tre anni prima della Palma d'oro del festival di Cannes Marcello Fonte gira Asino volae interpreta diversi personaggi, e tutti benissimo. è una piccola storia, che si vede benissimo, e il bambino Maurizio (interpretato da grande da Luigi Lo Cascio) è davvero perfetto. insomma una film che non può non piacere, buona visione - Ismaele
Ambientato in un polveroso
paesino della Calabria, scopriamo paesaggi tutt'altro che da cartolina, che
probabilmente risulteranno sconosciuti ai più. E proprio in quello che
per noi sarebbe un semplice alveo di un fiume rinsecchito, dove si buttano
macchine, valige e cose che non servono più, Maurizio, il bimbo protagonista del
film, stabilisce il suo regno magico, dove anche gli asini parlano e danno
saggi consigli e la valle risuona di pensieri spazzati dal vento.
Maurizio vuole suonare nella
banda di paese, la mamma è alquanto scettica, il padre più incoraggiante, sarà un
percorso pieno di ostacoli e pieno di musica.
…Con
una durata di poco più di un’ora, la storia di Maurizio e della sua risolutezza
nell’inseguire un tamburo ci incanta. La pellicola è destinata ai bambini ma
gli adulti non si annoieranno. Troppa la poesia, troppa la curiosità, troppa la
bravura dell’attore più giovane, Francesco
Tramontana, che ci porta nella fiumara, il campo giochi in cui può
fantasticare e raggiungere l’impossibile. Maurizio non conosce limiti, parla
con gli animali e punta al successo. In un certo senso è un vero super-eroe.
Asino
Vola, ti lascia un dolce retrogusto. Ti manda a casa con il
sorriso, con la voglia di lottare per i tuoi desideri e con una rinnovata
passione per la musica. Esatto, la musica è co-protagonista e sono sicura che
in molti, dopo aver visto questo film, avranno voglia di avvicinarsi a uno
strumento musicale per scoprirne la melodia.
dopo Grazie a Dio ecco un film documentario polacco sulle vittime dei preti pedofili e sui loro aguzzini.
è stato visto in Polonia da una ventina di milioni di persone e ha provocato qualche terremoto.
ci vuole forza e coraggio a fare un film così forte in un paese così fortemente cattolico, ma quando è troppo è troppo, evidentemente.
sembra un film gemello di quello di Ozon, parlano le vittime, quelle ancora vive.
un film che merita, doloroso e determinato - Ismaele
QUI il film completo, in
polacco con sottotitoli in italiano
…Il
docu-film presenta nuove prove sulla pedofilia di molti preti polacchi e di
come, invece di essere cacciati dalla chiesa o denunciati alla polizia, i
sacerdoti abusatori venissero semplicemente trasferiti in altre parrocchie. Un’altra
vittima, Marek Mielewczyk, racconta di aver subito abusi sessuali all'età di 13
anni. Il prete gli aveva ordinato “di non dire a nessuno quello che era
successo”, nemmeno durante la confessione. “Non dirlo a nessuno” affronta anche
il caso del reverendo Dariusz Olejniczak, che nonostante gli abusi a bambine di
7 anni, ha continuato a stare in contatto con i giovani per diverso tempo.
Domenica, il giorno dopo la pubblicazione del film denuncia, Olejniczak ha
annunciato che abbandonerà il clero…
… Tra i preti accusati di pedofilia dai
fratelli Sekielski c’è anche don Franciszek Cybula, ormai morto, che
tra il 1980 e il 1985 fu il parroco della parrocchia di Lech Walesa, l’operaio
e sindacalista che per anni ha guidato il movimento Solidarność ed è stato il
primo presidente della Polonia dopo la caduta del comunismo. «Sono così
sorpreso che non so cosa dire», ha detto Walesa al New York Times:
«Se io, come cattolico, avessi saputo, non avrei mai permesso una cosa del
genere».
Dopo la visione del video il primate di Polonia,
Wojciech Polak, arcivescovo di Gniezno, ha ringraziato i due fratelli che hanno
realizzato il documentario per il loro lavoro e si è scusato «per ogni ferita
inflitta dalla Chiesa». Anche il nunzio apostolico vaticano in Polonia,
monsignor Salvatore Pennacchio, ha portato le sue scuse e quelle di Papa
Francesco ai sopravvissuti…
il film sembra un gioco, un regista di film horror (Lucio Fulci in persona) comincia a essere ossessionato dalle storie terribili che filma, e incrocia uno psicopatico a cui si affida, è un incrocio e una lotta fra finzione e realtà. la storia è chiara e semplice, e però ha una sua dignità e profondità, e, sembra dirci, la realtà è molto peggio e più pericolosa della finzione. merita la visione, se uno può sopportare teste e braccia tagliate con la sega elettrica (nella finzione, naturalmente) - Ismaele
…L'idea di base è buona, ardita, intelligente: Fulci
butta in campo tutto il suo coraggio, ci mette la faccia in tutti i sensi, pone
parzialmente in discussione il suo ruolo di autore splatter negli ultimi anni
di carriera ipotizzando e poi smentendo nettamente un'ipotetica nocività a
livello nervoso di questo genere cinematografico, girando con molta autoironia,
seppur in modo autoreferenziale e grezzo, e tratteggiando un'inquietante figura
di psichiatra (categoria da lui mai troppo amata) completamente folle.
Un gatto nel cervello è stato uno degli ultimi film da lui
diretti, ormai malato e ancora sottovalutato, se non proprio stroncato, in
Italia dalla critica (mentre ad esempio in Francia era già apprezzato), alle prese
ormai da anni con produzioni e budget miseri, i quali hanno inficiato non di
poco le sue ultime opere. Qui, invece, abbiamo a che fare con un film
sperimentale e simpatico quanto si vuole e, a maggior ragione, ho voluto
rimarcare i pregi che questa "chicca" per appassionati
dell'innovativo "regista-artigiano" porta con sé, anche se non tanto
a livello realizzativo ma a livello concettuale. Volendo essere obiettivo e
sincero, però, è veramente un brutto film. E mi dispiace. A volte è proprio
vero che "chi ha pane non ha i denti e chi ha i denti non ha pane".
Il regista Lucio Fulci (nella
parte di se stesso!) è ossessionato dalle immagini crude contenute nei suoi
lavori. Dopo l'ennesimo incubo si reca dallo psicologo che lo convince di
essere l'autore di una serie di delitti. In realtà...Ispirandosi
(probabilmente!) in parte al romanzo di Clive Barker "Cabal" (del
quale nello stesso anno verrà girata la trasposizione cinematografica!) e
(ri)utilizzando sequenze dei suoi ultimi film (e qualche insert dai backstage!)
