Mary è uscita di galera giusto per poter fare la damigella di matrimonio a una sua amica. ma Mary è troppo grezza per un compito così diplomatico. ed è destinata a stare sola e triste, vive con la mamma e la nonna, conosce per fortuna una ragazza che non la disprezza. prova a metterti nei panni di Mary e a sentirti rifiutata da tutti o quasi. un'opera prima davvero di valore, da non perdere - Ismaele
…il merito del film è
quello di non voler raccontare né una storia di ribellione né una
parabola di normalizzazione. Ma bensì, come si diceva, il passaggio
verso la maturità. Che per Mary significa fare i conti con se stessa prima che
con gli altri. Significa confrontarsi con i cambiamenti senza pensare
necessariamente che siano ostacoli, trappole o insidie che le vengono lanciate
addosso. E anche quando gli altri sembrano non capirla, respingerla,
abbandonarla lentamente la ragazza si scrolla di dosso la rabbia e l’avversione
per ciò che non va e non è come dice lei. Diventare grandi significa
capire che le persone cambiano e se non ci somigliano più vanno
semplicemente lasciate andare e comprese per quello che sono: anche quando la
tua famiglia non ti protegge più dal mondo esterno, quando le persone con cui
sei cresciuto non fanno altro che giudicarti e quando persino la tua migliore
amica è diventata una vera stronza…
Il fascino di Mary è
innegabile in questo ritratto irlandese di un passaggio complicato dalla giovinezza
all’età adulta. Mary è stata appena rilasciata dopo sei mesi di
carcere per una rissa scatenata da ubriaca in un bar. Tornata a casa, tutto e
tutti sono cambiati. La sua migliore amica, Charlene, sta per
sposarsi e Mary sarà la damigella d’onore. Quando Charlene le rifiuta un invito
per due al matrimonio, dicendole che tanto non troverà qualcuno con cui andare,
Mary decide di dimostrarle che sbaglia… A date for Mad Mary è
una storia al contempo dura e tenera sull’amicizia, sul primo amore e sull’andare
avanti.
a guerra non ancora finita riaffiorano le storie indecenti successe in quel piccolo villaggio. basta l'arrivo di due sconosciuti per far scoppiare storie di denunce furti e lager. in un bianco e nero splendido la resa dei conti, soffia un'aria da western. non perdetevelo, non vi deluderà - Ismaele
…La fotografia di Elemér Ragályi regala al film una veste
raffinata e glaciale, dove il bianco e il nero sono definiti con una decisione
che lascia poco spazio alle sfumature. Nelle inquadrature, sempre ben studiate,
il regista e il suo entourage non perdono mai il controllo della narrazione che
procede scandita sulle lancette dell’orologio. Come in una tragedia greca, si
conserva l’unità di azione, tempo e luogo lasciando che sia il coro a
raccontare tutto ciò che è avvenuto prima dei titoli di testa.
1945 fa parte di un cinema che non racconta, ma mostra gli
effetti di una catastrofe e i segni che lascia sui superstiti. Gli autori
Ferenc Török e Gábor T. Szántó si dedicano a uno spaccato di microstoria
attraverso cui costruire un’attuale coscienza politica e lanciano un
appello alla presa collettiva di posizione e all’assunzione di responsabilità
come patrimonio individuale di ogni cittadino. L’indifferenza è sempre dietro
l’angolo, ma film come 1945 sono secchiate d’acqua gelida per chi
crede che basti coltivare il proprio orticello per potersi dire brave
persone.
…La Shoah vista dalla
parte di chi ha denunciato, tradito, rubato. Un taglio poco praticato finora al
cinema, e tocca a un altro giovane regista ungherese, dopo il Laszlo Nemes
di Il figlio di Saul, riprendere e riscrivere in parte il
paradigma della rappresentazione della Shoah. Anche se qui non siamo al livello
di Nemes. Nella sua prima parte 1945 stenta
parecchio, è confuso e indeciso sulla pista narrativa da imboccare, affolla
disordinatamente troppi personaggi, oltretutto con un montaggio non
impeccabile. Ma è un film perturbante, vivaddio, che osa e sbanda, e però ti
lascia un segno addosso. E quella campagna ungherese percorsa dall’avidità,
dalla rapacità, dalle miserie umane ricorda non solo il più livido e sconsolato
Bela Tarr ma anche, soprattutto, altri film del passato sull’Olocausto e
sull’antisemitismo nell’Europa centrale, film girati nello stesso cupo bianco e
nero, negli stessi paesaggi e ambienti polverosi e soffocati: il cecoslovacco Il negozio al corso (allora c’era la Cecoslovacchia)
e Il processo di Georg Wilhelm Pabst. E quando vedi –
rivedi – i bravi contadini del villaggio raggiungere minacciosi con i forconi i
due misteriosi ebrei pensi ai pogrom, a quell’orrendo rito sacrificale che per
secoli ha infettato quei paesi, e che forse ancora continua. E come i fa a non
pensare all’Ungheria di oggi, di adesso, con i suoi nazionalismi risorti e le
chiusure identitarie e gli aroccamenti, con i suoi rigurgiti antisemiti? Si
pensi solo agli attacchi continui a George Soros, di radici ebraico-magiare.
