intanto è
da tenere d'occhio lo sceneggiatore Guillermo Calderón, ha lavorato a pochi
film, ma tutti di altissimo livello.
El club dicono che sia un film di denuncia contro i preti pedofili, ma molto aldilà di questo.
con una sceneggiatura formidabile Pablo Larraín ci regala un film che è una sorpresa continua, imprevedibile, preti che muoiono all'improvviso, preti che si appassionano alle corse dei cani e ne allevano uno, una suora che fa da madre superiora a uno stano appartamento-convento di reietti, mandati laggiù, in una villetta davanti all'oceano, in un villaggio anonimo, dimenticati dal mondo e da Dio, ma non dai rappresentanti di Dio in terra.
i preti devono espiare una colpa, niente galera, solo l'esilio.
finché non appare Sandokan. e tutto il tran tran quotidiano viene sconvolto.
come affrontare il problema nessuno lo sa, ma l'inviato gesuita ha un'idea incredibile, geniale e (de)stabilizzante, che crea un equilibrio diverso, non sapremo fino a quando, magari per sempre.
attori in stato di grazia, fotografia livida e grigia, dialoghi necessari, e non di più, per un film bello e terribile, di quelli che resteranno nella storia del Cinema.
impossibile raccontarlo, cercatelo e soffritene/godetene tutti - Ismaele
…Película dura, durísima, explícita
en el relato verbal de las perversiones de que son autores los curas y sobre
el «cambalache» que se ha montado para sacar de la circulación a ese
puñado de criminales. Pablo Larraín, el excelente director de Tony
Manero (2008) y No (2012), crea una atmósfera
realmente tenebrosa. Un cartel, al inicio, del film cita textualmente al
Génesis: «Dios separó al principio la luz de la oscuridad». Pues bien, en
transcurso del film no saldremos del reino de las tinieblas. La mortecina lumbre
del sol austral apenas alcanza a esclarecer unas vidas en sombras, unos rostros
que fluctúan entre la memoria de sus vicios y la culpa latente de sus desvaríos
cuando no dan lugar a torticeras justificaciones de sus brutalidades.
Impresiona la excelente fotografía de esa luminosidad difusa. Es una atmósfera
lúgubre que tiñe todos los diálogos y escenas de este terrible pero magistral
film, tonalidades que nos recuerdan obras del cine nórdico y que también son
frías cuando no heladoras en sus historias.
…Larraín
ci regala il suggello geniale, perché, usando un particolare obiettivo russo
già utilizzato a suo tempo da Tarkovskij, fa debordare l’immagine dal suo
contorno, riprendendo in controluce e facendo scontrare luce e buio in un
orizzonte indistinto, dove non è mai davvero giorno e mai davvero notte e si
fatica a mettere a fuoco l’oggetto della visione. E chi ragiona sulla natura
stessa del mezzo e lo deforma e trasforma per farlo rivivere in prospettive
inusitate – lo sguardo con cui si assiste a Il Club è simile al
concetto di “voler vedere le cose per la prima volta” di cui parlava un tempo
Wenders – merita davvero di rientrare tra i grandi della storia del cinema.
…El club è
un lavoro di grande bellezza e solidità, che oltre a reggersi su una
sceneggiatura e su una regia eleganti, può contare su un gruppo di attori la
cui forza si esprime sia nella chimica d’insieme sia nelle singole
interpretazioni. Anche questa volta, il regista cileno affida al suo attore di
punta Alfredo Castro la parte di un uomo complicato, dalla storia e dalla
psiche labirintiche. Insieme a lui ritroviamo anche Antonia Zegers, anch’essa
presente in tutti i lavori precedenti di Larraín e Roberto Farías, già apprezzato
in No – I giorni
dell’arcobaleno, nel ruolo di Sandokan, un vagabondo che scompagina gli
equilibri del club destabilizzando allo stesso tempo anche le coordinate
interpretative con cui lo spettatore si aspetterebbe di poter interpretare il
suo personaggio di vittima di abusi.
