per me è l'ultimo film prima della chiusura, eravamo pochi e distanti.
Elio Germano fa un lavoro straordinario (come qualche mese fa aveva fatto Favino) e lui è Ligabue, non solo interpreta, è entrato nei suoi panni.
e vedere quell'uomo escluso, maltrattato, emarginato, per tutta la vita, fino a quando diventa famoso (e una fonte di reddito per un po') di gente fa sempre male.
non vi dico di andare in sala, ma come e quando capiterà non trascuratelo, merita - Ismaele
…Il film ripercorre con dolente affetto le
principali tappe della biografia dell’artista: l’abbandono, le umiliazioni, le
ingiustizie, la solitudine, lo sradicamento, una vita da nomade e selvatico. Il
suo ritardo mentale forse era irrimediabile, ma ci viene indotto il dubbio che
fosse una conseguenza nefasta delle continue violenze e vessazioni su un
carattere già insolitamente schivo e meditativo. Nutrì per lunghi anni nel
silenzio un disperato amore per la madre, fino a scoprire
dai giornali della sua morte per avvelenamento, pare causato dal marito. Quando
infine nella rigorosa Svizzera dove era nato non ci fu più posto per un
soggetto così disturbante e con troppi eccessi, venne dichiarato italiano e
rispedito in una patria straniera della quale non conosceva nemmeno una parola…
…Con una figura mitica come quella di Antonio Ligabue il rapporto sembra
ribaltarsi. Fin dalla prima scena, quasi un calco da “Elephant Man”, con
l’occhio del futuro artista che (ci) guarda nascosto dentro un sacco, al centro
c’è il diverso, l’elemento di disturbo. Ma la dimensione comunitaria resta
decisiva per questo allievo di Olmi che sa resuscitare come nessun altro mondi
scomparsi o semplicemente invisibili.
Articolato in blocchi narrativi indipendenti, il film ripercorre l’intera parabola del grande pittore mostrando tutto l’essenziale senza spiegare nulla. Ma cosa significa “essenziale”? Qui Diritti impone il suo metodo e il suo stile. Dalla terribile infanzia in Svizzera all’arrivo in Italia, appena 19enne e già respinto da tutti, o quasi tutti; dalla vita selvatica sugli argini del Po, come un Gollum della Bassa, alla consacrazione artistica; dai ricoveri in manicomio alla furia quasi sciamanica con cui Ligabue si immedesima negli amati animali dipinti, sullo schermo sfilano le stazioni di una vita diversa da tutte che tutte le comprende, malgrado traumi e privazioni.
Per questo, con la prova semplicemente sovrumana di Elio Germano giustamente premiato a Berlino, è così importante il piccolo mondo che gli ruota intorno. L’amico scalpellino che lo protegge e quasi lo adotta; l’artista Mazzacurati che lo scopre e lo porta a Roma; il regista Raffaele Andreassi che gli dedica documentari decisivi. Per non parlare delle donne, che Ligabue brama ma non avrà mai, anche quando ormai è ricco e famoso. Tanto da iniziare a vestire lui stesso abiti femminili, per appropriarsi magicamente di ciò che gli è negato.
Alla fine, grazie anche a un’ambientazione miracolosa per grazia e esattezza, non sappiamo più se è quel mondo a rivelarsi in Ligabue o viceversa. E questo, in un paese - un cinema - che della distruzione della memoria sembra aver fatto un dovere, è davvero un regalo.
Articolato in blocchi narrativi indipendenti, il film ripercorre l’intera parabola del grande pittore mostrando tutto l’essenziale senza spiegare nulla. Ma cosa significa “essenziale”? Qui Diritti impone il suo metodo e il suo stile. Dalla terribile infanzia in Svizzera all’arrivo in Italia, appena 19enne e già respinto da tutti, o quasi tutti; dalla vita selvatica sugli argini del Po, come un Gollum della Bassa, alla consacrazione artistica; dai ricoveri in manicomio alla furia quasi sciamanica con cui Ligabue si immedesima negli amati animali dipinti, sullo schermo sfilano le stazioni di una vita diversa da tutte che tutte le comprende, malgrado traumi e privazioni.
Per questo, con la prova semplicemente sovrumana di Elio Germano giustamente premiato a Berlino, è così importante il piccolo mondo che gli ruota intorno. L’amico scalpellino che lo protegge e quasi lo adotta; l’artista Mazzacurati che lo scopre e lo porta a Roma; il regista Raffaele Andreassi che gli dedica documentari decisivi. Per non parlare delle donne, che Ligabue brama ma non avrà mai, anche quando ormai è ricco e famoso. Tanto da iniziare a vestire lui stesso abiti femminili, per appropriarsi magicamente di ciò che gli è negato.
