una
storia da nascondere, e però è impossibile.
la madre
badessa del convento non riesce a risolvere a suo modo la questione, in ogni
istituzione totale c'è sempre qualcuno che tradisce la volontà dei superiori,
meno male.
attrici
bravissime, hanno già recitato in grandi film, polacchi e non solo (solo un
esempio, la madre badessa è stata la zia di Ida).
dopo Ida un altro grande film con suore, ambientato
in un convento polacco (da recuperare anche il grandissimo Madre Giovanna degli angeli, di Jerzy Kawalerowicz).
un bel
film che, naturalmente, non è facile trovare in sala, ma non vi deluderà,
promesso - Ismaele
ps: cercate solo di non sedervi davanti a una fila di spettatori che quando appare un bambino dice "un bambino!", quando c'è del sangue dice "c'è sangue!" (la fila intera, mica uno), e così via, pensando forse che tutti gli altri spettatori siano non vedenti,
Ci sono film che vedi, ti entrano sotto pelle e non ti lasciano
facilmente nonostante l’assenza di trame avvincenti, scene esplosive e
inquadrature traumatiche. Hai bisogno di metabolizzare e fare tuo un
ricordo che ti accompagnerà per un po’ di tempo. E, in
effetti, Agnus Dei (Les Innocents), il nuovo
lavoro di Anne Fontaine (Two Mothers) infine nei
nostri cinema, è proprio così: è una carezza. E’ una storia
drammatica narrata con poesia tanto nelle parole, sempre calibrate,
quanto nelle inquadrature, sempre gentili.
Eventi durissimi sono alla base dell’esperienza che sta per
vivere Mathilde (Lou de Laâge), il giovane medico francese che risponde alla
richiesta di aiuto di una suora. In un convento isolato la fine del secondo
conflitto mondiale ha portato l’orrore: i soldati russi si sono presi il loro
“premio”. Di quella tragedia non si vede alcun particolare. Le urla soffocate
che si odono provenire dalle piccole celle sono le conseguenze. Conseguenze in
grado di mettere in crisi qualunque donna, a maggior ragione se deve conciliare
la violenza subita con la propria vocazione…
Storie di donne e di sofferenze, di brutalità ed ingiustizie
ai danni di queste per opera di una società prettamente maschilista: in fondo
molto del cinema della valida cineasta Anne Fontaine (Gemma
Bovary la sua ultima e precedente prova) verte su quello, alternando abilmente
i toni del racconto, non sempre ed esclusivamente rappresentativi di un dramma
cupo e inserito in un contesto altamente drammatico come in questo caso…
L’assurdità presente nella realtà supera di gran lunga
l’immaginabile: Agnus Dei lo racconta
con il tocco poetico del cinema, in grado di far convogliare le arti.
Siamo nel 1945 in Polonia, nonostante la seconda
guerra mondiale sia terminata, ne restano strascichi di terrore e
violenza. Le cicatrici e i ricordi tremendi si accompagnano al terrore di una
violenza che sembra non trovare pace. Il conforto e la speranza hanno smarrito
la residenza, perfino la fede vacilla, perché non si trovano giustificazioni…
…Anne Fontaine, che da
sempre racconta storie di donne, supera questa volta la dimensione individuale
per approcciare quella collettiva, non solo perché s'immerge nella vita di
comunità del monastero, con la sua drammaturgia di caratteri differenti,
differenti motivazioni, paure e gerarchie, ma perché, sollevando il velo su una
prassi di guerra tanto atroce quanto purtroppo comune, parla di ciò che non può
essere ignorato da nessuno, nemmeno nel nome del pudore o della presunta
protezione (ed è questo concetto ad essere tradotto, nel film, nella vicenda
tragica della madre superiora).
Lo stile di regia sembra tener presente un'ampia destinazione del messaggio: la storia forte non si traduce mai in immagini forti, la vita della protagonista fuori dalle mura del convento è romanzata a fini narrativi (con qualche forzatura, va detto) e il film si chiude su una nota forse eccessivamente ottimista…
Lo stile di regia sembra tener presente un'ampia destinazione del messaggio: la storia forte non si traduce mai in immagini forti, la vita della protagonista fuori dalle mura del convento è romanzata a fini narrativi (con qualche forzatura, va detto) e il film si chiude su una nota forse eccessivamente ottimista…
…Il film si regge su una fotografia
incantevole, non certo ardita come quella di Ida (con quei tagli d’inquadratura
audacissimi): qui è più formale, ma comunque di grande impatto. La Champetier,
che la dirige, non ha bisogno di presentazioni (Holy motors, Uomini di Dio). Le
attrici sono bravissime; il volto di Suor Maria è un misto tra l’angelico e il
risoluto, poi la solita (Ida) Kulesza, imponente in quel film, autoritaria e
fondamentale perdente anche qui. Sulla protagonista avrei qualche riserva, come
volto, non certo come bravura. Colonna sonora al top con canto gregoriano
preponderante e la stupenda sovrapposizione monodica e melodica che possiamo
ascoltare nella veglia della sorella suicida. Da brividi.
La storia è una storia di guerra. E’ la
solita e spesso propagandistica storia dove quello che macroscopicamente resta
delle gesta degli eserciti “liberatori” è il loro eroismo. Lo sciame di
microscopiche ma diffuse nefandezze che si sono portati appresso diviene
taciuto o secondario e, tendenzialmente, non riempie i libri di storia; perché
la guerra è un vivaio di nefandezze: dei vinti e dei vincitori. La guerra è una
delle dannazioni dell’umanità tutta, incapace di trovare gli strumenti
alternativi per proporre delle idee o far valere i diritti di un popolo o di
una minoranza se non attraverso l’istigazione all’odio troppo spesso mascherato
da valori o ideali di facciata, ancora più spesso da meri interessi economici…
…Lontano dal promuovere l'arroccamento
maligno dei propri principi morali (il colpo di scena finale spiazza più dello
stesso antefatto, mostrando come la paura di compromettersi possa essere nociva
e come una regola seguita senza l'aiuto della riflessione mostri tutto il suo
lato maligno) il film mette in luce però l'importanza di uno sforzo di fede,
non necessariamente orientato verso la confessione religiosa, quanto verso il
ritrovamento di un orizzonte di valori che appare sempre più sbiadito e fragile
nella società occidentale contemporanea: la giovane Mathilde è un esempio
positivo di ciò.