…da
Santiago verrà mandato un ispettore, un giovane prete, un gesuita aspro,
disincantato, affilato, e bello, con l’incarico di indagare sul quel covo di
serpi e, se necessario, di bonificarlo e chiuderlo. Di eliminare quella cellula
impazzita dal corpo della Chiesa. Sottoponendo tutti a un interrogatorio, molto
apprenderà, ma molto gli resterà oscuro. Il gruppo cercherà di difendersi, di
depistare. Ci saranno sviluppi da vero noir, in un crescendo che sfocerà in un
finale spiazzante. Tutto nel clima livido e malato cui Larrain ci ha abituato
con Tony Manero e Post Mortem (No è un’altra cosa). Confermando di essere un
autore unico, assai personale, capace di prendere i materiali bruti dalla
cronaca e dalla storia per trasformarli – ed è soprattutto il caso di El Club – in storie infernali e claustrofobiche,
in cupi rituali controriformistici. Ballate barocche e insieme glaciali di
morte. Danze di spettri. Con in El Club (almeno)
una sequenza che ci lascia tramortiti, la confessione dell’uomo violentato da
bambino dai preti il quale descrive quello che la sua mente infantile aveva
elaborato. Un delirio in cui sesso e sacro, violenza e estasi si mescolano in
un groviglio inestricabile. Ecco, son cose come queste a farci capire di che
statura sia Larrain. Basti paragonare El Club a un
film sullo stesso tema di qualche anno fa come Il dubbio per
capire la distanza siderale. E please, diamoglielo un premio. Si rivedono gli
attori feticcio del regista cileno, Alfredo Castro e Antonia Zegers.
…Portato
dall’esterno e attento a non carbonizzare simbolicamente una materia già
intrinsecamente incendiaria, lo sguardo di Larraín configura un microcosmo
spaziale che riformula grottescamente e causticamente la retorica visiva dei
reality show (non sembri fortuita la concomitanza della prima materializzazione
di Sandokan con la visione del reality trasmesso dalla Televisión Nacional,
così come la minaccia di Madre Monica a Padre García di chiamare la televisione
nell’eventualità della chiusura della casa). Ma questa volta il Grande Fratello
è nientemeno che Dio, l’onnisciente e onnipotente regista dello spettacolo che
si svolge all’interno casa, spettacolo in cui i religiosi non sono altro che
marionette, pupazzi eterodiretti, infantili e inconsapevoli agenti della sua
volontà (“Dio è l’unico che sa. Lui sa. Noi siamo bambini, per questo non
capiamo. Ma Lui è il Padre. Ed è il solo a sapere”, sussurra Madre Monica al
singhiozzante Padre Vidal, disperato per la soppressione di Fulmine).
Confessionali, dinamiche di alleanza e cospirazione, ostilità strisciante,
sessualità vigilata ed esacerbata, sorveglianza permanente, ferree regole di
condotta, infrazioni segrete, pasti collettivi nei quali si consumano chiassosi
litigi: il repertorio narrativo e spettacolare del reality tintinna crudele in
tutta la sua vitrea e narcotica trasparenza: “Todo modo para buscar la voluntad
divina”.
…La visione apparecchiata da
Larrain è schietta, fuor di metafora, l’occhio resta fisso sul paesaggio
dei volti e la tensione dei lineamenti, la pietà scolora in ironia, il cinismo
attizza la suspense. Cinico, che in greco significa canino, proprio del cane,
il levriero appunto, ennesima vittima sacrificale, innocente perché nei testi
sacri dell’universo mondo si immolano innocenti, gli innocenti sono proprio un
succulento pallino per gli dei, innocenti come l’orchetto verboso con la
sindrome di Tourette, mandato alla mattanza per mano dei fedeli catechizzati
a dovere. Potrebbe finire tutto a schifìo, come un film danese, come un film di
Vinterberg, invece questo è un film cileno, ed è di Larrain, la beffa ai
perdonisti deve essere grandiosa, universale, serve quindi un nuovo equilibrio,
un nuovo status quo, dove vittime e carnefici vivano insieme, dentro quattro
mura accoglienti, lontano dal mondo e dal clamore dei media, tra tentazioni e
psicofarmaci. Parola del Signore…
…In
un finale di perfezione assoluta lo psicologo va via.
Lascia ai lupi un agnello
sacrificale, una tentazione, un lascito che porterà per forza a qualcosa.
Se i lupi mangeranno l'agnello
saranno condannati per sempre.
Se lo lasceranno vivere e lo
accudiranno, forse, la via verso la redenzione e il pentimento sarà finalmente
intrapresa.
Ma come in una storia che parlava
di una rana ed uno scorpione la sensazione è che la propria natura, alla fine,
viene sempre fuori.
E un lupo è un lupo.
E non basta una suadente voce
femminile, non basta un canto, non bastano parole di amore e pietà per
togliergli dal naso l'odore della preda.