…La struttura classica del
film conferisce un’aura di solenne tragicità alla narrazione, che procede a
fasi alterne. Alla frenetica situazione vissuta in città fa da contraltare
la ieratica e taciturna processione dei due ebrei. Il
panico scatenato dalla presenza di queste sconosciute figure fa riemergere
segreti e menzogne, mentre si palesa inequivocabilmente la colpa e la complicità degli abitanti nella
deportazione dei propri concittadini. In questo psicologico gioco al massacro
si fanno importanti i dettagli di 1945, ai quali Ferenc Török attribuisce abilmente dei suggestivi
espedienti narrativi. Le posate d’argento nascoste in fretta e furia, i mobili
semplici ma raffinati, la radio che annuncia i giochi di potere dei partiti che
si contendono l’Ungheria. Tutto acquista un valore simbolico, mentre
la tensione sale fino al fatidico incrocio: un
piccolo barlume di speranza per quei pochi personaggi ritenuti meritevoli.
…Sfruttando
ancora una volta i topos del western, Török ci presenta da una parte i ladri
della refurtiva, ovvero gli abitanti del villaggio, e dall’altra gli
appartenenti all’ordine e alla giustizia, coloro che hanno perduto tutto, gli
ebrei. Ma a differenza di un film con John Wayne, questi ultimi non sono
pistoleri che tentano di risolvere i loro problemi adoperando l’arma della
vendetta, bensì essi fungono come da espediente narrativo per dipanare la
matassa di una storia che, come in un thriller, tesse i fili
dell’incertezza e della suspense, verso una lenta e sempre più decisa
risoluzione. Basta il loro incedere sicuro e gravoso, la loro presenza muta e
solenne, a rompere l’equilibrio di un villaggio, a farne fuoriuscire, come da
un inconscio collettivo, gli sbagli ed i sensi di colpa…
Rainer Werner Fassbinder gira in pochi giorni un gioiellino, un film sul cinema e i suoi protagonisti. ci sono dinamiche relazionali e umane che condizionano la lavorazione del film, ottimi attori, in ptimis Lou Castel, ottime musiche, insomma un film che non lascia indifferenti, se uno inizia a vederlo. appare anche Rainer Werner Fassbinder, sempre con la sigaretta accesa. buona visione - Ismaele
…Con la creazione dell'Antiteater, Fassbinder immaginava di
poter dar vita a un movimento e un gruppo autonomi e liberi da qualsiasi schema
imposto dalle "regole" del cinema e produrre un'arte in modo
democratico.
Poi si accorse di aver creato pellicole, in 5 anni, che avevano disatteso in
qualche maniera questa volontà.
La sua era stata solo una chimera, un ideale destinato a scontrarsi con la
realtà. Non gli rimase altro che fare i conti con sé stesso, girando questo
"Otto e mezzo" sbiadito, non sempre lucido, sofferto e un
po' autoreferenziale.
Il nocciolo del film, la sua equivocità e il suo
carisma stanno in questa antinomia: riscontrare che un insieme di esseri umani
gretti, sfrenati, irritabili e prepotenti è nella condizione, grazie
all'apporto e al comando di un solo regista, di generare qualcosa di
completamente difforme e contrario al proprio modo di essere.
Il fallimento esistenziale dei singoli può essere conglobato e rinnovato nel
loro inverso grazie al cinema, "puttana santa" per eccellenza.
Omaggiato dalle musiche di Peer Raben, Gaetano
Donizetti, Elvis Presley, Ray Charles e Leonhard Cohen, Fassbinder tesse una
specie di "Morte a Ischia" indolente e decadente. Anche se una
didascalia dal "Tonio Kroger" di Thomas Mann rivelerà un
desiderio di cambiamento:
"E io ti dico che sono stufo di ritrarre la natura umana senza
parteciparvi"…
È Fassbinder, ci mancherebbe anche di perderlo.
Un Fassbinder aurorale, anno 1971, molto prima del gran successo di Il matrimonio di Maria Braun, ma già autore
enorme e smisurato. Una troupe sta girando un film a Sorrento. Però mancano i
soldi, la tensione sale, ci si sbrana tra colleghi nel chiuso dell’albergo.
Quasi una citazione del magnifico, indimenticabile Disprezzo di Godard
(quello era ambientato a Capri, poco lontano) e un’anticipazione del miglior
film di sempre di Wim Wenders, Lo stato delle cose (che WW abbia un po’ copiato?). Con Lou Castel, e già
questo lo rende imprescindibile, e poi Hanna Schygulla, Margarethe von Trotta,
Eddie Constantine, Marcella Michelangeli, lo stesso Fassbinder. Per un cinefilo
una sfilza di nomi che è un’emozione. Ah sì, dimenticavo: la puttana santa del
titolo è il cinema. Also sprach Fassbinder.