Fulci tenta la via sperimentale per raccontare quali potrebbero essere le
ossessioni di un intellettuale che ha spesso a che fare con immagini di
violenza che finiscono per ossessionarlo. Girato cucendo assieme maestria e
rozzezza infila anche scene ironiche ma banali (il finale sulla barca con
motivetto comico) per creare un interessante HELZAPOPPIN della follia
artistica. Eccellente gioco intellettuale!!!
Serie Z pura, film estremamente brutto
esteticamente e rozzo tecnicamente, ma a differenza degli analoghi americani
(vedi gran parte della produzione Troma) assolutamente intelligente, sopra le
righe, non gratuito e con numerose intuizioni geniali. Lucio Fulci protagonista (dimostrandosi un
discreto attore, purtroppo l’unico nel film) mette in gioco la sua persona, le
sue ossessioni, la sua malattia (nella realtà colpito da un’epatite virale) ed
il suo cinema (tutti gli spezzoni di scene horror mostrati provengono realmente
da suoi lavori minori, all’epoca inediti) con grande abilità ed autoironia,
riuscendo a fare di un film all’apparenza bruttissimo un lavoro capace di una
riflessione profonda e abbastanza complessa sul ruolo del regista, i gusti del
pubblico e i percorsi del cinema di genere (horror nel caso specifico).
Se
siete deboli di stomaco, Un gatto nel cervello non è certo il film che fa per
voi. La pellicola è infatti un campionario splatter,
un concentrato di scene truculente che non risparmiano alcun orrore: corpi
fatti a pezzi con la motosega, bambini decapitati, cadaveri in putrefazione con
tanto di vermi, arti che saltano via a suon di accettate; e ancora: orge
depravate, sesso e sadismo, necrofilia. Insomma, Un gatto nel cervello è
un film perverso e morboso, oltreché un gioiellino gore tutto
italiano. Si può dire infatti che sia uno dei pochi film italiani (e non) in
cui le sequenze splatter non rappresentano un di più, ma costituiscono
l’ossatura della pellicola: non si tratta di un thriller, né di un horror in
senso stretto, ma di una pellicola “gustosamente” gore. Un gatto nel cervello è certamente un film
innovativo, e ciò si vede innanzitutto da come Fulci ne imposta la trama. E’
egli stesso, infatti, il protagonista del film, un regista ossessionato da
visioni orripilanti e spaventose, preso di mira da uno psicopatico assassino.
E’grazie a quest’impronta (già di per sé originale) che Fulci può inserire
nella pellicola un elemento pressoché estraneo al cinema
horror-splatter: l’autoironia. Il regista romano non solo sceglie se
stesso come preda di turbe psichiche, non solo fa di sé la vittima ideale per
un crudele assassino, ma infarcisce il film di momenti risibili, faceti, che
controbilanciano la violenza efferata presente nella gran parte delle sequenze.
Inoltre, le visioni terrificanti a cui è soggetto il regista non sono altro che
scene di altri suoi film (Il fantasma di Sodoma, Quando Alice ruppe lo
specchio) o di pellicole da lui presentate (Bloody Psycho – Lo specchio, Non
aver paura della zia Marta): tutto ciò però non vuol essere assolutamente
un’autocelebrazione; al contrario, Fulci ironizza sulla sua opera, facendo dei
suoi film, che lo hanno reso immortale, il suo incubo peggiore: più autoironico
di così si muore!...
anche per chi non ha visto la serie, il film riesce a farsi seguire bene. è una piccola storia sul cinema, la tv, e tutto quello che c'è in mezzo e dietro, ma in fondo è una storia sull'Italia e i suoi (nostri) vizi. gli attori funzionano, il regista Renè Ferretti è bravissimo a galleggiare in un mare complicato e ostico. anche Boris fa la sua figura. un piccolo film da non perdere - Ismaele
…Il salto di Boris dal piccolo al grande schermo, ma
soprattutto da un pubblico di nicchia al grande pubblico, "laurea"
definitivamente i suoi tre autori con lode, per l'umorismo finissimo (anche
laddove fa della volgarità il suo humus), lo sguardo implacabile, la scrittura
diretta e coraggiosa, la capacità di scelta (nell'abbondanza da loro stessi
prodotta, in fase di sceneggiatura e di riprese) e soprattutto l'eleganza e la
coerenza con cui sono passati dal ritrarre la televisione in televisione al
fotografare il cinema nel cinema. Non di parodia si tratta, infatti,
spessissimo, ma di fotografia vera e propria, ritoccata ad arte e virata sul
comico. Sono tante le
battute o le scene del film che potrebbero essere estrapolate come costole per
offrire un'idea dell'organismo nel suo insieme; dal produttore cinematografico
che spiega: "non c'ho i sordi per tutta 'sta sensibilità", al regista
che paventa: "non si esce dalla televisione, è come la mafia, non se ne
esce se non morti". Ma è nella scena in cui Antonio Catania alias Lopez
immagina il destino di René qualora lo abbandonasse per passare alla
concorrenza e, dopo avergli fatto chiudere gli occhi, gli riappare davanti
uguale identico a pochi secondi prima esclamando: "eccola la concorrenza!",
che il film si rivela maggiormente. Nella terribile verità di quello sketch ci
sono, infatti, sia un'indicazione di tono, cinico, dissacrante, spoetizzante,
sia l'indicazione sulla natura dell'umorismo in gioco -si ride per non
piangere- sia la lucidità e la schiettezza di sguardo e parola rispetto
all'argomento trattato, vale a dire lo stile, che fanno di Boris qualcosa di
unico in Italia. La prima vera serie
televisiva italiana di qualità (che aveva per soggetto la pessima qualità della
televisione italiana) si congeda dagli schermi, parrebbe, con questo maxi
episodio dedicato al mondo del cinema nostrano, massacrandone il mito con
straordinaria capacità di sintesi e umorismo, nonostante il cinema non solo
abbia già raccontato spesso il suo dietro le quinte ma soprattutto abbia sempre
avuto maggior autoironia rispetto alla nipotina televisione…
…Perché, al di là del giudizio non completamente positivo
sull’insieme dell’opera, Boris – Il film va difeso perché ha il coraggio di inserirsi nel
contesto della commedia nostrana da box office – zona liminare piuttosto
intasata nel corso degli ultimi anni – operando una scelta popolare e mai
populista: per questo la critica ai cinepanettoni, pur “semplice” nella sua
goliardia visiva, coglie decisamente il nocciolo della questione. Certo, è
indubbio che nel complesso la serie vinca a mani basse nel confronto diretto
con il film, ma nel passaggio tra due medium espressivi troppo spesso
assimilati senza una reale ragione, ha la capacità di non disperdere il motivo
della propria esistenza: Boris – Il film fa ridere, a tratti in maniera quasi irrefrenabile, e
allo stesso tempo dimostra di avere le capacità per raccontare a un pubblico
italiano inebetito da una pletora di commediole senza arte né parte, la
mediocrità di una “nazione dello spettacolo”, anche nei tratti meno
immediatamente percepibili. In attesa di capire come reagiranno le masse, il
bicchiere appare comunque mezzo pieno. Un (piccolo) passo in avanti è stato
fatto. Buon(in)a la prima…
…L'autoconsapevolezza di Boris è più
profonda, struggente: perché non c'è vittimismo, perché i suoi protagonisti
sono frutti, certo, ma anche, insieme, responsabili dell'immaginario di un
Paese. Perché se René non riesce a liberarsi dal linguaggio e dal mondo della
Tv è – ed è ciò che determina lo spessore dello script - anche colpa sua.