El buen
rendimiento de un perro de carreras requiere un entrenamiento de disciplina
inquebrantable. Palo y zanahoria. Así lo testimonian las escenas de El
club en las que el padre Vidal ejercita a su galgo a base de hacerle
perseguir sin descanso un reclamo atado al extremo de una vara. El cánido se
emplea a fondo dando interminables vueltas en círculo alrededor del religioso,
obcecado en atrapar de una dentellada el premio que nunca dejará de
escapársele. Al servicio de un amo ambiguo entre lo amoroso en su relación con
el animal y lo abusador en su forma de utilizarlo para su propio beneficio en
el canódromo. Ahora bien, imaginen por un momento que ese perro deja de
comportarse como un perro y se rebela contra el amo. Renuncia a su
adiestramiento ciego y, quemado por años de abuso, se convierte en una mala
bestia. Un ser de planta salvaje que parece dispuesto a soltar el mordisco
rabioso en cualquier instante. El perro difícilmente terminará en eso, porque,
como ya contó Bresson en El azar de Baltasar, se puede buscar en los animales
domesticables una especie de santidad que los dispone a aguantar estoicamente
los golpes. A asumir sin rechistar su condición de criaturas a merced de la
mezquindad y la violencia humana y cerrar su existencia cuando es más útil
acabar con ellos que aprovecharse de sus servicios. Pero si ahora hacen el
esfuerzo de imaginar a un colega de profesión del padre Vidal que aplicó la
estrategia del palo y la zanahoria con un monaguillo en lugar de con un galgo
(y con intenciones más sórdidas), entenderán cuál es el cogollo de la nueva
película de Pablo Larraín. La bestia humana (de la que cuesta imaginar que un
día fue un niño inmaculado) que vuelve para pedir cuentas al causante de su
condición degenerada. Al cura que le obligaba a dar vueltas en círculo en pos
de una santidad quimérica atada a lo alto de un palo, siempre al son de la
misma melodía: «Métetela en la boca. Trágate sus fluidos. No es pecado si son
fluidos santificados por Dios»…
…La scabrosità da cui deriva l’enorme questione morale posta
dal film non risiede nell’oggettività delle immagini, ma nella soggettività di
discorsi che possono portare, alternativamente, l’essenza di verità
irriferibili o la menzogna continua dell’auto-assoluzione. Ad essere messo in
pesante discussione non è la tendenza dell’essere umano a commettere peccato,
incontrovertibile e per questo trattata dal cineasta cileno persino con
l’amarissima ironia scaturita da una consapevolezza intangibile, ma le sovrastrutture
che dovrebbero controllare l’operato degli uomini e alle quali essi dovrebbero
rispondere dei proprio errori. O, meglio, orrori. Sbaglierebbe infatti in
maniera grossolana chi vedesse ne Il Club solo
un lungometraggio visceralmente anticlericale: l’obiettivo di Larraín è in
realtà assai più alto, riguardando in generale ogni forma degenerata di potere
temporale. Dalle mostruosità generate dalla dittatura di Pinochet – esaminate
con spaventosa capacità riflessiva e differenti sfumature nel trittico comprendente Tony Manero (2008), Post Mortem e No – I giorni dell’arcobaleno (2012)
– alle atrocità della pedofilia in ambito cattolico, c’è un filo rosso evidente
a collegare il tutto. E questo trait d’union si chiama
degenerazione del Potere. Lo stesso che prevede, come per insopprimibile
istinto, la prevaricazione del teoricamente forte sull’apparentemente debole…
…El mayor acierto
de El club es
su capacidad para incomodar, no solo a los que se puedan sentir partícipes o
compañeros de estos personajes, sino también a cualquier persona que alcance a
asimilar la auténtica gravedad de lo aquí reseñado. Nunca había sonado el canto
religioso ¡Perdón, oh Dios mío! de forma tan perturbadora. Sin pelos en la
lengua, el director chileno firma su apoteosis cinematográfica, que contiene el
estilo ácido e hiriente, de espíritu combativo, que nunca decepciona en el
cineasta. Con todo, lo más fascinante de este film no es lo tremendamente
escalofriante que es (que lo es), sino cómo entrará por las retinas de los
espectadores. Cuál será la reacción ante lo infrahumano. Si se preguntarán ¿por
qué? y cómo recibirán que el film conteste con el más inquietante silencio.
E' incredibile la regolarità con cui Larraìn ultimamente riesce a girare capolavori assoluti... questo, insieme a Neruda e Jackie raggiunge vette altissime di un cinema (forse) per pochi ma di sublime bellezza.
RispondiEliminada noi sarebbe ancora una giovane promessa, intanto è uno dei più grandi al mondo, senza essere mai prevedibile, come Denis Villeneuve, pur avendo entrambi iniziato a girare con i dollari Usa
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