mercoledì 21 maggio 2014

In grazia di Dio – Edoardo Winspeare

sembra un'opera prima riuscita, poi ho visto il nome del regista.
non ci sono attori famosi, non c'è un centro forte nella storia, ci sono tante piccole storie che sono legate fra loro, e alla fine tutto si tiene, il film è realistico, senza pesantezze, è leggero e ci sono tanti fili che non sempre terminano.
alla fine le donne della casa che si fanno forza e solidarizzano insieme sembra vogliano dire che solo insieme si va avanti, un messaggio di solidarietà per affrontare il futuro.
non sarà un capolavoro, ma sono due ore ben spese, e al cinema è meglio, se si riesce a incrociare una copia - Ismaele





Non c'è personaggio che giunga a quella che comunemente chiameremmo "una chiusa", non c'è sottotrama che si possa dire realmente compiuta, nè carattere che subisca una reale evoluzione, tutto è in un continuo divenire e In grazia di Dio sa suggerire che questo continuo mutare non si ferma con la fine del film. E sebbene il "ritorno alla natura" non sia la più sofisticata delle riflessioni sul contemporaneo (c'è più d'un insistente riferimento all'attualità, dall'audio molto alto e molto "entrante" dei notiziari fino ai riferimenti ad Equitalia) è indubbio che il modo che Winspeare ha di guardare e far guardare questa regressione che diventa evoluzione è contagioso. 
È questo probabilmente il cinema più complesso da fare oggi, quello che molti cineasti europei, in una maniera o nell'altra, stanno affrontando cercando di superare le parabole narrative convenzionali senza rinunciare ad una forma semplice (e quindi classica) del racconto. Forse l'unico cinema in grado di annullare le divisioni ideologiche e le banali posizioni di buono o cattivo, bene e male, per giungere a rappresentare il reale per com'è, accettandone la complessità invece di semplificarlo per renderlo comprensibile. In grazia di Dio è un buon esempio di questo nonchè un buon film in assoluto.

Con uno sguardo semplice, davvero pari a quello dei narratori di storie classiche, Winspeare dipinge quadri agresti, in cui la bellezza riluce e si confonde con la stessa terra e con il colore dei suoi frutti. I luoghi sono abitati dalla trasparenza di figure che si muovono nella lentezza tipica della vita dei campi, dilatati, quasi senza tempo. In questa parte di terra il senso religioso è altissimo, divino, sebbene della religione, anche in questo film sia messa in bella mostra il suo retaggio culturale popolare. Non proprio positivo. E’ bellezza l’idea della incompiutezza, un rischio che il regista si assume, visto che, alla fine del film, nessuna esistenza si risolve, si compie davvero: tutto è un continuo divenire, allo stesso modo del ciclo naturale della vita della natura, compresa quella umana.
Il film di Winspeare emoziona, perché tutto il cast, ha potuto sperimentare quello stato di grazia che è tipico di coloro che “ci mettono il cuore quando fanno le cose”, parole che si esprimono nello stesso film. Ma che Winspeare fa diventare l’essenza di una vita, dedicata al cinema che crede nel cambiamento delle nostre miserie.

Non c'è dubbio che, influenzato dagli ultimi lavori di Malick, anche Winspeare adatti il suo cinema alla tendenza minimalista di tanto cinema attuale, ma ciò non accade mai spontaneamente: l'opera, infatti, forza il racconto per produrre uno stile, senza che nessun personaggio maturi realmente, che si creino sottotrame, e il riferimento ad Equitalia appare pretestuoso, quanto non immotivato. Presunzione di forma, dunque, ma non giustificata dal progetto: per cercare di rappresentare il reale così come esso appare, purtroppo, occorre mistificarlo attraverso una dimensione epica. Superare il classicismo narrativo cercando di assecondare un racconto con una forma elementare richiedeva una sceneggiatura forte: l'assenza di uno script degno di nota, al contrario, e la mancanza di un tema centrale universale, invece, rendono questo film un' inutile visione, che nulla aggiunge al percorso filmico dell'autore nato a Klagenfurt. Neppure le musiche vibrano di nuovo: chitarre troppo ascoltate, suoni insistenti, voci di vento come in un film di Franco Piavoli, amplificano il senso di poco coinvolgimento dello spettatore, regalandoci una pellicola fredda e banale. Delusione gigantesca, quindi, perché poco attesa. Peccato!

Il regista Edoardo Winspeare non vuole drammatizzare, non vuole educare, denunciare. Racconta e basta. C’è il sole meridionale, c’è la pietra. Tricase, Corsano, Leuca. Ci sono parole, le salentine sonorità di Grecia e Bisanzio. Ci sono debiti, e ancora debiti, fabbriche che chiudono, la casa svenduta, pensioni saccheggiate che fanno vivere figli e nipoti. L’onestà pagata a un prezzo d’usura.

…A raccontarlo, il film più sembrare schematico e retorico (idem a leggere le note di regia delpressbook). Niente di più lontano dal vero. Lo sviluppo non banalizza alcuna delle suddette difficoltà sociali né semplifica le tensioni relazionali: i caratteri spigolosi non vengono certo smussati.
In crescendo, e malgrado qualche ridondanza (la durata, anomala per analoghi film italiani, di 127 minuti è però indice di autonomia produttiva e di coraggio), Winspeare firma un affresco di notevole senso del realismo e sensibilità antropologica…
da qui

Nessun commento:

Posta un commento