il suo pentimento non era contro la Mafia, ma contro "quella" mafia.
Bellocchio riesce a tenere attaccati alla poltrona del cinema gli spettatori, che non staccano gli occhi dallo schermo (a parte quei minorati che vanno al cinema a controllare i messaggi nello smartphone, poveri infelici) per due ore e mezzo.
e Pierfrancesco Favino è grandissimo, in un film di serie A da non perdere, al cinema, se vi volete bene, è un film spettacolare e d'impegno civile insieme, indimenticabile.
buona e bellissima visione - Ismaele
…Le sequenze del
processo rendono alla perfezione la situazione surreale e quasi pornografica
dei silenzi e delle sceneggiate mafiose. Scene lunghe che raccontano il circo a
cui giudici, giornalisti, pubblici ministeri, avvocati hanno assistito.
Ma il momento più inquietante di tutti
rimane quello che ha per protagonista il processo ad Andreotti, che non a caso
Bellocchio mette in scena in mutande (nel senso letterale, la prima
volta che compare si sta facendo realizzare un abito e quindi è in desabille).
Ma questa storia ce l’ha già raccontata Paolo Sorrentino, e sappiamo tutti come
va a finire.
Il Traditore alla fine è
anche un film filosofico, un film sulla morte, la morte che arriva per tutti,
la morte che arriva e basta. Morire è un po’ come giocare al gioco delle sedie.
Morire nel proprio letto è la massima aspirazione, la vera vittoria. Vittoria
che alla fine Buscetta otterrà, ormai vecchio, malato, sempre più ossessionato
da una vendetta in arrivo, nella sua casa a Miami.
In un’intervista Bellocchio ha dichiarato che questo film ha rappresentato
una novità per lui, nel senso che è il primo film in cui in cui qualche modo
non parla di sé, in cui non ha messo se stesso: occorre riconoscere che, forse
grazie a quest’alterità rispetto ad un personaggio assolutamente diverso,
Bellocchio ci consegna uno scioccante capolavoro. Di questa sua terza, felice
stagione creativa (dopo l’esplosivo esordio con “I pugni in tasca”, la dubbia
fase “psicoanalitica” e il ritorno ad una nuova poetica cinematografica con
“Buongiorno notte”), “Il traditore” è senz’altro il più potente, il più forte,
il più vero e al tempo stesso fantastico. Cronaca, cronaca italiana piuttosto
nota a tutti, che nelle mani del regista, diventa poesia. Tra le molte che si
possono scegliere, in un film lineare come sono i film biografici ma complesso
per la continua incursione della fantasia nel reale, le due angolature che mi
paiono più psicologicamente, e psicoanaliticamente pregnanti, sono la
personalità di Tommaso Buscetta, e il suo rapporto col giudice Falcone…
… Se non proprio epico, certamente
poetico è il Buscetta di Bellocchio: un uomo nato nella povertà, con un destino
segnato, che riesce ad incidere su quel destino sollecitato dal comprendere lo
spirito del tempo e grazie ad un incontro ‘mutativo’, l’incontro con un simile
nella differenza, con cui “gli piace parlare, discutere, anche litigare….mi
piaceva la sua testa”, dirà in un’intervista.
Il film percorre tutta la parabola del personaggio fino alla fine, seguendo parallelamente i fatti storici e il destino di quelli che ha denunciato, mantenendo una tensione continua quasi come in un giallo. Eppure non si aspetta nessun colpevole: è la tensione che deriva sia dalla potenza scenica, sia dal contatto empatico che si stabilisce con la mente di un uomo di cui percepiamo, nelle pieghe, tutta la sofferenza, la dignità, la confusione, il rimorso, il rimpianto di non aver avuto un destino diverso (mi spiace non avere cultura, dirà all’atto finale del processo). Comprendiamo infine, nei pochi istanti finali in cui “si confrontano”, l’assoluta differenza con Totò Riina: Buscetta è molto più simile a Falcone che al suo rivale Riina. A differenziarli non è solo l’appartenenza a due clan diversi, l’uno più ‘storico’, l’altro più spietato, ma una precisa psicologia nel rapporto col principio di piacere: Riina ne è totalmente privo, non si godette niente della fortuna accumulata, mente a Buscetta, fino ad un certo punto, piaceva vivere.
