i film di Xavier Dolan sono grandissimi, ormai lui è uno dei grandi del cinema.
i suoi film non ti lasciano mai indifferente, inizi a guardare e sei parte della storia, un osservatore che gioisce (alcune volte) o soffre (quasi sempre) con i suoi personaggi.
guardando il film mi è venuto in mente un libro di David Cooper del 1972, intitolato La morte della famiglia.
le famiglie di Dolan (e non solo), anche in questo film, sono campi di battaglia, dove i deboli devono cedere o fuggire, vivi o morti.
gli attori sono tutti straordinari, quella merda del fratello, quell'infelice della cognata, quella fuori di testa della madre, e Suzanne, la sorella che ha sempre avuto bisogno di Louis.
qualcuno di loro l'abbiamo incontrato tutti nella vita, e questo ci coinvolge oltre il dovuto, oltre il politically correct, e ci coinvolge senza trucchi, né ricatti.
tutti i film di Dolan oscillano fra il bellissimo e il capolavoro, e questo non fa eccezione.
i silenzi di Louis sono (stati) anche i nostri, certe volte, e lo sentiamo come un fratello.
è in poche sale, naturalmente, ma cercatelo, non ve ne pentirete, sono sicuro - Ismaele
i suoi film non ti lasciano mai indifferente, inizi a guardare e sei parte della storia, un osservatore che gioisce (alcune volte) o soffre (quasi sempre) con i suoi personaggi.
guardando il film mi è venuto in mente un libro di David Cooper del 1972, intitolato La morte della famiglia.
le famiglie di Dolan (e non solo), anche in questo film, sono campi di battaglia, dove i deboli devono cedere o fuggire, vivi o morti.
gli attori sono tutti straordinari, quella merda del fratello, quell'infelice della cognata, quella fuori di testa della madre, e Suzanne, la sorella che ha sempre avuto bisogno di Louis.
qualcuno di loro l'abbiamo incontrato tutti nella vita, e questo ci coinvolge oltre il dovuto, oltre il politically correct, e ci coinvolge senza trucchi, né ricatti.
tutti i film di Dolan oscillano fra il bellissimo e il capolavoro, e questo non fa eccezione.
i silenzi di Louis sono (stati) anche i nostri, certe volte, e lo sentiamo come un fratello.
è in poche sale, naturalmente, ma cercatelo, non ve ne pentirete, sono sicuro - Ismaele
…La musica è tutto (dai Blink 182 alle esuberanti sinfonie del compositore di
fiducia Gabriel Yared), i primi piani sono pura erotizzazione della recitazione (mai stucchevole però; come cavolo
fa???), il tempo del presente un incalzante concerto vissuto in prima fila
mentre i flashback nella mente del malaticcio Louis diventano uno struggente viaggio
nella memoria dove capisci che lui si è perso e dove senti che lui vorrebbe
tornare (il fratello lo portava sulle spalle; ora gli vuole spaccare la faccia).
La sorella lo rimprovera perché potevano essere anime gemelle. Il fratello è dilaniato dal complesso di inferiorità. La mamma cerca un equilibrio poetico nella saggezza politica.
La cognata (siamo noi) li guarda atterrita e forse… è l’unica che capisce che il ritornante è un morto che cammina.
Louis tace sempre.
Noi no: “È UN CAPOLAVORO“.
Urlandolo a squarciagola.
La sorella lo rimprovera perché potevano essere anime gemelle. Il fratello è dilaniato dal complesso di inferiorità. La mamma cerca un equilibrio poetico nella saggezza politica.
La cognata (siamo noi) li guarda atterrita e forse… è l’unica che capisce che il ritornante è un morto che cammina.
Louis tace sempre.
Noi no: “È UN CAPOLAVORO“.
Urlandolo a squarciagola.
…Il diritto di poter essere padroni,
per quanto possibile, della propria vita, di condividere la propria morte.
Parlare della propria morte come testimonianza della propria vita.
Il diritto di esprimersi.
Il diritto di poter riassaporare, rivedere e riascoltare i frammenti della propria vita, sparsi ma raccolti. Lontani, ma ancora raggiungibili. Fino al limite estremo.