Perché, in fondo, si tratta di una tragica questione antropologica, di un
circolo vizioso soffocante. “Non si esce dalla televisione: è come la mafia,
non se ne esce se non da morti”…
se pensi
che sia un film noioso, documentaristico, a tesi, estremista, mangiapreti
evidentemente non hai visto il film.
e non saprai mai che grande film ti perdi, se
non lo cerchi in uno dei (pochi, solo una trentina) cinema dove viene
proiettato.
Grazie a Dio è parente stretto di questo film, sempre francese, nel quale le
vittime trovano la forza e il coraggio di agire, sostenendosi reciprocamente,
anche per chi non può o non c'è più.
con François Ozon non si sbaglia mai, buona visione - Ismaele
ps: ecco qui il sito francese protagonista di Grazie a Dio.
Dice Mons. Milani
«Il film mostra la nascita e l'azione
dell'associazione La Parole Libèrèe, che ha dato coraggio agli abusati per
accusare Preynat, ritrovare dignità, ricostruire l'entità dei reati,
costringere la Chiesa a prendere provvedimenti», scrive Mons. Milani. «Il
limite è che si ferma qui, quando la vicenda non era chiusa e in questo modo
altri fatti avvenuti dopo non vengono presi in considerazione». E aggiunge: «Il
tema non è nuovo, ma l'approccio è talmente originale da raccomandarne la
visione: per capire come sia altrettanto colpevole non considerare le
conseguenze di questi reati sulle vittime e archiviare un abuso sessuale come
effetto collaterale della malattia di un reo confesso».
...Collettivo e al contempo intimo, mettendo per la prima volta al centro
storie maschili e non femminili, il nuovo lungometraggio di Ozon sovverte lungo
la storia le apparenze del processo narrativo, così come le apparenze ingannano
dietro la tonaca: quello che pareva il protagonista principale, Alexandre
(Melvil Poupaud, vera star del cinema d’autore francese, lanciato da Eric
Rohmer), al quale spetta il grande merito di aver lanciato il sasso nello
stagno, lascia improvvisamente la scena a un secondo personaggio, Denis, che si
potrebbe quasi definire protagonista al pari di Alexandre. Ma anche questo
secondo “protagonista” dovrà poi lasciare il posto a un terzo, Emmanuel. Per
poi tornare tutti insieme, in un’alchimia collettiva, forte quanto delicata.....20% … 60%
...Con molta finezza, trovando sempre il momento e il modo giusto per una
forma di leggerezza e delicatezza, senza nulla togliere alla gravità della
questione trattata, il regista francese, che firma anche la sceneggiatura, non
riduce il film a una dimensione illustrativa o documentaria, anzi la usa per
farne un’opera a più livelli permettendogli di porre uno sguardo etico senza
che si risolva in facile moralismo.
… Tutti i leimotive di
Ozon ritornano nel film, configurandolo come un’indagine sui meccanismi
familiari, coniugando un film di denuncia, un film-inchiesta che riassume un
caso che non può non riguardare tutta la Francia con una parte più teatrale,
radicata nell’ambito sentimentale dei protagonisti, ai quali il regista
aggiunge poco o niente, limitandosi a concentrarsi molto sulla direzione
attoriale passando come autore più in secondo piano, scelta comprensibile per non
alterare troppo un equilibrio elegante venutosi a formare durante la fase di
scrittura. Per certi versi magari Grazie a Dio è un’opera
scolastica senza nerbo in alcune parti, ma non si può trascurare la finezza con
cui Ozon allinea i vari intrecci ed elabora i personaggi con due ordini di
ripartizioni. Uno Spotlight meno stitico e ruffiano, più
sagace e sottile.
...il film, che diventa una "rete" di
destini (stile Micheal Haneke prima maniera) è coraggioso e resta
insostenibile, sia per i dialoghi che per le prove maiuscole degli attori, in
particolare delle attrici. Il tutto sembra/è piuttosto affettato ma ognuno
esprime il Sé stesso come se avessero vissuto davvero quei drammi. Un film
importante anche con il limite, appunto, di diventare troppo
"rotocalco" di essere impostato troppo sulla sua sacrosanta condanna
morale. Non il miglior Ozon in assoluto, ma di certo quello che ricorderemo di
più in futuro
… Uomini fragili più del normale, più
esposti ad alterazioni dell’equilibrio psicofisico, spesso aggrediti da ritorni
d’immagine, un vissuto che non si dimentica cammina con loro e stabilisce anche
la qualità dei rapporti con gli altri, la famiglia in primis.
Dall’individuo alla società, Grazie a Dio è uno spaccato lucido,
sobrio e severo di un mondo segnato da tare di vario genere: egoismo, indifferenza,
perbenismo, pregiudizio, violenza.
A pagare stavolta sono i bambini,
esercitare fascino su di loro è facile, usare violenza altrettanto. Le loro
strade proseguiranno comunque, anche infiorate da successo, come Alexandre,
manager al top che sforna cinque figli, li battezza, li cresima, li porta a
messa ogni domenica, ma alla domanda finale del figlio più grande: “Papà, ma tu credi ancora in Dio?” non risponde.