This whore of a film is
a film within a film about making a film the avant-garde way, perhaps in a more
brutal way than how Warhol worked at the Factory. It could be construed as the
rabid 25-year-old Rainer Werner Fassbinder's more amusing and brutal version of
Godard's "Contempt," as it supposedly tells it accurately about
Fassbinder's bad experiences shooting Whity in Spain. There's a madness, a
serpentine sense of movement, a chaotic despair and self-indulgence to the
fascinating plotless film, that makes it an indescribable film experience with
too many characters to keep track of and not much to draw on to try and piece
things together without being an insider…
…Per tutto il film aleggia un'atmosfera
di disfacimento, un vuoto pneumatico che avvolge tutti i personaggi; Fassbinder
descrive un mondo sfatto, privo di volontà o voglie, in cui non ci sono ideali
(il tema politico alla base del film che Jeff e soci girano è solo un
pretesto); tutti i personaggi si muovono come al rallentatore, persi nelle loro
manie e nelle piccole voglie; tutti sono schiavi dell'attrazione reciproca, che
li porta a soffrire e a piangere, a desiderare più partner come se niente fosse
(Jeff, ma anche il divo Eddie Constantine, che interpreta sé stesso), come a
colmare il vuoto esistenziale che si portano dietro; e l'omosessualità,
all'epoca ancora un tabù nel cinema, viene ritratta dall'autore in modo
spontaneo, senza sensazionalismi: l'attrazione tra Jeff e Ricky e tra gli altri
membri della troupe viene messa in scena in modo diretto, candido, senza
cattiveria né voglia di stupire, atteggiamento che, in futuro, farà la fortuna
dell'autore…
il film inizia con una bambina, Lucie, che fugge dall'orrore come un'altra bambina, quella volta vietnamita.
il film è doloroso e inquietante, pieno di colpi di scena che danno benzina alla storia, quando sembra ormai arrivata a una fine, ecco che riparte, lasciando senza parole.
mi ha ricordato un film, del tutto diverso, con un'ambientazione, un'aria, una tensione, quel film era, ed è, 13 Tzameti (di Gela Babluani) e magari poterbbe anche essere, mutatis mutandis, Kill List, di Ben Weathley, c'è sempre qualcuno che organizza tutta la storia, è uno è un oggetto del teatrino di qualcun altro.
Martyrs è film impossibile da raccontare, qualsiasi racconto sarà molto meno forte e avvincente della visione del film.
il film forse non è per tutti, naturalmente, trasuda violenza in ogni scena, violenza mai inutile, e sempre funzionale a una sceneggiatura straordinaria.
non perdetevi questo film, soffrirete come raramente vi succede, al cinema, ma non ve ne pentirete.
buona visione - Ismaele
.
…La particolarità del film di Laugier (anche autore della
sceneggiatura) risiede nel riuscire a svoltare velocemente ogni volta che ci si
ritrova dinanzi ad un vicolo cieco. La sua versatilità nel mutare l'atmosfera
orrorifica è tanto eccessiva quanto originale. Se la prima parte sembra essere
una sanguinaria spedizione punitiva (sulla falsariga di Old Boy),
la seconda parte capovolge completamente le regole del gioco, avvolgendo di
luce nera una simbolica tematica sul "mostro (dis)umano". Ci si
ritrova in un abisso di dolore ancestrale che parte in schiaffi e termina in
scuoiamenti completi. Flashback improvvisi e dissolvenze in nero sostengono la
struttura incalzante della storia mentre gli scatti fulminei della mdp sono
abilissimi a tenere sempre sott'occhio i primissimi piani delle due brave
protagoniste.
Insomma, "Martyrs" è un film che
raggiunge a pieno il suo obiettivo: quello di far paura. Paura che filtra tra
famiglie apparentemente tranquille e tra sette di
sperimentatori mistici. Paura che filtra sempre e comunque dall'uomo.
…Il film di Pascal Laugier richiede uno
spettatore preparato: avvicinarsi a Martyrs con gli stessi occhi che potrebbero sollazzarsi di
fronte alla mostra delle atrocità dei già citati film di Eli Roth o dei vari
prodotti dozzinali che invadono il mercato estivo nel nostro paese,
equivarrebbe a compiere un errore strategico tutt’altro che trascurabile.
Laddove molto del panorama orrorifico contemporaneo, soprattutto di marca
statunitense, sembra soffrire spesso del perseguimento di un codice di
autocensura perfino castrante nella sua standardizzazione – e non si parla solo
di un’edulcorazione di ciò che viene mostrato, ma più che altro del modo in cui
si decide di mostrarlo – la pellicola di Laugier azzanna al collo lo
spettatore, senza concedergli un attimo di tregua. Un gioco al massacro che
diventa, nel crescendo etico ed estetico del film, una sfida aperta alle
convenzioni del genere, in una spinta verso l’alto che non ha paura di mostrare
le sue derive più materialmente basse. Un pugno allo stomaco duro e senza compromessi che
sconvolgeva sul grande schermo e mantiene intatta tutta la sua lucida eversione
filosofica anche nel supporto video…
1) Se analizziamo la scena, possiamo osservare
numerosi dettagli “minori” che aiutano a rendere il significato finale più
aperto e misterioso possibile (spiegheremo poi perchè): la società che si
occupa delle martirizzazioni è principalmente composta da anziani, dunque
persone vicine alla morte e, in questo caso, ossessionate dallo scoprire cosa
li attende “dopo”, nell’Altro Mondo. La stessa leader Mademoiselle, quando
nella stanza si toglie trucco e parrucco, sembra dimostrare i sintomi
fisici di una qualche malattia terminale (dunque l’atto del suicidio assume una
notevole ambiguità). Quando Anna sussurra a Mademoiselle le inaudibili parole
su cosa ci sia nell’altro mondo, il viso dell’anziana non sembra terrorizzato o
felice, piuttosto sorpreso (ma non felice né deluso, quasi indifferente). Altro
carattere ambiguo. La stessa estasi di Anna suggerisce che ci sia
effettivamente qualcosa, ma non si capisce bene cosa (la luce in fondo al
tunnel? Dio? il dolore l’ha resa silenziosamente folle e in preda ad
allucinazioni?). Tutta la scena nella stanza di Mademoiselle avviene nella più
completa freddezza possibile: la donna non lascia trasparire quasi nessun
sentimento. E il livello di voluta ambiguità sale ancora. L’idea della
sceneggiatore è geniale, poichè insegue la scelta di rinunciare ad inutili
spiegoni filosofico-religiosi (sarebbero stati fuori luogo e pretenziosi, visto
il clima dell’intero film) a favore in una costruzione ambigua che si,
suggerisce una risposta all’eterno quesito “Cosa ci aspetta dopo la Morte?”,
una risposta “precisa, che non lascia spazio ad interpretazione” (citando
Mademoiselle), ma evita di caricarsi sulle spalle l’arduo compito di spiegarla.