Il diritto di rivangare non tanto il passato, quanto la memoria di quel passato.
Il desiderio di rivedere la “vecchia casa maltrattata dal tempo”. Ricordi di miseria e tempi duri, ma quando la vita passa davanti, tutta, sapere di aver vissuto in un posto che malgrado tutto è lì, meta e non solo punto di partenza, appartiene alla legge del desiderio di riconciliazione che sgorga.
Nella vecchia casa sono nati i sogni, e Louis avrebbe voluto accarezzarli per l'ultima volta.
Desiderio di riscoperta per chiudere degnamente il cerchio. Desiderio che la testa poggi di nuovo su quel materasso.
Parlare della propria morte come testimonianza della propria vita.
Il diritto di esprimersi.
Il diritto di poter riassaporare, rivedere e riascoltare i frammenti della propria vita, sparsi ma raccolti. Lontani, ma ancora raggiungibili. Fino al limite estremo.
Il diritto di rivangare non tanto il passato, quanto la memoria di quel passato.
Il desiderio di rivedere la “vecchia casa maltrattata dal tempo”. Ricordi di miseria e tempi duri, ma quando la vita passa davanti, tutta, sapere di aver vissuto in un posto che malgrado tutto è lì, meta e non solo punto di partenza, appartiene alla legge del desiderio di riconciliazione che sgorga.
Nella vecchia casa sono nati i sogni, e Louis avrebbe voluto accarezzarli per l'ultima volta.
Desiderio di riscoperta per chiudere degnamente il cerchio. Desiderio che la testa poggi di nuovo su quel materasso.
La vecchia
casa, non ha senso vederla: la brutalità della rinuncia.
Desiderio di avere la possibilità di pronunciarsi, di pronunciare la morte, per spezzare quel tabù condividendo la verità, nuda e semplice, eppur dolorosa, con la propria famiglia, con chi più di chiunque altro ha il diritto e il dovere di sapere e accogliere.
“Che cosa sei venuto a fare”, domanda ripetitiva come una interrogativa subdola. Non c'è tempo per porsi in ascolto per più di una manciata di secondi, si è perso il tempo dell'attesa, del mettere gli altri nelle condizioni di esprimersi secondo i loro tempi, le loro intenzioni, le loro necessità.
La pendola, il tempo scorre, quando sarà il momento giusto?
Le parole circostanziali per introdurre le parole “giuste”, quanta fatica. Scegliere il momento “giusto”, Louis ci ha provato, tre parole da dire e da rispondere, quelle essenziali, a volte quelle per rompere il ghiaccio dell'omertà.
La paura di parlare e di ascoltare, per contro, la paura di sentirsi dire che si muore, come se non lo sapessimo…
Desiderio di avere la possibilità di pronunciarsi, di pronunciare la morte, per spezzare quel tabù condividendo la verità, nuda e semplice, eppur dolorosa, con la propria famiglia, con chi più di chiunque altro ha il diritto e il dovere di sapere e accogliere.
“Che cosa sei venuto a fare”, domanda ripetitiva come una interrogativa subdola. Non c'è tempo per porsi in ascolto per più di una manciata di secondi, si è perso il tempo dell'attesa, del mettere gli altri nelle condizioni di esprimersi secondo i loro tempi, le loro intenzioni, le loro necessità.
La pendola, il tempo scorre, quando sarà il momento giusto?
Le parole circostanziali per introdurre le parole “giuste”, quanta fatica. Scegliere il momento “giusto”, Louis ci ha provato, tre parole da dire e da rispondere, quelle essenziali, a volte quelle per rompere il ghiaccio dell'omertà.
