sabato 2 giugno 2018

Lazzaro felice - Alice Rohrwacher

dicono in tanti che il film ricorda qualcosa di Pier Paolo Pasolini e Ermanno Olmi, Zavattini e De Sica, Elsa Morante.
a me ha ricordato Bella e perduta, di Pietro Marcello, un film di umani e animali, di innocenti e vittime.
e però è tutto di Alice Rohrwacher.
dentro il film c'è una/la storia d'Italia, la schiavitù, il progresso, l'innocenza che salva il mondo, Lazzaro è come uno di compagni di san Francesco di Rossellini, così fuori dal mondo da sembrare pazzo.
diceva Morante che i bambino salveranno il mondo, aggiungiamo anche gli innocenti dal cuore di bambino, Lazzaro sembra non capire cosa succede, o forse è l'unico che capisce la sostanza delle cose, ha l'intuito, come un lupo, che gli altri hanno perso, e un sorriso disarmato e disarmante, ma non per tutti.
penso che a Ernesto de Martino e a Giulio Angioni questo film sarebbe piaciuto, voglio pensarlo, e lo penso.
a me è piaciuto moltissimo.
buona visione - Ismaele






Lazzaro felice ha un tono fiabesco, in foggia realistica: l’inizio restituisce la concretezza e la poesia di un mondo contadino stremato e la fine incanta portando lo spettatore ad avere la necessità di rivederlo ancora, perché è un film che ha una densità difficilmente afferrabile in una sola volta.
Un notevole abilità nella messa in scena dona una forte valenza politica ed ecumenica, ma senza forzature, senza proclami o didascalie: tutto scorre lentamente, nell’intima essenza della narrazione, sbattendo in faccia le contraddizioni che viviamo e frantumando qualsiasi residuo di idealizzazione.
Delicato e graffiante, efficace perché quel che deve dire è intrinseco nella narrazione, nell’articolazione della storia, nei personaggi, nella scelta dell’utilizzo della pellicola 16 mm; le contraddizioni, i pensieri emergono dagli sguardi, dalle poche parole e dai silenzi.
Lazzaro attraversa i mondi e li illumina trovando ciò che resta di buono, il denominatore comune, come le erbe che nascono spontanee e che possono nutrire. Lazzaro attraversa senza giudicare, con i piedi contadini e lo sguardo di un moderno santo che crede senza dover convincere, solo testimoniando sé stesso in compagnia del lupo.

Alla sua terza regia Alice Rohrwacher fa intraprendere al suo protagonista, e alla comunità che lo circonda, un cammino che è anche il proprio, all'interno di un cinema che deve molto a Olmi e Zavattini ma continua a spingersi oltre lungo un terreno che frana e si modifica continuamente sotto i suoi (e i nostri) piedi. Non è facile tenerle dietro mentre attraversa un'arcadia senza tempo che è anche un microcosmo di sfruttamento, dove il lupo è assai più giusto e buono dell'essere umano che lo teme. Il suo linguaggio parte da atavico e diventa postmoderno, racconta un vento che soffia senza tregua per spazzare via la protervia del potere e uno sputo nel piatto dell'ingiustizia sociale senza per questo negare che il Bene e il Male percorrono il tempo senza cambiarlo, riproponendosi all'infinito.
La fionda che Tancredi, il figlio della Marchesa, regala a Lazzaro è come la cinepresa per Rohrwacher, ben consapevole della sua pericolosità: Alice si piazza sempre in medias res, fra le foglie di tabacco, dentro ai letti disfatti dei contadini, dietro lo sguardo puro del suo protagonista. Lazzaro è un'occasione come lo è il cinema di Alice Rohrwacher, che è tutto finto, nel senso di reinventato e ricreato, ma conserva radici profondamente reali, italiane prima che universali, rurali piuttosto che bucoliche.

la magnifica intuizione del film resta il suo personaggio principale, Lazzaro. Il Puro, il Mite, l’Innocente, il Buono, il Santo, l’agnello che si fa carico dei mali e peccati del mondo e che per tutti pagherà, inerme vittima sacrificale e vittima designata. Lo interpreta un giovane attore di nome Adriano Tardiolo dalla faccia pulita da sacro affresco devozionale, da ex voto, che è una rivelazione, e che quasi da solo veicola tutto il carico emozionale del film. Di un’allegria fanciullesca da fraticello rosselliniano e riccetto pasoliniano. Un Lazzaro che più che a San Francesco, come sembra suggerire Alice Rohwacher in certe sue dichiarazioni, a me ha ricordato fortissimamente i personaggi di certa Elsa Morante. Lazzaro è il buono travolto dalla Storia, l’eterno fanciullo e ragazzino destinato a salvare il mondo con il suo sacrificio. Come la Morante, Rohrwacher opera una sorta di mimesi linguistica e antropologica con l’universo contadino e sottoproletario del suo Lazzaro, abbattendo ogni barriera, eliminando ogni filtro e distanza. Come Morante, ha uno sguardo partecipe e un’intensità palpitante fino alla visceralità e, ebbene sì, squisitamente femminile.

…il salto nel vuoto della Rohrwacher (premiata a Cannes per la sceneggiatura in ex-aequo con Three Faces di Panahi), rischioso e incantato, si compie pienamente: un balzo in cui il tempo segnerà il passaggio che lei stessa – parafrasando Elsa Morante – definisce quello tra il primo e il secondo medioevo, tra un medioevo storico e un medioevo umano. Quello in cui la democrazia trae in salvo gli schiavi per gettarli poi, soli, in un sistema comunque chiuso, e classista.
Lo scenario cambia, il “caldo” della natura ha lasciato il posto al freddo incolore della metropoli: due poveracci (uno è Sergi Lopez) fungono da traghettatori inconsapevoli dell’unica cosa, entità, a non essere mutata.
Lazzaro, che metaforicamente risorto, si ritrova immutabile come solo il Bene può esserlo, sul cammino di quei contadini non più tali. E cambiati, cresciuti, invecchiati. Antonia (da giovane era Agnese Graziani, ora è Alba Rohrwacher), che da ragazzina era stata l’unica a preoccuparsi della sua scomparsa, ora è l’unica a riconoscerlo senza esitazioni. Ad accoglierlo.
Perché Lazzaro – al quale l’esordiente Tardiolo dona un’adesione talmente irreale da apparire meravigliosa – è portatore di quella assurda “santità dello stare al mondo e di non pensare male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”.
Ed è ancora l’unico, pur in una storia dove il bene e il male sono così facilmente individuabili, a non esprimere mai un giudizio.
Scoprendo però, ad un tratto, di non essere più felice come un tempo, pur ritrovando lontano dalla campagna un’altra luna da fissare. Scoprendo di saper soffrire, e sempre in nome di una bontà “folle”, capace di compiere scelte sbagliate, ma comunque incapace di far soffrire gli altri. E questa, “povero scemo”, sarà la sua colpa definitiva.
Un cinema che è epifania, un cinema di corpi celesti e meraviglie. E di Lazzaro. Un cinema felice.

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