Alla fine, grazie anche a un’ambientazione miracolosa per grazia e esattezza, non sappiamo più se è quel mondo a rivelarsi in Ligabue o viceversa. E questo, in un paese - un cinema - che della distruzione della memoria sembra aver fatto un dovere, è davvero un regalo.
…Il regista inoltre trova in un attore sensibile e epidermico,
nervoso e riottoso quanto basta come Elio
Germano, il più azzeccato interprete in grado, se non proprio
di far dimenticare (sarebbe impossibile, oltre che immotivato), almeno di
mettere da parte per tutta la durata del film la già epica e magistrale
interpretazione che ne fece il grande e recentemente compianto Flavio Bucci nella altrettanto riuscita ed
indimenticata versione televisiva a puntate del 1977 a cura di Salvatore
Nocita.
Splendida l'umanità che il sensibile attore romano - truccato
per l'occasione in modo realistico ma perfetto in modo tale da
immergersi anche esteriormente nei panni dell'artista - fa percepire in
modo palpabile nel rappresentare un reietto ruvido e riottoso, ma anche
insicuro e complessato (soprattutto nei confronti delle donne, che ama e teme
con la stessa incongrua e contraria forza d'impeto), costretto a vivere
nell'isolamento e in condizioni di vita materialmente sin estreme, quando
comprende che la pittura riesce, più di ogni altra forma di comunicazione, più
che di arte vera e propria, a creare in lui una connessione ideale utile a
renderlo finalmente partecipe, rivalutato e finalmente riverito, nei
riguardi di un mondo insensibile e crudele che, fino a poco prima, non ha
saputo fare di meglio che rifiutarlo, deriderlo, umiliarlo.
…A sfuggire però tra le dita è il senso del dover
raccontare Antonio Ligabue, proprio per la natura così peculiare e unica
dell’artista. Diritti, impossibilitato a venir meno alla rappresentazione della
follia, dell’anarchismo, della brutalità anche del personaggio si limita alla
metafora animale, perdendosi dietro qualche cielo di troppo alla ricerca di
una natura che dovrebbe rappresentare l’antitesi
della società. Ma dell’intimità di Ligabue vien fuori un groviglio di pensieri
senza una reale forza, se non quella di rinverdire le sue ossessioni (le
motociclette e le automobili): tutto rischia di perdersi dunque dietro
l’ennesimo racconto di un geniale disperato che vorrebbe ritrovare la carezza
perduta della madre. Un po’ poco, ma soprattutto un po’ stucchevole. A salvare
parzialmente il tutto è l’interpretazione di Elio Germano, che pur costretto a
muoversi gobbo, a farfugliare, a nascondersi, riesce
a restituire una (dis)armonia non priva di dolcezze, e ad apparire credibile e
umano anche nelle sequenze che lo spingono con più forza verso la macchietta –
che è però sempre in grado in maniera quasi miracolosa di evitare.
La biografia dannata dell’artista declinata nell’ottica della
diversità, del dialogo tra emarginazione e integrazione: sin dal titolo e
dall’incipit occluso nel buio della coperta sotto la quale Antonio Ligabue si
sottrae allo sguardo del medico italiano che lo sta prendendo in cura, Volevo
nascondermi (in Concorso a Berlino 70 e in sala dalla prossima
settimana) si propone come un testo in prima persona, prevalentemente concluso
nella sensibilità differente di un uomo dalla biografia sfortunata e dal
talento connaturato. Giorgio Diritti cerca la chiave d’accesso al personaggio
seguendo il suo instinto d’autore, portato a raccontare sentimenti di
estraneità, punti di vista radicali sul mondo, transizioni difficili tra stati
di confusione, stratificazioni di solitudini e tentativi di dialogo col mondo.
Non un biopic, insomma, tanto più che sorge irrefrenabile la tentazione del
confronto con lo storico sceneggiato di Salvatore Nocita del 1977, vero e proprio
testo divulgativo a livello nazionale del personaggio e dell’arte di Ligabue
realizzato ad appena una dozzina d’anni dalla sua scomparsa. Volevo
nascondermi cerca piuttosto la strada del ritratto introspettivo,
affidandosi molto alla fotografia pulsionale dell’ottimo Matteo Cocco per
scardinare il rischio della semplice agiografia in damnatio artis. La
narrazione è tutta puntata sulla performance assolutistica di Elio Germano, che
incorpora l’intinto quasi ferino del Ligabue nella sua foga fisica, gestuale,
aiutato non poco dal makeup e dalla capacità di tenere insieme un universo
rievocativo della Bassa padana e una percezione soggettiva della realtà
naturale in cui si muoveva…
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