José "Pepe" Mujica, Mauricio Rosencof e Eleuterio
Fernández Huidobro furono imprigionati per dodici anni in celle singole, in
isolamento totale, per distruggerli, per farli impazzire.
dire tortura è dire poco.
quando furono liberati
diventarono scrittori, ministri, Pepe Mujica addirittura presidente della
repubblica, ma tanti sono morti.
il film ha dei bravissimi
attori (appare per pochi minuti anche Soledad
Villamil) e ricorda a tutti quanto può essere cattivo l'essere umano, e come
tre indifesi prigionieri resistono, senza cedere mai.
naturalmente
il film è in pochissime sale, ma se vi capita a portata di mano non esitate,
non vi deluderà, promesso - Ismaele
…È interessante che a distanza di
pochi giorni arrivino nelle sale cinematografiche italiane due opere che ci
ricordano ciò che accadde in due Paesi dell'America Latina nella seconda metà
del secolo scorso. Si tratta del documentario Santiago, Italia di Nanni
Moretti sul Cile e di questo film.
Entrambi, seppure con modalità
narrative diverse, ci ricordano ciò che accade quando una brutale dittatura in
nome di un preteso 'diritto' cancella qualsiasi forma di trattamento umano nei
confronti dei detenuti. Seguiamo i 4323 giorni di detenzione di tre dei nove
guerriglieri catturati ed assistiamo ad una scientifica quanto abietta
strategia finalizzata non tanto ad ottenere informazioni (le quali con il
trascorrere degli anni divengono sempre meno utili) quanto piuttosto per
devastarne la psiche uccidendoli di fatto pur mantenendoli in vita…
…L’impianto drammaturgico è semplice, lineare, e la
scrittura, a tratti, inciampa in un poeticismo un po’ melenso nel ricostruire
una fase storica, dominata da un’autorità violenta e spietata, supportata da
una burocrazia paradossale. Si mostra l’inferno dal quale Mujica proviene quasi
sottintendendo una spiegazione del suo approccio politico futuro: la visione
pragmatica della realtà delle cose, di ciò che va considerato davvero
importante, di ciò che si può ritenere superfluo. Il respiro è volutamente
popolare e retorico e lo stesso ricorso all'ironia si spiega col tentativo del
film di proporsi, didascalicamente, come strumento didattico per raccontare a
un pubblico, il più vasto possibile, la sofferenza nella quale si è forgiata
una figura straordinaria.
…Partendo dal libro di memorie di Rosencof e Huidobro,
il regista prova così a raccontare a suo modo una delle pagine più buie del
paese. Lo fa mantenendo una invidiabile lucidità che gli consente di sostenere
la narrazione con mano solida e ritmo calzante e senza mai cadere nella
trappola della retorica.
Ciò che convince di più nel film infatti, è la capacità di raccontare
nel dettaglio l’orrore della prigionia grazie a una sapiente introspezione
dell’animo umano che evita inutili forzature. La chiave narrativa spinge così
lo sguardo dello spettatore in una direzione cruda e spietata grazie alla sola
forza delle immagini che cerca di restituire tutte le privazioni, i soprusi a
cui erano sottoposti i prigionieri dentro a un clima di feroce, spasmodica
tensione, ricorrendo alla potenza evocativa dei tempi morti che ben
sottolineano ed evidenziano il disordine psicologico partorito dalla tortura.
La storia si basa su molteplici fattori e innumerevoli dettagli, ma
quello che sicuramente sta più a cuore del regista, non è certo la voglia di
produrre un asettico saggio di analisi storica anche critica. Prevale invece in
lui il desiderio, la voglia di concentrarsi sulla lotta per la dignità di
tre individui e celebrare così’ la resistenza caparbia dell’essere umano,
la sua capacità non solo di sopravvivere, ma di riuscire a conservare (e
persino arricchire rendendola più feconda) la propria umanità anche nelle
peggiori condizioni di sofferenza e umiliazione è questo è certamente un
pregio, ma anche un piccolo problema sia pure secondario poiché il voler
limitare al minimo indispensabile la contestualizzazione socio-politica
di quel particolare momento storico, potrebbe anche rendere allo
spettatore che non ha alcuna nozione di quegli avvenimenti (e ce ne
potrebbero essere moltissimi al giorno d’oggi) il senso ultimo di una pellicola
che è come un iceberg perché anche lei (come quello) ci fa scorgere solo la
punta più alta che affiora sulla superficie, ma ci fa ben comprendere che sotto
esiste una massa ancora più ingombrante tutta da scoprire per le molteplici
implicazioni che si porta dietro…
… Una
notte di 12 anni è
insomma un film di una semplicità disarmante: frutto di anni di lavoro e di
conversazioni con i veri protagonisti della terrificante prigionia, il film
restituisce, con la sua preziosa linearità, una precisione essenziale
interrotta qua e là, appunto, da qualche “episodio”, ma strutturata su una
scelta stilistica assolutamente chiara e netta. Così anche la liberazione
arriva, preannunciata certo dal ritorno alla prigione di Stato da cui eravamo
partiti, senza fragore e retorica. E proprio per questa scelta sobria, il
racconto della detenzione del futuro Presidente e dei suoi compagni commuove
senza ricatto, sciogliendosi catarticamente nell’abbraccio ai cari che segna il
ritorno alla vita.
Con una semplice e vacua formula si potrebbe dire che Una notte con 12 anni è un film “importante”, che racconta la forza dell’umanità e la forza della ragione, in varie accezioni, che non si spegne neppure con 12 anni di buio. Ragione e “immaginazione”, come ha ripetuto più volte il regista, perché senza immaginazione si perde tutto, non si può ricordare, ridisegnare e concepire il senso, strutturare l’identità. Ma al di là di questo nobile intento, il film riesce soprattutto a essere un’operazione intelligente e mirata sull’interiorità, la più vasta e misteriosa delle risorse. Il sorriso, la statura morale e le parole di Mujica – simbolo di lotta meno celebre di Mandela, ma la cui parabola non è poi troppo differente – sono ancora qui a ricordarcelo.
Con una semplice e vacua formula si potrebbe dire che Una notte con 12 anni è un film “importante”, che racconta la forza dell’umanità e la forza della ragione, in varie accezioni, che non si spegne neppure con 12 anni di buio. Ragione e “immaginazione”, come ha ripetuto più volte il regista, perché senza immaginazione si perde tutto, non si può ricordare, ridisegnare e concepire il senso, strutturare l’identità. Ma al di là di questo nobile intento, il film riesce soprattutto a essere un’operazione intelligente e mirata sull’interiorità, la più vasta e misteriosa delle risorse. Il sorriso, la statura morale e le parole di Mujica – simbolo di lotta meno celebre di Mandela, ma la cui parabola non è poi troppo differente – sono ancora qui a ricordarcelo.
…Il regista fa anche un buon lavoro di sceneggiatura
per far appassionare lo spettatore alle vicende di tre detenuti che, in
isolamento per anni, non fanno altro che essere spostati di caserma in caserma.
Ricrea l’alienazione di questi luoghi, la ripetitività e l’ossessività dei
movimenti al loro interno, un tempo circolare dove difficilmente si distingue
il giorno dalla notte, ma spezza abilmente la monotonia con incursioni
frequenti nelle menti dei tre, nel loro ondeggiare tra follia e lucidità, nel
lavorio incessante per creare spazi astratti di evasione con fantasie su
persone care, o ricordi riproposti in chiave onirica, con giochi immaginari, o
inventando nuovi codici di comunicazione in assenza di linguaggio…
Nessun commento:
Posta un commento