Se c'è qualcosa che ci colpisce
profondamente del nuovo film di François Ozon, è l'abilità camaleontica del
cineasta parigino, capace di passare da commedie e drammi aggressivi sul piano
narrativo e visivo a un solido film che bandisce completamente qualsiasi forma
di tensione melodrammatica, preferendo mettere in scena un racconto privo di
coinvolgimento sentimentale (tranne alcune sequenze dimenticabili). Ma anche
questa scelta, forse, soprattutto considerando ciò di cui "Grazie a
Dio" parla, ci restituisce la personalità di un regista deciso a portare
fino in fondo un lavoro di analisi e comprensione dell'essere umano che non
accetta compromessi…
…La " lezione " morale (ed
estetica) del regista, anche sceneggiatore dei suoi film, scaturisce non da un
" a priori " che si cala nella vicenda e nelle immagini di cui questa
è rivestita, ma dalla reazione intellettuale e dalle emozioni visive dello
spettatore, posto di fronte alle semplici, nude risultanze di quanto viene
offerto al suo sguardo. Cinema, pertanto, di grande suggestione, che fa appello
alla sensibilità e all'autonomia di chi osserva e che di queste si alimenta,non
cibo precotto nel solo immaginario dell'autore e scodellato in tavola. Film in cui il dialogo e la recitazione sono
altrettanto importanti , se non di più, dell'elemento puramente visivo, "
Grazie a Dio " si avvale di una eccellente interpretazione di Melvil
Poupaud ( il protagonista ) coadiuvato in modo egregio da due altri attori poco
conosciuti da noi ma assai validi, Denis Ménochet e Swann Arlaud nella parte
degli amici. Girato con uno stile che diremmo da inchiesta televisiva (
abbondanza di primi piani, montaggio serrato) il film lascia pienamente
soddisfatti e, dopo un moderato successo in Francia ( paese troppo laico, forse
, per apprezzare fino in fondo i temi del film)si raccomanda ora ad una
difficile, ancorchè non impossibile carriera in un paese come l' Italia in cui,
ad un cattolicesimo di facciata, fa da molto tempo riscontro un sostanzioso
agnosticismo. Importante comunque vederlo, al di là del problema religioso e
morale che agita, per apprezzare un'ottima pagina di cinema ed il coraggio di
un autore sempre più completo.
peccato che Sergio Corbucci non abbia portato a termine il film, pare abbia girato la prima metà lui, e la seconda metà Antonio Margheriti. il film è tratto da una storia di Edgar Allan Poe, e racconta di una scommessa, fra la vita e la morte. si inizia ridendo e scherzando, come accade in tutte (o quasi) le storie dell'orrore che si rispettino, e poi si cade in un buco nero da cui l'uscita è impossibile. il film è un gioiellino in cui tutte le cose sono al loro posto, ci sono le giuste dosi di spavento e quanto basta di umorismo nero. davvero un gran bel film, non trascuratelo - Ismaele
Danza macabra è un film
bellissimo. Ottima la storia (del resto Poe non era uno sprovveduto) atmosfere
gotiche degne del miglior Bava, fotografia curata e bellissimo b/n. La Steel è
bellissima e bravissima ma degna di nota è anche l'incantevole Margarete
Robsahm che innesca una morbosa scena saffica proprio con la Steel. Audace
anche per i tempi in cui è uscito perché oltre all'immaginario horror c'è una
componente erotica (e sentimentale) che non lascia indifferenti. Se siete
amanti del genere horror vecchio stile è un film da vedere senza esitazione.
…Danza macabra è
un film dolce, sensuale e funereo, un noir che probabilmente ha sorpreso anche
il regista, di cui si può ben distinguere l’impronta. La sfacciata sensualità
delle protagoniste e la scena saffica oltre a far scalpore per l’epoca, sono
precursori di un cinema che ben presto sarebbe diventato cult. Ma
necessariamente bisogna sottolineare altri pregi che hanno fatto sì che questo
film sia considerato uno dei migliori film horror-gotici italiani. L’attenzione
dello spettatore e la sua meraviglia, di fronte a cotanta lascivia, si
amalgamano alla giusta trepidazione per l’ attesa del momento culminante;
l’Eros e il Pathos, mantengono alta la tensione, una storia d’amore in un incubo,
un incubo che diventa, nel suo culmine, l’inizio di una storia d’amore che va
aldilà della vita...
Danza Macabra rappresenta sicuramente l’opera omnia di Antonio
Margheriti (qui firmatosi Anthony Dawson) ma soprattutto il clou dell’horror
gotico italiano. Pellicola inizialmente commissionata a Sergio
Corbucci dagli sceneggiatori (fra i quali anche il fratello Bruno), Danza
Macabra trovò la propria potenza espressiva solo grazie ad un Margheriti alle
prime armi nel genere gotico. Lo stesso regista, consapevole delle difficoltà
che avrebbe avuto nel ritentare una simile impresa, ha sempre riconosciuto
questo film come il suo grande capolavoro. Nel cast compare il nome di una grande Barbara
Steele, fossilizzata sul genere grazie a grandi registi quali Mario Bava e
Roger Corman (e nuovamente con Margheriti in “I Lunghi Capelli della Morte”) e
sempre incastonata nei suoi ruoli. Fra gli addetti ai lavori invece Riz Ortolani,
musicista agli esordi di una carriera promettente ed il giovane aiuto-regista
Ruggero Deodato (entrambi avrebbero fatto tremare il mondo nel 1979 per
l’inaudita violenza dell’esplicito “Cannibal Holocaust”). Danza Macabra è un film stilisticamente
perfetto, impeccabile sia sotto il punto di vista narrativo che da quello
prettamente orrorifico. Spettri, vampiri, mummie e zombi si intrecciano in un
crescendo di emozioni gotiche dalle delicate venature lesbo (abbastanza
espliciti i baci e gli sguardi fra le due conviventi). Una sola pellicola in grado di fondere i
capolavori di Freda, Bava e Caiano ma soprattutto di anticipare e condizionare
il cinema di genere.
…Au
début des années 60, l'Italie se met à produire avec un certain succès des
films d'épouvante très inspirés par les productions anglo-saxonnes. Alors
que IL MONACO DI MONZA est en train de se tourner sous la
direction de Sergio Corbucci, le réalisateur du film et
le scénariste Giovanni Grimaldi, pensent exploiter le
filon de l'horreur gothique. Pour cela, ils écrivent un scénario qui prend
place dans les décors de IL MONACO DI MONZA, une comédie en
costumes. Une astuce de façon à produire rapidement un film tout en opérant une
économie substantielle pour la production. Logiquement, le film aurait dû être
réalisé par Sergio Corbucci mais cela ne va pas se
dérouler exactement comme prévu. Engagé dans un autre projet, Sergio Corbucci ne peut assumer la
réalisation de DANSE MACABRE. Il n'est alors pas possible
d'attendre que le cinéaste italien se libère car les décors du film précédent
doivent être démontés. Sergio Corbucci suggère alors d'en proposer la
réalisation à Antonio Margheriti.