La paura di parlare e di ascoltare, per contro, la paura di sentirsi dire che si muore, come se non lo sapessimo…
…un tipo di cinema che non può che
dividere. Da amare o da odiare. Perché c’è chi non sopporta il concentrato di
narcisismo maniacale che Dolan propone coi suoi protagonisti, un narcisismo che
diventa sempre un concentrato di genialità, di malattia, di autocommiserazione
di chi non si sente mai abbastanza cresciuto o amato. Certo, possiamo vederlo
anche come pura messa in scena teatrale di rapporti conflittuali tra chi è
cresciuto negli anni fluidi di Moby. Ma Dolan, coi suoi già 27 anni, non ci
propone mai solo questo. Pretende di più dai suoi spettatori, dai suoi
personaggi e da se stesso che un bel drammone recitato da attori strepitosi
come Vincent Cassel, Léa Seydoux, Marion Cotillard. Nel ritorno a casa dopo 12
anni di assenza di un geniale autore teatrale malato, Gaspard Ulliel, che cerca
la forza di comunicare la sua imminente fine alla madre svalvolata, Nathalie
Baye, e ai fratelli, leggiamo anche una sorta di auto-messa-in-scena di Dolan e
delle proprie paure dopo tanti film di successo…
…"Juste la fin du monde" è un film che
necessiterebbe di più visioni per poterne cogliere e custodire le tante
sfumature. Alla delicata sensibilità con cui sono ritratti tutti i personaggi
(anche Antoine, alla fine, rivelerà una rimossa fragilità) si accompagnano le
sfumature delle scelte di messa in scena, che Dolan padroneggia sempre più
sicuro, lavorando meglio anche per sottrazione. Le stesse aperture musicali
sono più rare e rarefatte: i "momenti-videoclip" sono diversi, per
tono, rispetto ai film precedenti - abbondano le musiche in minore, e sulle
canzoni pop predominano brani strumentali e strumentazioni classiche.
Anche il tema delle ipocrisie che minacciano l'autenticità è risolto tramite sfumature: i contrasti tra i personaggi non subiscono ridimensionamenti, la trama è quasi bloccata in un'impasse. Se gli equilibri mutano lo fanno gradualmente, senza scossoni. Si procede per variazioni minime.
Tutt'altro che film minore e interlocutorio (come inteso da alcuni), "Juste la fin du monde" aggira il rischio della maniera personale facendo intravedere in quale direzione potrebbe evolvere il cinema di Dolan. Senza segnare radicali cambi di rotta: Dolan non rinnega le sue predilezioni stilistiche, ma le affina, e a livello tematico amplia, matura, approfondisce…
Anche il tema delle ipocrisie che minacciano l'autenticità è risolto tramite sfumature: i contrasti tra i personaggi non subiscono ridimensionamenti, la trama è quasi bloccata in un'impasse. Se gli equilibri mutano lo fanno gradualmente, senza scossoni. Si procede per variazioni minime.
Tutt'altro che film minore e interlocutorio (come inteso da alcuni), "Juste la fin du monde" aggira il rischio della maniera personale facendo intravedere in quale direzione potrebbe evolvere il cinema di Dolan. Senza segnare radicali cambi di rotta: Dolan non rinnega le sue predilezioni stilistiche, ma le affina, e a livello tematico amplia, matura, approfondisce…
…Al lavoro per la prima volta con attori noti, Dolan ne
isola i volti nell’inquadratura e riprende le loro reazioni, che si esprimono
in una struttura campo-controcampo claustrofobica e oppressiva. Questo permette
agli interpreti di costruire le emozioni dei personaggi sfruttando la
micromimica facciale, distribuendo nelle espressioni del volto il loro dissidio
interiore. I visi degli attori intrattengono un fraseggio mimico e verbale dal
ritmo musicale. Così Louis blocca i tratti in una maschera sommessa,
controbilanciata dalle reazioni ferine e incontrollate del fratello maggiore
Antoine (Vincent Cassel) che tratteggia la rabbia originando un universo
espressivo compresso, concentrato in una tensione oculare scandita al tempo
delle battute pronunciate. La Catherine di Marion Cotillard trasforma la
propria fragilità e indecisione di moglie remissiva in un balbettio che è