Lascia che sia il pubblico a fare congetture, come è giusto che sia visto che
ognuno ha il suo credo e la sua fede (che sia in Dio o nel Nulla). Espediente
eccellente per un raro caso di film che necessita assolutamente di rimanere
“aperto”.
2) Il suicidio di Mademoiselle è un’altra
scelta perfetta. Lei è stata la sola ad ascoltare la testimonianza di Anna. Lei
è l’unica a sapere cosa c’è dopo la Morte. Che ci sia qualcosa (bello o brutto
che sia) o nulla, i suoi “adepti” non lo scopriranno mai. Anni e anni di dolore
e torture sprecate, mentre i “poveri” anziani si troveranno al punto di
partenza, attendendo la Falce con ossessione e ansia. E’ la miglior vendetta
che lo sceneggiatore potesse escogitare.
3) L’ultima frase è di una potenza unica.
Mademoiselle esorta Etienne a “rimanere nel dubbio”. Cosa vuol dire?
Probabilmente si rifersice alla cessazione degli atti di martirizzazione (come
a dire “smettila di cercare una risposta torturando giovani donne, è inutile”)
e anche se fosse solo questo avrebbe senso e neanche tanto banale. Ma
Mademoiselle sottolinea il carattere dell’immaginare cosa ci sia dopo la Morte
piuttosto che di cercarlo fisicamente. Su questo piano, il “rimanere nel
dubbio” si configura come un’esortazione a vivere, poichè l’atto della Vita
esclude necessariamente quello della Morte. E’ meglio non sapere cosa ci sia
nell’Altro Mondo non perchè sia qualcosa di orribile, o gioioso, o inesistente,
ma perchè non è pregorativa dell’uomo il “sapere con certezza”. L’uomo è
destinato al dubbio finchè il suo cuore continuerà a battere.
Termina così questa dialettica Vita-Morte che
per Laugier trova maggior fondamento nel dolore e nella sofferenza. Un film che
disturba come pochi prima (e dopo) di lui, perchè ci spinge a riflettere e a
cercare, in mezzo a tutto quel dolore, una spiegazione, un senso profondo.
Laugier consegna le chiavi per aprire l’Ultima
Porta, ma ci esorta a tenerla chiusa.
Esistono dei film estremi, il cui assunto è più
maledettamente tagliente di qualsiasi arma possa essere inclusa al suo interno.
Film che colpiscono due volte, a fondo e in contemporanea: l’occhio, più
superficialmente, con l’assolutezza della violenza in esse rappresentata; e la
mente, più a fondo, attraverso la supposta ideologia che genera questa ferocia.
Martyrs di Pascal Laugier è
uno di questi: non un semplice torture porn, anche se allo
scatenarsi di questo sub-Genere è contemporaneo, e per certi versi affine, e
allo stesso tempo, il più riuscito tra questi.
Pellicola del 2008 che, per assonanza di
nazionalità e materia trattata, è stato accomunato a Frontier(s) [Xavier Gens,
2007] e À
l’intérieur [Alexandre Bustillo e Julien Maury,
2007], è riuscito a scuotere in maniera più decisa le fondamenta dell’horror
francese, e a ridargli linfa vitale.
Proprio a causa dei suoi contenuti eccessivi
[non solo visivamente] Martyrs fu vietato, in patria, ai minori di diciotto
anni, salvo poi venire “graziato” con un vietato ai minori di sedici, dopo le
numerose proteste e i ricorsi dei produttori e del cast [da noi rimane VM18].
Martyrs è qualcosa di
difficilmente collocabile, insindacabilmente riuscito nella sua spietatezza:
iper-realistico ritratto del lato più oscuro della società contemporanea, è un
film che non lascia spazio a possibili compromessi…
un film di parole, pensieri, immaginazione, storie. Asger è l'unica persona che vedremo, uno che ha i suoi problemi, e si trova davanti a una storia enorme, difficile da capire, guardate il film senza sapere niente. e poi pensare che siamo diventati un paese dove tutto può essere legittima difesa=licenza di uccidere. un film attuale e contemporaneamente senza tempo, dove tutti siamo soli, e un telefono è una salvezza o una condanna. Jacob Cedergren è Asger Holm, uno straordinario solitario interprete. se vi volete bene cercate e trovate questo film al cinema. non tutto è come sembra, piccole grandi sorprese vi lasceranno senza respiro - Ismaele .
