mercoledì 30 gennaio 2019

Anatomia di un omicidio - Otto Preminger

una storia giocata per gran parte in un'aula di tribunale, come tante di quei tempi, e tutte a livelli altissimi (penso a Testimone d'accusa e La parola ai giurati).
nel film di Otto Preminger abbiamo un avvocato, anzi due, un colpevole già deciso, una femme fatale, gli ingredienti ci sono tutti.
l'avvocato difensore è James Stewart, che ne sa una in più dell'accusa, e la musica è di un certo Duke Ellington.
con un film così tutto quello che potete fare è rinviare tutti gli impegni di due ore, e non ve ne pentirete mai.
buona visione - Ismaele




La grandezza di Otto Preminger , secondo me, è di essere sempre stato in anticipo sui tempi di almeno un decennio e ciò gli ha creato molti fastidi con la censura negli anni '50. La sua intelligenza al servizio del cinema denota appieno l'origine europea (viennese) e lo pone al medesimo livello di altri esuli quali Pabst, Lang ecc. anche se non è mai stato adeguatamente valutato dalla critica.In questo film si parla addirittura, in un aula di tribunale, di violenza carnale con strappo di mutandine e ricerca di tracce di liquido seminale !! Argomenti assolutamente tabù nel '59 , affrontati con un eleganza di linguaggio che caratterizza tra l'altro tutta la pellicola; più di due ore di colloqui affascinanti e ironici , una tensione continua  acuita da uno spendido bianco e nero che accentua i contrasti dei caratteri : l'imputato in divisa bianca, (falsamente)  angelico , il pubblico accusatore (un magnifico George Scott al suo primo impegno vero) sempre vestito di nero e implacabile.
La musica stupenda di Duke Ellington (che appare in un cameo) avvolge il tutto e sottolinea adeguatamente i punti più drammatici; e James Stewart giganteggia con la sua aria da uomo qualunque che qualunque non è mai.

La sapienza tecnica di Preminger fa scivolare quasi tre ore di film in un niente, aiutato dai caratteristi che si avvicendano alla pedana e capaci di tenere la scena per altrimenti lunghi e interminabili minuti, aiutati a loro volta da alcune sapienti sequenze di alleggerimento in cui si producono delle gag che inducono ad un riso nervoso ma sincero, liberatorio.
Sicché, gli elementi distonici prevalgono sulla macchina burocratica e consentono un discreto numero di agnizioni e riflessioni. prima tra tutte, quella riguardante l’imputato, il tenente Manion (un gelido Ben Gazzara), militare pluridecorato e reduce di Corea. La sua posizione processuale, reo confesso, lo costringe al silenzio urlato del suo bollente linguaggio del corpo. È accusato di omicidio di primo grado poiché la vittima è stata ammazzata a sangue freddo, ben dopo un fatto gravissimo, lo stupro della moglie del tenente, l’enigmatica Laura (Lee Remick). Biegler prova una strada processuale ambigua e si basa su un principio più pertinente la psicologia dinamica che un’aula di tribunale, la "dissociazione" che genera "impulsi irresistibili" che non consentono "la distinzione tra il bene e il male". Conviene aggiungere che questa via è ampiamente seguita ai giorni nostri, in ispecie per giustificare le peggio atrocità, a cominciare dagli infanticidi…

Bellissimo titolo, poi diventato proverbiale, di un crime-legal-movie del 1959. Filma Otto Preminger, in uno dei suoi risultati più alti, più disincantati, di uno scetticismo tutto europeo. Anche lui partecipe della grande emigrazione Vienna-Berlino-Hollywood, non dimentica le sue origini e le ambiguità del cinema di Weimar e quel clima culturale (aveva lavorato con Max Reihnardt) quando mette in scena questa storia di un delitto contorto e confuso, di un assassino che forse non lo è. Il marito di una donna violentata afferma di aver ucciso lo stupratore, si autoaccusa, parla di raptus, ma poi tutto si intorbida. Cos’è successo davvero? E qual è stato il ruolo di lei? James Stewart è l’avvocato incaricato dalla donna di difendere il marito. Dalle sue indagini e dal dibattito in aula si comporrà faticosamante parte del puzzle, ma la visione d’insieme sembra sfuggire. Film che forse risente della lezione ineludibile di Rashomon di Kurosawa, ma che si è affermato da sé come un classico. Magistrale. Lucido e asentimentale. Fu un successo travolgente, e a intrigare il grosso pubblico fu anche la franchezza nel parlare di stupro, di sesso e quant’altro. La scena in cui in tribunale James Stewart mostrava le mutandine di lei suscitò scandalo, ma creò anche intorno al film un’aura di seducente peccaminosità…

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