era una storia difficile, raccontare la guerra degli sconfitti, senza comunque farne l'elogio, anzi.
Marco si arruola nell'esercito dei repubblichini, illuso fino alla fine, ed Elia, il suo migliore amico, non riesce a convincerlo che la loro è una storia sbagliata.
un'opera prima forse immatura, forse didascalica, sicuramente buon cinema da recuperare - Ismaele
QUI la puntata di Hollywood Party - Il cinema alla radio dedicata al film
dice Giuliano Montaldo:
…Tiro al piccione fu girato tra Vercelli, Varallo Sesia e l’alta Val Sesia. Mi ricordo la bellezza dei luoghi visitati per i sopralluoghi con Carlo Di Palma. Gli anni Sessanta non erano lontani dal periodo del film e quindi le location non risultano ancora troppo ‘datate’. Fu determinante la collaborazione tra me e Moscatelli, il comandante partigiano piemontese che mi aiutò nel lavoro di documentazione. Il film creò delle forti polemiche: era basato sui condizionamenti che la società fascista imponeva ai giovani dell’epoca, sul trauma dei giovani che si accorgevano che i loro sogni di conquista sfumavano e che la Repubblica Sociale era contraria a una vera democrazia. Avevo letto il romanzo di Giose Romanelli, molto autobiografico, e mi aveva sconvolto e appassionato questa storia vista “dall’altra parte”, la storia di un giovane che in quegli anni aveva fatto la scelta sbagliata. Pensai che il film potesse dare vita a un dibattito su chi durante la guerra aveva sbagliato in buona fede, invece si trasformò in un boomerang contro di me, per il carico di polemiche staliniste che seguì l’uscita del film. Io avevo tanto investigato, avendo già fatto film sulla Resistenza, e avevo maturato l’idea che bisognava rivisitare anche “le altre parti” della guerra. Forse ho anticipato troppo… ma il film venne tacciato di ambiguità e se c’è una ferita che brucia ancora è questa, perché non era vero, e più tardi tanti me lo hanno confermato. Mi ricordo che il film fu invece una sorta di atto liberatorio per tutti i giovani che, come il protagonista, erano rimasti invischiati nel regime fascista. Solo oggi Tiro al piccione torna a essere mostrato nelle scuole e può dare il via a dibattiti costruttivi sulla demagogia usata in certe ideologie
…Tiro al piccione fu girato tra Vercelli, Varallo Sesia e l’alta Val Sesia. Mi ricordo la bellezza dei luoghi visitati per i sopralluoghi con Carlo Di Palma. Gli anni Sessanta non erano lontani dal periodo del film e quindi le location non risultano ancora troppo ‘datate’. Fu determinante la collaborazione tra me e Moscatelli, il comandante partigiano piemontese che mi aiutò nel lavoro di documentazione. Il film creò delle forti polemiche: era basato sui condizionamenti che la società fascista imponeva ai giovani dell’epoca, sul trauma dei giovani che si accorgevano che i loro sogni di conquista sfumavano e che la Repubblica Sociale era contraria a una vera democrazia. Avevo letto il romanzo di Giose Romanelli, molto autobiografico, e mi aveva sconvolto e appassionato questa storia vista “dall’altra parte”, la storia di un giovane che in quegli anni aveva fatto la scelta sbagliata. Pensai che il film potesse dare vita a un dibattito su chi durante la guerra aveva sbagliato in buona fede, invece si trasformò in un boomerang contro di me, per il carico di polemiche staliniste che seguì l’uscita del film. Io avevo tanto investigato, avendo già fatto film sulla Resistenza, e avevo maturato l’idea che bisognava rivisitare anche “le altre parti” della guerra. Forse ho anticipato troppo… ma il film venne tacciato di ambiguità e se c’è una ferita che brucia ancora è questa, perché non era vero, e più tardi tanti me lo hanno confermato. Mi ricordo che il film fu invece una sorta di atto liberatorio per tutti i giovani che, come il protagonista, erano rimasti invischiati nel regime fascista. Solo oggi Tiro al piccione torna a essere mostrato nelle scuole e può dare il via a dibattiti costruttivi sulla demagogia usata in certe ideologie
Notevole non solo poiché è un'opera prima, ma anche per il grande
coraggio di girare un film così, cosa assolutamente non facile per l'epoca.
Piace per la sobrietà e la secchezza (forse si poteva tagliare qualcosa della
storia d'amore) e per l'assenza di retorica. Ma soprattutto colpisce per la
costruzione e la descrizione dei personaggi, che è priva di ovvietà e di
manicheisimi, al punto che alla fine si finisce quasi con l'identificarsi o
quantomeno per l'empatizzare con alcuni di essi. Efficace e sincera anche la
descrizione di mentalità, atteggiamenti, dubbi, pensieri e orrori.