L'opera è inoltre destinata a raccogliere consensi anche sotto diversi aspetti tecnici su cui spiccano la fotografia di Caroline Champetier, che contribuisce in maniera preminente a creare il clima di sofferenza e di instabilità che la pellicola evoca nelle sue tematiche, e il trittico di attrici protagoniste: Lou de Laage, Agata Buzek e Agata Kulesza ai cui volti la regia lascia spesso un compito principale nell'esternare emozioni e stati d'animo.
Peccato che a un certo punto il ritmo dell'azione inizi a peccare di pesantezza, adoperando una dilatazione dei tempi che difficilmente impedirà allo spettatore di arrivare alla conclusione senza concedersi qualche sbadiglio o qualche occhiata all'orologio.
L'opera è inoltre destinata a raccogliere consensi anche sotto diversi aspetti tecnici su cui spiccano la fotografia di Caroline Champetier, che contribuisce in maniera preminente a creare il clima di sofferenza e di instabilità che la pellicola evoca nelle sue tematiche, e il trittico di attrici protagoniste: Lou de Laage, Agata Buzek e Agata Kulesza ai cui volti la regia lascia spesso un compito principale nell'esternare emozioni e stati d'animo.
Peccato che a un certo punto il ritmo dell'azione inizi a peccare di pesantezza, adoperando una dilatazione dei tempi che difficilmente impedirà allo spettatore di arrivare alla conclusione senza concedersi qualche sbadiglio o qualche occhiata all'orologio.
…È quasi mirabile l’equilibrio in cui
riesce a tenersi Agnus Dei nel suo voler raccontare
la storia di un trauma senza traumatizzare, ritagliandosi momenti distensivi
quando occorre, concentrandosi sovente sul volto di porcellana e sugli occhioni
sgranati della sua protagonista. Si resta così in uno stato di sospensione, in
attesa di qualcosa che faccia fuoriuscire il film dagli schemi arcinoti di un
valido prodotto in costume sulla seconda guerra mondiale, quale in ogni caso Agnus Dei è, e non vi è dubbio che con la sua parabola
seriosa ed edificante, riuscirà a conquistare una buona fetta di pubblico. Quel
qualcosa di sorprendente ogni tanto fa capolino, va detto, come ad esempio
accade in quell’unica inquadratura che riesce a restituirci il senso del dramma
collettivo in cui versa la Polonia: quella in cui un gruppetto di bambini
saltella giocoso su una bara abbandonata di fronte all’ospedale. Si tratta però
di un brevissimo istante all’interno della durata del film, subito soffocato
dalla regista in un andamento narrativo che si limita ad alternare la presenza
della protagonista nell’ospedale francese con quella, via via sempre più
preponderante, nel convento.
Eppure qualcosa è davvero sfuggito al
controllo della Fontaine in Agnus Dei e questo
qualcosa è Vincent Macaigne. Esponente di spicco della commedia drammatica francese
contemporanea, con la sua fisicità nevrotica e i suoi ruoli perennemente in
bilico tra normalità e follia (si vedano i suoi exploit in La bataille de Solférino o in 2 automnes 3 hivers), Macaigne è qui una scheggia
impazzita solo parzialmente imbrigliata dal ruolo del medico-amante. Quel suo
monologare a tratti delirante – viene da pensare che le sue linee di dialogo
siano, almeno in parte, frutto di improvvisazione – fa di Samuel un personaggio
contraddittorio, imprevedibile, e proprio per questo umanissimo, molto più
della protagonista e delle sventurate sorelle. E in tal senso, il confronto con
l’interpretazione della collega Lou de Laâge è esemplare: da un lato abbiamo
lei che cammina in divisa nel chiostro del convento con le mani in tasca
e la faccia da dura, dall’altro abbiamo Macaigne che dà corpo al suo ruolo con
alte dosi di ironia, esagitazione e disincanto.
Sarebbe bello poter dire che la sola forza
della performance recitativa di Macaigne riesca a scardinare l’aulica
messinscena di questo dramma storico così imbrigliato nel suo calligrafismo, ma
naturalmente non è così. Noi pubblico “borghese” saremo scandalizzati in
un’altra occasione, o forse ci basterà leggere la sinossi del film per
percepire il giusto sdegno per la sua storia vera.
…L’approche
semble-t-elle simple qu’elle se révèle complexe. La lecture féministe est-elle
évidente qu’elle se développe en corolle. Car si la foi de Madeleine en son
pragmatisme est pour elle gage de liberté, la foi qu’elle découvre l’est
peut-être tout autant. Les mots des soeurs résonnent d’autant plus en elle
qu’ils se veulent rares et donc précieux. «Vingt-quatre heures de doutes, une
minute d’espérance » ; « derrière toute joie, il y a la
Croix »… Les dialogues se veulent d’autant plus percutent qu’ils
transcendent la personnalité et l’évolution des personnages. Enfin
l’universalité du propos se dessine tant à travers la situation
« mère » abordée – le viol comme arme de domination et de guerre –
qu’à travers les pluralité des portraits de femmes déterminées par leurs choix…
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