anzitutto mimico. Lea Seydoux attribuisce alla sorella Suzanne – che conosce
Louis solamente nei racconti familiari, era infatti una bambina quando il
fratello ha lasciato la famiglia – un’instabilità emotiva e un impeto espressi
in uno sguardo tagliente e disperato. Nathalie Baye dona alla madre un’aria
trasognata ed eccentrica, rivelata in un fiume verbale ininterrotto…
…Nelle parti più riuscite par di assistere a un girone
di dannati che si sbranano, si fanno del male fingendosi di amarsi. Ma
l’operazione resta sempre all’esterno dei personaggi e del testo. Dolan mostra
i muscoli facendoci capire quant’è bravo come metteur en scène, ma gli manca un
pensiero davvero forte, un progetto per organizzare la materia che si ritrova
tra le mani. Resta alla fin fine un ragazzino di talento, e sarebbe anche ora
che crescesse. Non è un disastro, Juste la fin du monde, nei momenti più alti è un huis-clos teso e
disturbante al punto giusto, folle e concitato. Dolan mantiene il suo rango
d’autore. Ma è un film-limite oltre cui dovrà reinventarsi e smetterla con
certe astuzie pop che l’han reso tanto amato tra giovani e fashionisti, e
rischiare di più, mettersi in gioco. Il punto di massima fragilità è il pessimo
Gaspard Ulliel, lamentoso e inespressivo, incapace di reggere un film che ruota
intorno a lui (Ulliel è pessimo anche in un altro film visto a Cannes 2016, La danseuse). Mentre gli altri son bravissimi, ovvio, avendo
Dolan chiamato a raccolta il meglio del cinema french-speaking: Vincent Cassel,
Marion Cotillard, Léa Seydoux, Nathalie Baye. Tutti formidabili. Con menzione
speciale per la Cotillard in un ruolo ingrato.
…Juste le fin
du monde è un film claustrofobico che gioca
con i sensi primari dello spettatore, senza riuscire mai a sbarcare nel
postmoderno, o in qualunque altra scelta artistica degna di nota. In contrasto
con chi afferma che certi altri film autoriali siano fin troppo concettuali, è
invece concettualissimo il nuovo film di Dolan (e anche tutto il suo cinema): è
un modo di girare che scava nelle idee e nelle trovate, praticamente un
campionario di immagini che cercano l’angolatura più curiosa, per la più
strampalata delle scene. Fuffa, fumo negli occhi. Ogni scena del film sembra
accontentare uno stato d’animo differente, tradendo l’unicità e l’univocità
ricercata del film stesso, come se potessimo vedere proprio lì, in mezzo alle
immagini, Dolan che sviscera tutto il materiale che gli viene in mente, e si
sfoga senza però mai lasciarsi andare. Ma Juste le fin du monde non è un film né sull’immaginazione,
né su un’eventuale schizofrenia emotiva (che porta in effetti Dolan a usare con
sfacciata noncuranza le musiche più disparate): quello che le immagini vogliono
dire (e si fanno intendere, perché spesso sono facili, schiette, dirette) è che
la vita è, se non per rari sprazzi sognanti, un lento avvicinarsi alla luce (il
finale). Ma, sorvolando sull’eventuale originalità dell’idea (e di tradurla in
un dramma familiare da camera), è davvero così affascinante una divisione così
netta delle parti? Un uso così simbolico e schematico delle scene e delle
sequenze si addice all’idea immersiva di un cinema che vuole a tutti i costi emozionare,
percuotere, destabilizzare con i suoi estremi opposti?...
Grazie per avermi linkato e per il consiglio letterario, fa sempre piacere condividere con voi :)
RispondiEliminaecco chi è David Cooper: https://it.wikipedia.org/wiki/David_Cooper_(psichiatra)
RispondiEliminase il voi è perché ho più di 50 anni va bene sempre il tu, se pensi che siamo in tanti sono solo io, e quindi ritorniamo alla soluzione del tu :)
Ahaha è che a volte leggo Francesco, altre Ismaele. Mettetev.. ehm mettiti d'accordo :) ho appena trovato in libreria La morte della famiglia a 6 euro (5a edizione del '78), grazie ancora!
RispondiEliminada quando ho conosciuto Fernando Pessoa non sono più me stesso...
Elimina"simulacro di me stesso", ho presente
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