…Negli anni della narrazione antifascista (Tutti a casa, La lunga notte del ’43, Era notte a Roma, Un giorno da leoni per
citarne alcuni esempi), Montaldo si dimostra subito cineasta di grande
tolleranza e dallo spirito sinceramente democratico: ciò che gli sta più a
cuore è capire l’orizzonte umano di un ragazzo, arruolatosi volontario a Salò,
che non ha mai conosciuto altro mondo all’infuori di quello fascista. Pur
basata sul testo di Rimanelli, è un’operazione complessa, perché il regista si
ritrova a dover costruire un personaggio nuovo per un cinema italiano invece
molto ferrato sulla mitologica rappresentazione dei partigiani e su quella
spregevole dei fascisti. Nello scandagliare il reparto, Montaldo sottolinea
l’eterogeneità di una compagine nella quale convivono la violenza squadrista
(Gastone Moschin) e la codardia delle élite (il comandante Carlo D’Angelo),
l’ottuso militarismo (Sergio Fantoni) e il disincanto di chi ha cambiato idea
(Francisco Rabal).
“Elia, ma perché le donne non ci vogliono più
bene?” chiede Marco Laudato, il giovane protagonista interpretato da Jacques
Charrier, ascoltando per l’ennesima volta quell’inno sempre più simile a un
canto funebre. Marco, il cui padre morto in Africa si staglia quale motivo
principale della scelta repubblichina, è la vittima più nascosta del Ventennio,
anche perché si trova fino alla fine dalla parte sbagliata della Storia: illuso
da un mondo apparentemente votato all’ordine e alla disciplina, intransigente
per non tradire se stesso e i suoi ideali, costretto a capire di essere una
delle tante pedine di una guerra che nessuno vuole guidare, compreso il Duce che
da lontano lancia parole sempre più vuote.
E via via chiamato ad accettare una deriva
nichilista, con prove estreme sospese tra la vita e la morte, che non risparmia
l’amore mal riposto verso una donna misteriosa, incarnata da quella Eleonora
Rossi Drago qui enigmatica signora lacustre a cui manca l’effimera speranza di
salvarsi ancora da un’altra estate violenta. Rivisto oggi, Tiro al piccione –
che si avvale di un cast tecnico prestigioso, da Carlo Di Palma alla fotografia
a Nino Baragli al montaggio passando per il compositore Carlo Rustichelli – non
emerge solo come uno dei migliori film di Montaldo, ma anche per la sua
inquietante dimensione da coming of age disperato e cupo. E in pochi hanno
raccontato quel pezzo di storia con tale intelligenza.
…Protagonista dapprima eroico della vicenda, poi disilluso fuggiasco
per amore, un intenso Jacques
Charrier, attore di gran classe – fu anche marito della Bardot
- che ha quantitativamente lavorato poco, abbandonando prematuramente il
mestiere, ma sempre con i più grandi nomi della cinematografia europea (Carné,
Jacque, Demy, Chabrol, Cayatte, Deville, Varda).
Lo affiancano Eleonora Rossi Drago nella
parte di Anna, amante al servizio degli alti ranghi militari, Gastone Moschin e Francisco Rabal,
oltre ad una apparizione di un giovanissimo Enzo Cerusico, nel ruolo del pastorello
sacrificato dai tragici eventi.
…In un’intervista
rilasciata a «Il Secolo XIX»,
parlando di Tiro al piccione il regista ha detto che nei primi anni
Sessanta “ancora non era il momento per
trattare certi argomenti”.
Ma
oggi, con la presentazione della versione restaurata a Venezia, si può dire che
si sia preso la sua rivincita. “Penso che in
Italia ci sia da sempre la brutta abitudine di cercare di dimenticare il
passato – ha dichiarato Montaldo, – o
perlomeno la parte scomoda del passato. A mio parere, invece, i conti con la
storia vanno sempre fatti, senza dimenticare quello che è successo”. Poi
ha voluto lanciare una provocazione: istituire una mostra dei martiri della
qualità, ovvero una selezione di film stroncati da una critica troppo snnob
ma acclamati da un pubblico soddisfatto. “Ci
sarebbe da imparare molto”, ha ironizzato il maestro. Parole sacrosante,
se si pensa a quante volte in Italia si è dovuto attendere le solite
riabilitazioni postume (tardive e di comodo) per rimediare agli eclatanti
errori della critica militante.
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