…Un thriller mozzafiato a
basso budget ispirato da una storia vera: Moller e i suoi collaboratori sono
rimasti particolarmente colpiti da una telefonata di una donna al 911 ascoltata
da Youtube, con la vittima che ha parlato per 20 minuti in codice con le forze
dell’ordine per non farsi scoprire dal suo aguzzino. Lo script, come dicevamo,
ammalia ma anche la regia è degna di nota, con la macchina da presa che segue
ogni singolo movimento di Asger, cogliendo tensioni e ansie di un caso che
sembra sfuggirgli di mano e che lui prova in ogni modo a risolvere sfruttando
le proprie abilità da stratega nonché oratore. Degna di nota la fotografia di Jasper
J. Spanning, con il sound design firmato da Oskar
Skriver che dà la giusta enfasi al susseguirsi degli
eventi.
Una pellicola che centra l’obiettivo di offrire a ogni singolo
spettatore un’esperienza del tutto unica. Le immagini che lasciano il segno
sono quelle che non si vedono: deIl
Colpevole – The Guilty ne sentiremo parlare ancora tra
diversi anni.
…Realizzato con mezzi minimi e capacità
straordinarie, il film si svolge tutto nel chiuso di un ufficio delle chiamate
di emergenza della polizia. Anzi, si svolge alla scrivania del poliziotto Asger
Holm, di turno al 112 perché si calmi un po’: è un tipo alla Callaghan, pistola
facile e modi bruschi. Ma quando il gioco si fa duro, Asger non si risparmia e
va ben oltre l’orario e i compiti a lui richiesti. C’è infatti una donna rapita
dal marito che chiede aiuto al 112. Le notizie che costei fornisce sono inevitabilmente
frammentarie e approssimative, piene di angoscia e paura, ma Asger non lascia
nulla di intentato. Le tracce della rapita conducono a nord , verso Elsinore,
mentre giù, a Copenaghen, una bambina è a casa senza la mamma, sola e
terrorizzata…
…Jacob Cedergren è Asger Holm: agente di
polizia momentaneamente confinato al servizio
di pronto intervento. Quando il film inizia, sembra una notte come un altra.
Telefonate di ubriachi, piccole rapine: Asger risponde in modo astioso e
svogliato, invia una pattuglia, chiude la chiamata. Il giorno successivo
inizierà il processo che lo vede imputato. Sembra questa la sua unica
preoccupazione. Almeno, finché non riceve la chiamata di una donna. Si chiama
Iben: è stata costretta a salire su un furgone, che ora si dirige fuori
Copenaghen. La disperazione nella voce della donna sembra turbare il poliziotto che, fino a un momento
prima, sembrava assolutamente privo di empatia. Inizia così una folle corsa
contro il tempo. Il furgone sembra impossibile da localizzare, Asger non può
che gestire la situazione al telefono, ma combatte con ogni mezzo a sua
disposizione. Peccato che le natura delle parole sia sempre ambigua. E dietro
il racconto di Iben, si nasconda una storia ancora più disperata…
…Il film vince in un’impresa in cui pochi sono
usciti incolumi: raccontare qualcosa che regga, sia coerente e abbia senso, ma
soprattutto non annoi, privandosi di cast, di fronzoli, di colonne sonore
martellanti, di presenze sceniche stellari. Un solo protagonista che agisce per
più comprimari, dando a ciascuno di loro giustizia: attraverso lui, per
induzione vediamo una donna disperata, il suo sequestratore, la piccola
Mathilda e gli agenti che, raggiunti al telefono, cercano di aiutarlo a salvare
la donna. Per ammissione del regista, l’ispirazione arriva dal video di una
donna rapita che parlava con un centralino del 911. Moller ha intuito che con
la sua immaginazione poteva rappresentarsi una storia, anche senza viverla in
maniera diretta…
un furto andato male e poi inizia una specie di amicizia fra il derubato e il ladro. chissà perché, Yvan prende a cuore la sorte del giovane ladro, cerca di aiutarlo in tutti i modi, nel loro viaggio succedono un sacco di cose, qualche attimo si ride anche, ma è un film molto triste. un film che vale, non dubitare - Ismaele
…Ci voleva, pare, Bouli
Lanners per convincerci che il Belgio è il territorio adatto per un road movie.
Ci voleva per forza Bouli Lanners per interpretare Yvan e riempire di sfumature
un percorso altrimenti silenziosissimo, a bordo di una Chevrolet del '79, in
compagnia di un ragazzino tossicodipendente che non si leva mai il cappello ma
sembra aver qualcosa lì sotto, nel cervello, che funziona e che potrebbe
aiutarlo a vivere meglio, se solo lui gli desse l'opportunità di uscire allo
scoperto. Ci voleva sempre Bouli Lanners per spacciare per un piccolo film,
all'apparenza pressoché disabitato, un saggio di ottimo cinema…
…tutto è preso con molta ironia pur
nella realtà dei problemi trattati, sorprendendoci e rendendoci partecipi di
quanto accade. Lo stesso finale pur se aspettato, rimane aperto e la
speranza di una vita nuova non viene del tutto negata. È un film molto maschile, in
cui il tema dell’amicizia tra uomini ha un posto importante
assieme a valori quali la solidarietà umana e la fiducia
reciproca (anche nel finale la fiducia di Yvan per Didier non
viene meno nonostante gli accadimenti). Da citare la bella colonna sonora che
riesce a sottolineare in modo appropriato i momenti salienti dell’azione senza
mai risultare di troppo, come nei migliori road movie. Un’opera
seconda matura che mostra un autore da seguire, espressione di una dinamica
cinematografia quale quella belga.