Le réalisateur
italien va alors utiliser son pseudonyme habituel, Anthony Dawson, et prendre
les rênes d'une production qui doit se boucler dans l'urgence. La distribution
est d'ailleurs déjà faite, le rôle principal reviendra à Barbara Steele. L'actrice est alors très en
vue dans le domaine de l'épouvante suite au succès du MASQUE DU DEMON de Mario Bava. Dans l'intervalle, elle sera
ainsi apparue devant la caméra de Riccardo Freda pour L'EFFROYABLE SECRET DU DR.
HICHCOCK et LE SPECTRE DU DOCTEUR HICHCOCK mais
aura aussi tourné pour Roger Corman dans LA CHAMBRE DES TORTURES.
Si l'épouvante italienne est surtout influencé par les productions britanniques
de la Hammer Films, DANSE MACABRE lorgne
justement du côté du cycle de films inspirés des écrits d'Edgar Allan Poe et réalisés par Roger Corman pour le compte de
l'A.I.P. Dans le métrage réalisé par Antonio Margheriti, le fameux écrivain
apparaît dans le prologue et l'épilogue de l'histoire. Toutefois, en dehors de
cette «présence» prestigieuse et le fait qu'il soit crédité au générique, DANSE
MACABRE n'est pas vraiment une adaptation d'une œuvre existante de
l'auteur. Par contre, le scénario s'amuse à nous présenter un Edgar Allan Poe affirmant que ces
œuvres ne sont pas de la fiction mais seulement la retranscription de faits
divers réels. L'aventure d'Alan Foster sera ainsi, pour l'écrivain, une
nouvelle histoire vraie a relater…
musica, colori, movimento, violenza e la straordinaria interpretazione di Joker non ti fanno annoiare. il film non fa impazzire, almeno a me non è successo, e però merita la visione, di sicuro per Joaquin Phoenix. dentro c'è di tutto, politica, servizi sociali, solitudine, accelerazioni e citazioni. mai prendersela con i clown, non sai cosa rischi. al cinema rende di sicuro più che alla tv di casa, su questo saranno tutti d'accordo. e allora, buona visione in sala - Ismaele
…Ok, il film.
Meraviglioso.
Un film praticamente perfetto, in ogni singolo aspetto in cui possiamo vederlo.
Cinematograficamente uno spettacolo, dinamico, inquadrature una più bella dell'altra, fotografia eccellente, scene dirette magistralmente, anche quelle più concitate e d'azione (dai, basta quella corsa nel prologo per capire il livello).
Poi c'è lui, Phoenix, in una delle più grandi interpretazioni degli anni 2000. Lui è già grande di suo ma se poi gli affidi il ruolo della vita, quello dove poter mettere Joaquin insieme a Phoenix ,allora crei una bomba atomica praticamente devastante.
Poi c'è la componente tematica, anche questa di grandissimo spessore. Niente di nuovo (ma esistono tematiche nuove?) ma è impressionante come questo film riesca ad essere incisivo in quello che racconta.
E poi c'è la componente che forse rende Joker un vero capolavoro, quasi un aspetto "fortunato" (o forse no, forse Joker è uscito adesso apposta).
Perchè questo film, pur essendo ambientato in altra epoca, non poteva essere "più perfetto" nel 2019 rispetto a qualsiasi altra decade, qualsiasi.
Perchè è un film che racconta di un mondo al collasso, di un mondo che non ce la fa più, di una rabbia repressa che si accumula, di un pianeta di ultimi e di oppressi che è arrivato allo stremo.
Dirò di più, il personaggio di Phoenix non rappresenta solo un uomo, non rappresenta solo una categoria di uomini, nè una città, nè una nazione.
Joker sembra proprio l'intero nostro Pianeta Terra, un Pianeta martoriato, vessato, ferito, non rispettato, sfruttato e torturato dai potenti.
La ribellione di Joker è un'apocalisse privata che sembra tanto un collasso mondiale, uno tsunami, un terremoto, una bomba atomica…
Già sovrastano i titoli delle recensioni più entusiastiche: il primo cinecomic drammatico. Premettendo che probabilmente non è vero, e che già tanti altri cinecomic belli o brutti hanno preso pieghe drammatiche decisamente più interessanti e innovative, possiamo dire che Joker è un film fallimentare, residuo informe di un immaginario hollywoodiano cinematografico che ha preso ormai un’unica direzione, quella dell’enfasi gratuita e dello spiegone che chiarisca allo spettatore (preso per stupido 9 volte su 10) tutti i possibili punti oscuri. Nel caso di Joker, ciò avviene anche quando quei punti oscuri sono in realtà chiarissimi, evidenti fin dall’inizio, ma a quanto pare da privare di qualsiasi ambiguità. Non sia mai che qualcosa non sia chiaro. E quindi via di piccoli flashback riassuntivi, ridondanze narrative e filler inutili, o meglio, utili solo a farci godere un po’ Phoenix che ride, urla, sbraita, si contorce e parla da solo. Per entrare nel dettaglio, è bene chiarire che la regia di Todd Phillips non esiste. E se esiste, il montaggio non ce la fa vedere. Ogni momento potenzialmente intenso è stroncato da tagli violenti che interrompono qualsiasi suggestione, come se il film volesse mantenersi su una medietà più prudente ma comunque incisiva sulla carta. I momenti di delirio di Phoenix non sono mai delirio, sono sempre vissuti da fuori, il distacco è sufficiente affinché possiamo capirne le motivazioni pseudo-psicologiche che il film accampa con una banalità che è meglio tacere. La scrittura è invece devota alla fantapolitica più elementare e scontata, figlia delle divagazioni nolaniane della trilogia di Dark Knight, qui evidente riferimento (anche se un momento è preso paro paro dal Batman di Tim Burton, 1989, ancora capolavoro incontrastato). I plot twist, che chiaramente si riallacciano alla mitologia di Batman, sono prevedibili e privi di qualsiasi novità, se non su un piano narrativo che viene molto presto rimosso per dar spazio ad altro, a mo’ di lima, di sfrondo che semplifichi la confezione. E infine, quello stesso universo supereroistico viene arrogantemente e anche un po’ infantilmente accostato all’universo scorsesiano di uomini disperati che vivono in un mondo disperato (ma che qui ha al massimo la logica del liceo in cui ci sono i bulli che fanno del male al malcapitato ragazzo un po’ diverso; c’è giusto un po’ di sangue a sorpresa in più, e manco tanto). Forse sarà impossibile evitarlo quando uscirà, è già il film più discusso dell’anno, in corsa agli Oscar e a tutti i premi coevi. Legittimo però, visto quella sola informativa volta, ignorarlo per sempre
,,,il film è soprattutto il one man show di Joaquin Phoenix, incontenibile, versatile e strabiliante con o senza la maschera grottesca che gli incornicia il viso in un ghigno di crudele follia. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a un campione di una compagine sportiva lasciato libero di esprimersi a suo piacere a patto che porti a casa il risultato anche per gli altri. Joaquin di certo lo fa, perché accanto a lui a fare un figurone sono il regista e gli altri attori, davvero di contorno (anche Robert De Niro) rispetto agli assoli di Phoenix. Comunque la si pensi, siamo di fronte a un modello di recitazione degna del miglior Actor's Studio, dunque a quell’immersione totale nel personaggio che ha come contropartita gli eccessi legati al surplus di enfasi dovuto al fatto di recitare a briglie sciolte. In realtà, considerata la natura a dir poco sopra le righe del protagonista, certi surplus di ego ci possono pure stare. Certo, siamo lontani dalla rigorosa sobrietà di Jean Dujiardin (anche lui candidato a vincere un premio come migliore attore) e non c’è dubbio che quando si muove a passo di danza, oppure mentre si rivolge all’interlocutore con dei primi piani degni del Perkins di "Psyco", la performance del nostro diventa davvero irresistibile.,,
…Capolavoro o film mediocre, critica sociale o trionfo degli istinti incel, cinecomic o no, Joker nasce con un grosso budget e forse l’idea, in sé banale e al contempo abbastanza originale, di scontentare ugualmente tutti. Joker è un blockbuster-bait, un testo esca, o meglio ancora un epitesto dei commenti-rete a strascico che, nella congiuntura storica attuale, è impossibile isolare dal corpo testuale del film. Come ha osservato ancora Lane, ogni elemento del film, dai discorsi prima del lancio alla presentazione a Venezia, sembra essere stato studiato per suscitare la polemica: ciò che a noi pare funzionale a un dibattito (incluso questo articolo), in realtà è un servizio al dipartimento di marketing della Warner Bros.