Attorniati dalla moltitudine, e costantemente in pericolo, Buscetta e Falcone sono due uomini soli. Il film rimanda perfettamente, nel canto brasiliano sulla “soledad”, il senso profondo di una solitudine irriducibile, insanabile. Soli nella Storia, ma autenticamente insieme nel loro incontro.
Il film percorre tutta la parabola del personaggio fino alla fine, seguendo parallelamente i fatti storici e il destino di quelli che ha denunciato, mantenendo una tensione continua quasi come in un giallo. Eppure non si aspetta nessun colpevole: è la tensione che deriva sia dalla potenza scenica, sia dal contatto empatico che si stabilisce con la mente di un uomo di cui percepiamo, nelle pieghe, tutta la sofferenza, la dignità, la confusione, il rimorso, il rimpianto di non aver avuto un destino diverso (mi spiace non avere cultura, dirà all’atto finale del processo). Comprendiamo infine, nei pochi istanti finali in cui “si confrontano”, l’assoluta differenza con Totò Riina: Buscetta è molto più simile a Falcone che al suo rivale Riina. A differenziarli non è solo l’appartenenza a due clan diversi, l’uno più ‘storico’, l’altro più spietato, ma una precisa psicologia nel rapporto col principio di piacere: Riina ne è totalmente privo, non si godette niente della fortuna accumulata, mente a Buscetta, fino ad un certo punto, piaceva vivere.
Attorniati dalla moltitudine, e costantemente in pericolo, Buscetta e Falcone sono due uomini soli. Il film rimanda perfettamente, nel canto brasiliano sulla “soledad”, il senso profondo di una solitudine irriducibile, insanabile. Soli nella Storia, ma autenticamente insieme nel loro incontro.
…L'interpretazione di Pierfrancesco Favino è eccellente e risulta l'elemento di
maggiore coesione emotiva dell'intero film, con l'attore italiano che
conferisce una statura da personaggio tragico e dolente al suo Buscetta; buone
anche le partecipazioni di Luigi Lo Cascio, Fabrizio Ferracane e Fausto Russo
Alesi nella parte del giudice Falcone. Qui Bellocchio non eccede in virtuosismi
registici, a differenza delle sue opere meno riuscite, mantiene intatto il
gusto della composizione figurativa che aveva dato i massimi risultati fra le
sue opere recenti in "L'ora di religione" o in "Vincere",
forse pretende un pò troppo dallo spettatore in termini di durata. La critica
anglofona a Cannes non è andata in visibilio, ma in compenso il film è stato
venduto in molti paesi e alla fine della proiezione ci sono stati 13 minuti di
applausi; io avrei dato almeno un premio a Favino, magari in ex-aequo con
Antonio Banderas.
L'apertura è degna del maestro, una gran festa da ballo dalle cupe movenze, con cui le "famiglie" mafiose siglano un effimero accordo: è il 15 luglio 1980, Santa Rosalia. Dalla splendida sequenza, che richiama tanto "Il Gattopardo" di Visconti che "Il Padrino" di Coppola, prende avvio la vicenda: Buscetta sente che la pax mafiosa non durerà, che il gigantesco business della droga sconvolgerà il suo mondo, che un'immane tragedia personale e familiare dalle sfumature quasi scespiriane incombe sui di lui…
da qui
…Non
è affatto un agiografia, e del resto lo si capisce fin dal titolo. Bellocchio "usa" Buscetta come pretesto per
raccontare un pezzo difficile di storia italiana, in un paese che non ha mai
fatto i conti fino in fondo con il proprio passato (con la mafia, con il
terrorismo, con il fascismo...) ben evidenziando le lunghe ombre e i troppi
segreti irrisolti della nostra democrazia. Buscetta è una persona
spregevole e sa di esserlo, ma è ben consapevole di far parte di un
"sistema" che produce mostri per sua natura, per il lassismo delle
istituzioni e per il marcio della sua classe dirigente (non a caso nel film
viene riportata fedelmente la celebre frase di Falcone "ho più paura dello Stato
che della mafia...")…