato di un uomo che vuole quantomeno un corpo da seppellire.  L’attesa di una risposta sul perché di una misteriosa e immotivata scomparsa fa sorgere nello spettatore un senso di angoscia crescente che si attacca alle pareti del cuore e della mente in maniera indelebile, sino al glaciale epilogo che mette solo apparentemente la parola fine al film. La messa in quadro asseconda in tutto e per tutto la messa in scena, attraverso reiterati e interminabili silenzi e un rigore formale che caratterizzano entrambi i piani sensoriali. La pregevole composizione dell’inquadratura e la scelta della fissità della macchina da presa contribuiscono a rendere la fruizione ancora più maledettamente insostenibile, alla pari della struggente e intensa interpretazione di Ercan Kesal nel ruolo di Basri, che si portavoce di un dolore latente che sta uccidendo lentamente un uomo, un padre e un cittadino come tanti.

…Aydin parte dall’associazione Cumartesi Anneleri, “le madri del sabato” che davanti al liceo Galatasaray protestano per i propri figli o fratelli scomparsi nelle carceri turche, ma va oltre la cronaca impegnata e la denuncia civile. Muffa è letteratura, vulnus interiore, dolore con nome e cognome. Muffa è forma raffreddata (pochi movimenti di macchina, un lungo piano sequenza rivelatore) e coscienza arroventata.
Muffa è cinema: povero fuori, ricco dentro. Vi ricorda qualcosa? Comprensione e comprensibilità universali, come nel neorealismo che fu e nei cinema poveri ultimi scorsi, dall’Iran alla Romania e, appunto, la Turchia. Rimane la muffa, lascito della decomposizione del figlio e della marcescenza del padre. E rimane Muffa, un esordio che passa l’esame. Di coscienza. Anche la nostra?

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