Poco conta che il film sia ambientato in un’era pre-social media. La democratizzazione e al contempo la crisi dell’attività interpretativa e argomentativa messa in atto dai social network (anche questa rassegna di idee è viziata dalla personale filter bubble di chi scrive), e resa in essere dallo scontro sistemico e quotidiano di posizioni che si dispiegano sotto forma di commenti, articoli, litigi sulle ecologie mediali che abitiamo, fa un servizio a Joker. Vero e proprio testo-trickster, Joker è confezionato a questo scopo da professionisti che continuano a lavorare in una industria motivata da profitti: Phillips dà un colpo al cerchio e uno alla botte purché se ne parli, forse proprio come lo humour “politicamente scorretto” del resto della sua filmografia.
La discussione su Joker continuerà per anni o sarà dimenticata tra poco? La compressione spaziale e temporale del tardo capitalismo informatico in cui viviamo, la stessa che genera il film e ne anticipa e accompagna il discorso, è talmente accelerata che questa meta-recensione, scritta all’incirca una settimana dopo l’uscita del film, non solo è già incompleta e selettiva, ma anche obsoleta. La recensione non parla più del film ma del discorso sul film, aspetti che sembrano ormai inscindibili fra loro. Il fatto che sia stata una “Top Five” si deve al tentativo di arginare il pericolo che il vostro indice o pollice si possa trovare da un momento all’altro orfano di un titolo corrente, e dunque immediatamente portato ad abbandonare la lettura e rivolgersi a un altro link o a una notifica in arrivo.
In un futuro prossimo, le intelligenze (o deficienze) artificiali scriveranno sia i film che le recensioni, mentre forse gli umanisti saranno fuori, a sparare come il Joker.
…La brutta giornata di Arthur Fleck è figlia di due punti di rottura, che riescono a tranciare quel sottile filo di sanità mentale che ancora esisteva (resisteva?) nel protagonista. La prima crisi è rappresentata efficacemente dall’acquisizione di una pistola. Metaforicamente, quest’ultima dona al vessato di turno una roccaforte in cui rifugiarsi, un bastione in cui difendersi. La pistola fa assaporare un illusorio potere, che paradossalmente, però, non dona al portatore una vera sicurezza ma un’ulteriore vulnerabilità. La follia parte da una pallottola sparata per legittima difesa condannando Arthur a una strada da cui non c’è via d’uscita. Quest’ultime – le vie d’uscita – sono agognate da tutti ma ancor di più dai disperati, che ne anelano l’esistenza, ne anticipano l’arrivo, spesso, svelandone la loro natura “facile”, “comoda”.
La via più semplice è spesso una trappola da cui non si può fuggire e Arthur ne farà le spese. Ma certamente non è solo colpa di chi riceve e acquisisce ma anche di chi dà, e qui troviamo la prima critica importante al sistema statunitense, che spesso regala facili vie di fughe a buon prezzo attraverso il folle e permissivo mercato delle armi. Arthur è un uomo che ha bisogno d’aiuto, è esposto al pericolo di essere schiacciato e la risposta della “società” è di “regalargli” una pistola. La fiamma è vicino alla miccia, che si accende e consuma senza soluzione di continuità. Unica speranza rimasta al futuro Joker è l’assistenza sanitaria che gli permette di poter parlare con specialisti e di accedere a medicinali altrimenti inaccessibili a un modesto cittadino come lui. L’aiuto sanitario statale è la classica “via più difficile”, quella in cui sia chi dà che chi riceve deve mettere tutto se stesso per poter assaporarne i risultati. Tale metodo è un patto tra le due parti, un impegno umano, sociale e morale che vincola e rassicura. Purtroppo, e qui siamo nell’ambito della seconda critica che l’opera apporta al sistema americano, il servizio statale chiude i battenti per mancanza di fondi. Le parole dell’assistente sociale appaiono come una verità e una condanna allo stesso tempo: “a nessuno di loro importa nulla delle persone come te e in realtà neppure delle persone come me”.
La paralisi è totalizzante, pervasiva e lascia nelle mani del vessato poco e nulla. Ma siamo in America, quindi ad Arthur resta poco, nulla e… una pistola. Il dado è tratto, la strada verso la distruzione spianata, e la colpa è di entrambe le parti ma la bilancia delle responsabilità sembra pendere maggiormente dal lato della collettività, esempio fulgido di mala organizzazione e indifferenza verso il prossimo…
…In quanto puro spettacolo, al netto di un finale frettoloso e un po’ deludente, Joker è di prim’ordine: dalla fotografia alle scenografie, dalle scene di violenza (quella in metropolitana è già un classico) all’interpretazione di Joaquin Phoenix, su cui chiaramente lui ha lavorato con la stessa serietà che si riserva oggi alla preparazione di un biopic a caso, o comunque di un ruolo “importante”, di quelli “da Oscar”, tutto si somma alla perfezione. È exploitation di serie A. Non dice un cazzo ma lo dice benissimo.