…Si les premières séquences évoquent un
mélange entre Bertrand Blier mode Buffet froid et
de Jim Jarmusch, Bouli Lanners réussit, comme il y a peu Kelly Reichardt
avec Old Joy, à transcender ce qui chez d’autres
ressemblerait à une déclinaison impersonnelle. La preuve avec toute la dernière
partie où Bouli et son acolyte hagard tombent sur un pauvre clebs balancé sur
le toit de leur bagnole, qui pourrait ressembler à une figure attendue (deux
hommes, un chien, une fugue, peinards dans la nature) et qui ne le sera pas.
Lanners détourne ce que l’on aurait dû (se contenter de) voir et communiquer
une tristesse inconsolable au moment où l’on s’y attend le moins. Eldorado, c’est à la fois un point de non retour, un
voyage absurde à destination inconnue entre ce que l’on a été et ce que l’on
aimerait être (ou ce que l’on restera), une quête affective entre peur de
l’autre et nécessité de se rapprocher de l’humain pour ne pas crever seul,
comme un chien. C’est l’œuvre sincère d’un marginal qui donne envie d’aimer et
d’être aimé.
la discesa (o l'ascesa, dipende dai punti di vista) di Casper e Oscar nel crimine di serie A. il salto è necessario, se vuoi arricchirti in fretta. ci sono dei rischi, ma il fascino dei soldi, e della violenza, sono troppo grandi. una vita di merda, girata bene dal giovane regista e interpreta drammaticamente bene. buona visione - Ismaele
…Thriller viril et efficace, le métrage est
aussi un drame familial poignant porté par deux excellents comédiens. La
relation qui unit ces deux frères est ainsi la véritable force du film,
l’évolution de ces personnages introvertis étant capturée à la perfection par
la caméra. D’une brutalité sans artifice, le réalisateur a choisi, avec succès,
une approche naturaliste qui donne un moteur émotionnel réaliste à la descente
aux enfers à laquelle le spectateur assiste. Fable très sombre,
"Northwest" nous prend à la gorge, nous remue les tripes, car il
n’oublie jamais sa dimension humaniste, nous plaçant au plus près des êtres…
…Film choc, film coup de poing, NORTHWEST
prend aux tripes. Le spectateur assiste un peu impuissant à la descente aux
enfers d’un jeune banlieusard danois qui, de voleur à la petite semaine, va
passer du côté obscur en devenant la seconde main d’un bandit de haut vol.
Cependant, si le film ne s’en tenait qu’à cela, les choses se limiteraient
facilement. Il n’en est rien. C’est alors cette part d’humanité qui surgit et
s’exprime dans les rapports familiaux qu’entretient Casper, le héros “déchu”
principal, avec les siens, à savoir son plus jeune frère Oscar, sa petite sœur
et sa mère, tous vivant sous le même toit dans un des quartiers chauds de la
banlieue de Copenhague…
non capita spesso che un film ti faccia stare male, e ti lasci senza parole. Ben X è uno di quei film. Ben vive nel suo mondo, ed è l'oggetto delle attenzioni di una coppia di pezzi di merda, con la complicità di tanti altri, che purtroppo per Ben sono nella sua classe. quello che passa Ben è un calvario, deve solo subire, e portare la sua croce. la sua passione è un gioco al computer, ambientato nel Medioevo, gioco nel quale è bravissimo. e una ragazza vuole conoscerlo, e questo, come tutto, è difficile da gestire. conoscete anche voi Ben, non perdetevi questo piccolo capolavoro belga - Ismaele
E' difficile trovare le parole per descrivere le emozioni che questo
autentico capolavoro ha saputo suscitarmi. E' difficile, ma doveroso, perchè
non potrei trovarle a freddo, non sarebbero le stesse, è giusto che vengano
ora, a cuore ancora pulsante, a viso ancora segnato dalle lacrime.
Ben X è uno dei film più toccanti che abbia mai potuto vedere anche se tale
aggettivo rischia di sminuirlo, di limitare alla semplice (ma importantissima)
componente emozionale quella che è una grandezza a prescindere dell'opera.
Cercherò per questo di analizzarlo più completamente che posso anche se le
dita, ancora tremanti, potrebbero portarmi a scrivere cose troppo di parte.
Partiamo dalla recitazione. L' interpretazione di Greg Timmermans (Ben) è
semplicemente memorabile. Certo, il suo personaggio è straordinario, ma in 9
visi su 10 sarebbe risultato esagerato, forzato, macchiettistico. Lui passa da
un registro all'altro, sopra e sotto le righe senza far mai perdere coerenza al
personaggio. E che dire della madre, figura dalla straziante umanità, forza e
debolezza, speranza e rassegnazione, amore sconfinato per un ragazzo che, solo
apparentemente, non sembra ricambiare. E veri, veri, in un cinema che sembra
non conoscere le persone e le dinamiche della vita, veri sono tutti gli altri
personaggi, forse di contorno (perchè tutto in BEN X è di contorno a Ben, alla
sua mente), ma allo stesso tempo tremendamente funzionali…
…il vero punto di forza dell’opera di Balthazar (brillante esordiente
alla regia), capace di caratterizzare in maniera commovente questo ragazzo
incerto, insicuro, sfumato, psicologicamente allo sbando, senza per questo
scadere nella ricerca della facile tragicità un po’ troppo costruita. C’è
sincerità nel personaggio di Ben, e per questo grande merito va
ovviamente anche all’attore esordienteGreg Timmermans.
