Manolo e Mirko, due ragazzi dell'Alberghiero, amici per la pelle, si trovano in una situazione difficile, e grazie ai consigli del padre di Manolo, che vive in un garage, riescono a cambiare la loro vita.
diventano quello che mai avrebbero immaginato, così, senza troppi problemi, eccoli sicari (e, naturalmente, altri lavoretti più terra terra, che comunque devono essere fatti).
e da lì la loro stella sale, splende, diventano gente di successo, non devono più chiedere.
interessante quanto poco ci vuole a cambiare e quanto ci si mette a capire cosa sei diventato.
i due registi sono bravissimi, gli attori convincenti, un'opera prima davvero azzeccata.
il cinema vi aspetta, senza se e senza ma - Ismaele
diventano quello che mai avrebbero immaginato, così, senza troppi problemi, eccoli sicari (e, naturalmente, altri lavoretti più terra terra, che comunque devono essere fatti).
e da lì la loro stella sale, splende, diventano gente di successo, non devono più chiedere.
interessante quanto poco ci vuole a cambiare e quanto ci si mette a capire cosa sei diventato.
i due registi sono bravissimi, gli attori convincenti, un'opera prima davvero azzeccata.
il cinema vi aspetta, senza se e senza ma - Ismaele
…La Terra Dell’Abbastanza è tecnicamente impressionante, dura 90 minuti e non ha
un secondo di troppo, tagliato con precisione anche grazie a Marco Spoletini (già collaboratore di Matteo Garrone, Alice Rohrwacher e Daniele Vicari) non si perde e va dritto al punto con una visione della
periferia sfrondata di ogni poesia (grazie al cielo!), di ogni pomposa retorica
da quartieri alti che scendono nei bassi e da ogni intento estetizzante. Il
punto è che i fratelli D’Innocenzo non hanno nessuno dei difetti soliti dei cineasti italiani,
sono bravissimi a scrivere scene fluide e scorrevoli e poi a concepire delle
inquadrature che parlino ancor più della scrittura, in cui la disposizione
delle persone e la prospettiva hanno sempre un senso. Non è poco per niente, ed
è la caratteristica che rende gran parte del cinema classico (hollywoodiano ma
anche italiano) quello che è: leggero e significativo al tempo stesso. Da ogni
punto di vista questo, a tutti gli effetti, non sembra in nessun momento il
film di due esordienti ma quello di due navigati cineasti…
…Non c’è giudizio negli occhi dei D’Innocenzo, ma c’è un’innegabile
simpatia per questi due spiantati, ragazzini incoscienti e inconsapevoli, tesi
soltanto a guardare quella spanna di cemento oltre le loro scarpe, nei confini
di un quartiere abbandonato prima dalle speranze e poi da qualsiasi cenno di
civiltà. E così come non c’è giudizio, non c’è nemmeno il bene e il male,
nonostante si racconti anche di criminali: sono personaggi stanchi, che
misurano il loro raggio d’azione in un luogo fantasma, che spadroneggiano sul
nulla, anche loro accontentandosi di quello che racimolano.
Senza infamia e senza lode, la macchina da presa segue i
protagonisti e li mostra senza alcun filtro, senza la lente della moralità,
nonostante nel finale si percepisca appena una carezza, sul volto di Manolo,
sul volto di Mirko, nel momento in cui entrambi sembrano capire dove vivono
davvero e dove i loro piedi li hanno portati. E quell’abbastanza diventa
troppo, per entrambi.
…si ritaglia un’autonomia derivata dal fatto di non limitarsi
a registrare il microcosmo dei personaggi in chiave neorealista
reinterpretandone, invece, anche l’universo, secondo una gamma di varianti che
va dalle cromie fotografiche di Paolo Carnera, utilizzate per amplificare
determinati stato d’animo, all’astrattezza di certi scorci urbani (forniti
dalle poche ma significative vedute in campo lungo), perfetti nel riflettere
l’isolamento e l’alienazione vissuti dai personaggi, alle interpretazioni
attoriali, capaci di restituire l’esistenza borderline di Mirko e Manolo (gli
ottimi Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano) con la spontaneità e la naturalezza
degli interpreti di razza. E, se il merito dei giovani autori è quello di
tenere desta l’attenzione con una narrazione che non concede pause alla
tensione scaturita dall’insorgere del male, senza per questo ricorrere alle
forme di spettacolarizzazione tipiche del genere, La terra dell’abbastanza
concede qualcosa in termini di sceneggiatura, latitante quando si tratta –
nella seconda parte del film – di spiegare lo scarto logico che trasforma il
Paradiso in Inferno. Presentato nella sezione “Panorama” del Festival di
Berlino, l’esordio dei fratelli D’Innocenzo è di quelli che vale la pena di
vedere nel buio della sala.
…Non è privo di
difetti, di ridondanze e di scelte un po’ frettolose La terra dell’abbastanza, a partire da un pre-finale opaco e meno a fuoco del resto
del film, ma si tratta di un’opera prima ben più rilevante di quanto possa
apparire a prima vista, perché i gemelli D’Innocenzo hanno uno sguardo e
un’idea ben chiara, tanto del cinema quanto delle umane vicende, e non si
discostano mai dai loro due protagonisti – bravissimi sia Andrea Carpenzano,
già visto in Tutto quello che vuoi di Francesco
Bruni e Il permesso – 48 ore fuori di Claudio
Amendola, che Matteo Olivetti, nato in Inghilterra nel 1990 e qui al suo primo
ruolo di rilievo – che seguono evitando il cliché del pedinamento, sempre più
invasivo nel cinema italiano degli ultimi anni. Non sono cavie di un
esperimento, i loro protagonisti, e non sono neanche insetti da studiare in
un’ottica entomologica. Sono esseri umani, imperfetti e forse persino
imperfettibili, ma vivi. Amano, odiano, uccidono e tremano. In queste pulsioni naturali vive il centro nevralgico de La terra dell’abbastanza, che rifugge dalla ricerca dell’effetto, preferendovi la
naturalezza, come quello di un incontro fugace tra due “orfani di figli” nei
recessi di un bar di periferia.
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