Il guaio è che Todd Phillips qualcosa invece lo vorrebbe anche dire. Ma appena apre bocca, tutto quello che esce è di una banalità micidiale. Il suo Joker è l’ennesimo matto che sbrocca perché la madre lo trattava male e la società lo tratta male e la gente fa schifo una volta qua erano tutti campi e ci si conosceva per nome adesso invece sono tutti maleducati. Con tutte le sue buone intenzioni di creare un nuovo villain scorsesiano memorabile, il film finisce solamente per confermare ancora una volta la dura legge del prequel: che se racconti troppo di un’icona, la svilisci…
…Tutte le discussioni sul pericolo emulazione, il timore di sparatorie in sala nel paese in cui le armi automatiche le trovi in omaggio nei sacchetti di patatine, vanno necessariamente inquadrate in una premessa e una considerazione. La premessa è che qualsiasi cosa può esercitare un'influenza pericolosa su una mente squilibrata, da una certa canzone dei Beatles, metti, alla Bibbia o alle palline di mais al formaggio. E non puoi censurare per questo l'arte, per la semplice ragione che altrimenti dovresti eliminare le favole e praticamente qualsiasi altra forma di narrazione. Ma qui si è nel clubbino del videoludo, sapete bene di cosa parlo.
La considerazione, data la premessona da mani avanti qui sopra, è che un soggetto che si senta ai bordi dell'esistenza, rifiutato dal sistema, possa trovare facile in Arthur un simbolo, tanto quanto avviene nel film per chi indossa le maschere da clown. Questo perché la pellicola di Phillips ti porta ad empatizzare con il personaggio, sottolinea come ogni data azione violenta di Arthur sia rivolta a chi gli ha fatto del male, lo ha attaccato, ha provocato o accresciuto i suoi traumi psicologici. Sia meritata. Sia, almeno fino a un certo limite, giusta. Il Joker di Phillips è un Punitore triste con la risata incontrollata, un Giustiziere della Notte, e come tale viene visto nella storia dalla parte di Gotham che si sente parimenti lasciata fuori dalla società dei ricchi e dei potenti…
non tutte le ciambelle escono col buco, direbbe un pasticciere. non è facile per un regista cambiare paese, solo perchè la produzione del nuovo paese finanzia il film. non si parla di Billy Wilder, che cambiò paese, definitivamente. penso a un regista iraniano che ha girato un film a Parigi (lì c'era un iraniano nella storia, almeno), nel film di Koreeda tutto il film è ambientato a Parigi, con personaggi francesi, nessuno giapponese. non dico che è un brutto film, solo che ha perso l'anima, i ritmi, l'alito della storia nipponica. non è facile fare un salto mortale così, pochi ci riescono, Denis Villeneuve, per esempio. e però il film merita lo stesso, con due protagoniste bravissime - Ismaele
…Con Le verità il
regista dà vita a un film sospeso tra commedia e dramma, lieve in superficie ma
turbato nel profondo da inquietudini esistenziali sul punto di esplodere, in
cui il tema dominante è la riflessione sulla percezione della verità e della
menzogna, sul loro stretto legame, sulle loro ricadute indirette, quando esse
diventano ineluttabilmente strumento di equilibrio delle relazioni famigliari e
non. Crudeli verità e innocenti bugie si sovrappongono e confondono: la
famiglia come il regno della finzione, sembra suggerire sottovoce il regista, e
viceversa, con il cinema che sua volta trae linfa dal privato (non a caso una
buona parte del film si concentra sulle peripezie della lavorazione di una
pellicola a cui prende parte la diva protagonista). Verità e menzogna che peraltro erano già state
al centro di un altro film di Koreeda, The Third Murder,
passato sempre a Venezia nel 2017, ma con esiti, pur
nelle diversità di genere tra i due lavori, ben diversi. Perché
sfortunatamente, per noi che amiamo il cinema di Koreeda, Le verità è
un’opera minore nella filmografia del regista, la meno appagante tra quelle che
portano la sua firma. Dimenticate la naturalezza dell’umanità raccontata per
sottintesi, silenzi, non detti e quel continuo gioco di distanze tra lo sguardo
del regista e i personaggi che hanno fatto grande il cinema di Koreeda: Le verità appare
in tutto e per tutto un film francese per un pubblico europeo, molto parlato,
con inquadrature per lo più schiacciate sui volti dei protagonisti, appiattito
– per non dire annichilito – dalla presenza scenica della Deneuve (magnifica,
non c'è dubbio) che come un magnete attira tutta su di sé l'attenzione dello
spettatore dall’inizio alla fine. Si faticherebbe a riconoscere la mano del
regista se non leggessimo il suo nome nei titoli di coda.
Nel suo viaggio in Europa Koreeda perde quindi per strada molta della sua
cifra autoriale, mostrandosi incapace di incidere con il suo stile in un
contesto a lui nuovo. E così alla fine resta il mistero sul perché il regista
abbia accettato di spostarsi per dirigere un film che avrebbe potuto
tranquillamente realizzare in Giappone, evitando di doversi adattare – e forse
scendere a compromessi – in una realtà sconosciuta. Non è il primo caso di
regista asiatico che fallisce nelle mani del sistema delle produzioni o
coproduzioni straniere: forse andrebbe aperto un dibattito sulle ragioni di questa
tendenza. La lista di nomi è lunga, ma soprattutto i produttori francesi (forse
per le loro maggiori ingerenze?) sono quelli che hanno inanellato le più
cocenti delusioni: per restare al periodo più recente, pensiamo a cineasti
come Lou Ye con Love
and Bruises, Johnnie To con Vendicami, Naomi Kawase con Vision, Hong Sang-soo con Claire's Camera, film che sicuramente non sono da
annoverare tra le migliori opere dei rispettivi autori.
…Le verità tenta
di replicare nel nuovo contesto le atmosfere all’insegna delle nuances, e la
problematizzazione di sguardo, che hanno reso fondamentali lavori come Little Sister o Un
affare di famiglia; ma la levità costantemente ricercata dal regista,
i toni che si fermano a un passo dal dramma esplicito, andando poi a flirtare
con la commedia, appaiono qui leggermente forzati. Si avverte che il soggetto,
nato altrove e probabilmente con altre premesse, ha finito per adattarsi in
modo troppo marcato ai gusti del “medio” pubblico mainstream europeo, fidando
quasi completamente su una Deneuve che riempie lo schermo, e su una Binoche il
cui personaggio richiama una catarsi emotiva che semplicemente non arriva.