Riuscitissima anche l’alternanza tra immagini di vita reale e di “gioco
virtuale”, costante necessaria per rappresentare la dualità psicologica
di Ben.
Una dualità che nel finale sfuma sempre più,
diventando indistinto e irreale, fino a toccare punte di lirismo sognante come
in pochi negli ultimi anni hanno saputo regalarci (penso soprattutto al
primo Michael Gondry).
Funzionale l’utilizzo delle interviste, anche se queste sono inevitabilmente il
punto debole della struttura complessiva, che trova invece il suo punto
di forza nella narrazione sciolta e nella focalizzazione sul
protagonista. Ultima nota prima della visione: preparate qualche
fazzoletto.
un classico del cinema francese. senza poliziotti, poteri forti, complotti. "solo" una storia di vendetta, ma Lino Ventura (che nel film si chiama Ancelin, e il suo primo nome di battesimo è Angiolino) non è fortunato. belle e puntuale la colonna sonora, sceneggiatura perfetta, ci sono le mani di Boileau-Narcejac. un gioiellino da non perdere - Ismaele
Ce film est
simplement extraordinaire. Et ça tient à une seule chose : sa réalisation
très bien maîtrisée, certes il y a quelques petits défauts, mais il est
vraiment très très bon.
Réalisé par
Edouard Molinaro, on a du costaud à la 'réal' ! En effet, Molinaro c'est
De Funès avec Hibernatus, Oscar, ou encore Delon
avec L'Homme Pressé par exemple. Bref, c'est du tout bon et en
plus il est assisté de Gérard Oury et Alain Poiré. On se retrouve donc avec une
réalisation très efficace pendant tout le film, et qui assez bien
rythmée : il suffit de voir la première scène du film dans le train, c'est
efficace, même s’il y a un ou deux passages longuets un peu plus tard.
Lino Ventura a de
nouveau le premier rôle et il est tout simplement impeccable du début à la fin
du film. Il joue à merveille l'homme hésitant à tuer un innocent qui n'a fait
que l'apercevoir, et avec brio l'homme traqué…
Au cours d'une dispute, Verdier a précipité sa maîtresse,
Jeanne, hors d'un train en marche. Il passe en jugement mais est acquitté au
bénéfice du doute. Ancelin, mari de Jeanne, décide alors de venger celle qui
l'avait pourtant trahi. Il supprime Verdier, laissant croire à un suicide.
Mais, en sortant de chez sa victime, il tombe sur un radio-taxi, Lambert, que Verdier
venait d'appeler. Ancelin se rend compte qu'il doit, dès lors, éliminer aussi
ce témoin malencontreux. Il le retrouve, le suit, mais hésite à le pousser sous
une rame de métro.
Voyant Liliane, une fille du standard des taxis, amie de
Lambert, rejoindre ce dernier avec un journal, Ancelin se doute qu'il va tout
comprendre à propos de la mort de Verdier et qu'il faut donc agir vite. Il
réussit à monter dans le taxi de Lambert, qui le reconnaît et branche
discrètement son téléphone sur le standard. Là, tous, y compris Liliane,
bouleversée, entendent une brève conversation entre les deux hommes, suivie
d'un coup de feu. Commence alors dans Paris nocturne une chasse à l'homme
mouvementée où les radio-taxis, qui veulent venger la mort de leur camarade, se
relaient et s'informent sur le trajet d'Ancelin, traqué jusque dans le Jardin
d'Acclimatation où il sera abattu par la police.
…Un témoin dans la ville se caractérise d'abord par le faible volume de
ses dialogues, élément traditionnellement majeur dans le cinéma policier. Ici,
le silence se fait souvent dominant, notamment lorsque le personnage d'Ancelin
est à l'écran. Dès son apparition, alors qu'il s'infiltre dans la demeure de
l'assassin de sa femme, Molinaro filme une longue séquence sans le moindre mot,
ce qui deviendra l'une des caractéristique du personnage d'Ancelin, quasi muet.
Un élément qui plait d'ailleurs beaucoup à Lino Ventura, qui dans la suite de
sa carrière interprétera de nombreux personnages peu diserts. Ancelin, qui a
tout perdu dès l'ouverture du film et le meurtre de sa femme qui ne l'aimait
déjà plus, n'a presque plus aucun contact avec l'humanité, comme s'il était un
fantôme…
…Un témoin dans la ville est un des plus beaux films noirs du cinéma français,
l'un des plus tragiques aussi. Une vision quasi onirique, implacable, du
funeste destin d'un homme seul face au monde qui a vu sa vie se détruire malgré
lui. Ce sera l'impulsion d'une longue et formidable carrière pour Lino Ventura,
et le premier grand film de Molinaro. on peut d'ailleurs légitimement penser
qu'il s'agit de son chef-d'œuvre. Il ne retrouvera pas, dans ses célèbres
comédies, la réussite de cette œuvre de jeunesse, même si sa carrière
regorgera, dans des registres divers, de très beaux films…
cosa succede quando dopo una vita insieme ci si trova soli, questo è il tema del film. Marie, in conseguenza del fatto che il corpo non si trova, si comporta come se il marito fosse ancora vivo, se non c'erà in quel momento è perché era appena uscito. Marie vive con un fantasma, c'è e non c'è, vivere soli liberi autonomi è praticamente impossibile. il film non è pesante né fa annoiare, Ozon (e Charlotte Rampling, sono bravissimi. da non perdere - Ismaele
…SOTTO LA
SABBIA non è certo un film spensierato, di sano intrattenimento o leggero (che
dir si voglia) perchè colpisce al cuore, riflette la vita vera e l¹esperienza
di chi ha deciso di non accettare la la fine, di una vita, dell'amore, dei
sentimenti, dei sogni. Allo stesso tempo il film non rischia di essere uno dei
"soliti deprimenti, incomprensibili film d'essai", perchè la forza
magnetica di un'attrice come Charlotte Rampling non ci permette di staccare un
attimo lo sguardo dallo schermo. E forse anche perchè Ozon è un regista giovane
ed è sicuramente una promessa del nuovo cinema francese…
… Gli attori sono straordinari, ma la Rampling è il perno di tutto il
film, e la sua misuratissima recitazione lo rende ancora più drammatico. Il
dolore della perdita è lucidamente folle, incomprensibile, quasi surreale: non
cè spazio per le lacrime, se non nellultima scena su quella stessa spiaggia.
Tutto è molto curato, non ce una pausa morta e la costruzione è elegante, come
lo sono anche molte scene. Di notevole bellezza il contrappunto musicale reso
da September, che sottolinea e fa da raccordo tra la rinascita sensuale di
Marie e l'annuncio del ritrovamento del corpo. Inizialmente un
po' lento, ma funzionale al plot, il film lancia indizi ed interessanti spunti.
Intelligente, e fortunatamente non scontato, dal finale irrisolto (che potrebbe
infastidire). Il giudizio: Ottima costruzione. Onesto ed elegante.
…Quanto fa male l'abbandono? Forse uno dei dolori più
terrificanti e inconsolabili. Io li odio gli adii, detesto il disfattismo
sentimentale, quelli - per intenderci- del "nulla dura per
sempre", " non faccio promesse", tutta questa paura di amare e
farsi male anche per amore, mi nausea fortemente. Perchè dobbiamo lasciare che
il tempo ci separi dalle nostre amiche e dai nostri amici? Perchè lasciare che
l'amore finisca ,visto che deve finire?
La Resistenza esiste anche nella nostra vita privata e nelle scelte che
facciamo. Mi piace tantissimo quella frase di Moretti: " io non divento
amico del primo che passa, io scelgo di chi diventare amico. E una volta che ho
scelto è per sempre"
Ecco, per me questa è la vita. Ho scelto te come amica o amico, ho scelto di
amarti. Alti e bassi, modificazioni, cambiamenti, ma va avanti. Come la nostra
vita.
Aggiungi a questo dolore, quella di una scomparsa senza motivazioni e un corpo
che non trovi.
Troppo per la nostra mente e infatti Marie giustamente si inventa una vita
quotidiana matrimoniale, che non ha più.
E diventa talmente pesante quella mancanza che nessuna verità
sarà vera, meglio abbandonarsi a una visione di salvezza e correre incontro a
essa. Perdersi nella follia, per sempre
Grandissimo film, davvero eccezionale, con una Charlotte Rampling assolutamente
magnifica, emozionante, memorabile. Questo è il cinema che mi piace, questo è
quello che voglio vedere.
…
Il plot di Sotto la sabbia è semplicissimo, tanto che si ha l’impressione -
specie nella prima parte della pellicola - che non accada nulla e mentre già
scorrono i titoli di coda rimaniamo a domandarci che cosa è realmente accaduto.
Marie (Charlotte Rampling) e Jean (Bruno Cremer) Drillon sono un’affiatata
coppia di coniugi di mezza età: sposati da venticinque anni, partono come ogni
anno per trascorrere le vacanze nella loro residenza al mare. Il viaggio,
l’arrivo nel luogo di villeggiatura, la riapertura della casa, i primi momenti
di riposo costituiscono un rituale rassicurante e ormai fin troppo consueto,
sino ad arrivare alla noia, a quella silenziosa monotonia di gesti e di parole
in cui trascolora dopo anni la felicità coniugale; la cinepresa si aggira
lentamente fra loro, quasi senza stacchi, indagatrice e muta testimone dei loro
atti, isolando le due figure in uno spazio assurdamente teatrale, emblematico.
L’effetto straniante, lo stridore di un “nonsense” esistenziale si avverte fin
da qui, dalla rappresentazione quasi documentaristica di un’estate tranquilla,
dalla inspiegabilmente fastidiosa scoperta da parte di Jean di un covo di
formiche nel tronco di un albero, durante una passeggiata nel bosco.
L’imprevisto, il conturbante, l’inaspettato - pare voglia dirci Ozon - hanno in
realtà radici assai profonde nella solo apparente impassibilità delle nostre
esistenze: sono parte, a volte anche fondamento della nostra vita e a noi non
resta che accettarlo o lasciarcene sommergere. Proprio come sceglie di fare
Marie quando, in un giorno di sole come tutti gli altri sulla spiaggia, si
risveglia e si rende conto con sgomento che Jean è sparito nel nulla, durante
una nuotata. Senza senso e senza spiegazione…