Al di là dell’inconsistenza delle figure accessorie (tra
queste inseriremmo anche il personaggio del marito di Lumir, interpretato da
Ethan Hawke) il problema di Le verità sta proprio
nella difficoltosa conciliazione tra i temi del regista con un contenitore
narrativo che tende inevitabilmente a normalizzarne (e appiattirne) lo sguardo.
In questo senso, la stessa ambientazione cinematografica, e il ragionamento
sull’arte del recitare e sulle sue implicazioni, appaiono motivi pretestuosi,
al di là della scontata identificazione tra la figura di Fabienne e la sua
interprete al di qua dello schermo. D’altra parte, i segni e i riferimenti al
suo cinema che il regista inserisce (la caduta delle foglie dagli alberi, il
generale clima autunnale della storia, il poco invasivo commento musicale)
sembrano più contentini dati al suo pubblico, riferimenti a una poetica che qui
fatica ad adattarsi al nuovo contenitore. Un contenitore che ha portato il
regista nipponico a quello che risulta finora l’episodio più debole della sua
carriera, tenuto in piedi solo dal mestiere suo e da quello del cast: ma il
cinema di Kore-eda, finora, aveva mostrato ben altra sostanza.
…Caratterizzato da una storia quasi tutta al femminile,
sebbene i personaggi maschili di contorno svolgano al meglio le proprie
funzioni, Le verità è un film gradevolissimo, lieve ma non
superficiale; capace di commuovere, anche e soprattutto grazie alle brillanti
interpretazioni delle due protagoniste, come anche della piccola Clémentine
Grenier, attrice che interpreta Charlotte. I tanti non detti di una vita, le
divergenze che in realtà legano due donne pienamente in grado di capirsi, si
concentrano nel tormentato ricordo di Sarah, amica, collega e rivale per
Fabienne e seconda madre per Lumir, la cui prematura scomparsa ha avuto un
impatto fortissimo su entrambe, tanto da essere ancora in qualche modo presente
nella vita delle due donne. L'amore e il rancore che legano Fabienne e Lumir
sono trattati da Hirokazu Koreeda secondo i dettami più tipici della
produzione francese, in modo così rigoroso da far perdere al regista giapponese
un po' del suo tocco. Lo stile di Koreeda resta ben evidente solo in alcuni
brevi inquadrature e in un finale che, forse in conseguenza di ciò, risulta
essere quasi accessorio rispetto alla perfetta scena conclusiva appena
precedente. Molto bello l'accompagnamento musicale, mai preponderante e sempre
puntuale nell'accompagnare le sequenze cui è accoppiato…
…Kore-eda ha ripreso per Le verità un soggetto che aveva scritto molti
anni fa. Ma è il cast la qualità essenziale che fa la differenza di un film in
cui la musa francese si interpreta per come pensiamo che sia, per come vorremmo
che fosse, per come presumiamo debba essere. Forte, dispotica, crudele,
menefreghista, sublime, elegante, superiore alla morale e alla realtà,
ignobile, una perciò superba, straordinaria Catherine Deneuve interpreta
Fabienne e “guida” – anche nelle scene in cui, come una chioccia egotica,
cammina sempre davanti a tutti – gli altri attori principali ossia Juliette
Binoche nella parte di sua figlia Lumir ed Ethan Hawke nella parte del marito
di Lumir. Ovviamente Fabienne, come da copione, è stata assente durante
l’infanzia della figliola (sebbene nelle sue memorie fresche di stampa
l’attrice sostenga il contrario), per la quale è stata ugualmente ingombrante
come pietra di paragone, monito costante, dover essere impossibile. Lumir (che
da ragazzina voleva recitare ma poi si è dedicata alla sceneggiatura) è
sospinta da recriminazioni di vario genere: tra le molte accuse mosse all’ormai
vecchia madre aleggia anche quella di aver “ucciso” almeno moralmente un’altra
attrice della sua epoca, Sarah, che per tutto il film sarà un fantasma
ricorrente, un rimosso occultato, un sacrificio necessario alla gloria di
Fabienne. La Binoche, grande attrice di una generazione in cui il cinema è meno
impattante sull’immaginario collettivo, si presta volentieri a far rifulgere il
narcisismo ontologico della Deneuve, l’originale cui è impossibile sottrarsi,
il modello che muove il sole e le altre stelle e soprattutto tutti quelli che
ha intorno cui in fondo (tralasciando apparenti moine) non importa mai nel film
se di verità o menzogna si tratti, se sia stato talento o fortuna o qualità
superiore o capacità di manipolazione. Quel che meno importa è proprio la
verità evocata dal titolo, tanto che la “riconciliazione” tra madre e figlia
avverrà nel finale attraverso recite e finzioni ma perfettamente funzionanti.
Ethan Hawke è Hank, il marito americano di Lumir, un attore di serie B negli
Usa, magari affascinato dal magnetismo potente di Fabienne ma un po’ più
scettico (del resto fa serie tv che passano anche su youtube) circa gli effetti
taumaturgici o traumatici che questo carisma può causare. In una parte
piccolissima quanto significativa, Hank – che capisce il francese ma non parla
francese e viene sempre tagliato fuori dalle conversazioni – è lo straniero sulla scena europea delle sacrali
dinamiche narrate: se non è il punto di vista di Kore-eda (e non lo è)
certamente il suo personaggio gode di una sana distanza rispetto a ciò che vede
ma che nessun altro vuole o può permettersi. Discorso a parte merita Charlotte
(Clémentine Grenier), la figlia di Lumir e Hank, che a differenza del padre
parla un perfetto francese e che immagina la nonna come una strega buona e
cattiva a un tempo, capace di sortilegi e incantesimi cui volentieri gli adulti
soccombono. Ma è un mondo di “magia” ancora infantile, primaria e ben diversa
dalla magia orchestrata degli adulti…
…Il personaggio interpretato da Catherine
Deneuve è diverso, difficile da collocare: Fabienne è magnetica, irrispettosa,
incapace di ammettere i propri errori, talmente grottesca da risultare
esilarante, capace di far sorridere anche solo con una posa, con uno sguardo
ingannevole, furbesco. Una donna un po’ fata e anche strega, talmente strana da
far credere a sua nipote di saper trasformare le persone in animali, come il
suo ex marito Pierre, che quando non è in forma umana diventa la tartaruga di
famiglia che si chiama, non a caso, Pierre. Un concetto quasi kafkiano, in cui
la metamorfosi assume il carattere proprio del romanzo epocale dello scrittore
praghese, in cui un personaggio si sente incongruente col suo contesto
familiare, talmente discordante da scegliere l’alienazione…