un altro film che delle sale italiane non ha conosciuto l'odore (e neanche delle tv, immagino). una storia difficile, in una terra difficile, con gente che si è odiata fino alla morte. una storia di sopravvissuti, che vivono ogni secondo la cattiveria e la crudeltà del passato, con un dolore e un rancore che sembrano eterni. non servono molte parole, contano le azioni, come sempre, e qui ancora di più. non aggiungo altro, solo che è un gioiellino, peccato non guardarlo - Ismaele
…The
performances of the lead actors give the film extraordinary gravitas.
Particularly noteworthy is Leon Lucev as Haris. Lucev’s storyline is the most
overtly dramatic of the three, and he does a terrific job conveying Haris’s
beleaguered stoicism. Aleksandar Bercek also gives a great performance as
Ranko, the laconic old man haunted by the incident. Not one of the characters
in this movie is histrionic—they’ve all been through too much trauma and
hardship to allow themselves obvious emotion. And yet, within their flattened
affective register, each of the actors manages to give a nuanced and thoroughly
convincing performance. The movie manages to evoke strong emotions in the
audience without showing them in the characters, and even does so while withholding
vital information. Few films are this confident in their storytelling. While
the fact that it is a relatively small-budget Serbian film will unfortunately
most likely prevent it from finding a wide American audience, Krugovi is a film that deserves to be seen purely
on the strength of its story and characters.
…El talento de Golubovic no pasa solo por haber
tomado una historia interesante, o una idea interesante, y haberlas combinado
de manera prodigiosa, haciendo uso de un poderoso lenguaje cinematográfico para
transmitirlas. Tampoco por ir alternando las tres historias sin que ninguna pierda
intensidad en relación a las otras. Mucho menos, por ahondar en otros casos de
circularidad (que un personaje sea golpeado al inicio y casi al final, o que
otro retorne a Trebinje, su ciudad de origen). Su mayor logro es sembrar
incógnitas constantemente. El espectador va construyendo la historia a lo largo
de cien minutos de película, nada se explicita en ningún momento. Los
personajes no cuentan en ningún momento lo que sucedió, porque no sería
verosímil que unos protagonistas relataran el pasado a otros. No hay necesidad
de referir algo que todos conocen y que eventualmente prefieren olvidar.
Golubovic consigue hacer partícipe al espectador de la historia mediante
recursos alternativos a las palabras: la emoción, los sentimientos, los
pequeños gestos, algún mínimo guiño humorístico. Circles se
convierte en un intenso drama donde las palabras y los hechos se entrelazan en
algo tan complejo como lo es la historia. Es mucho más que un simple trabajo
sobre la redención: se trata de una obra humana, sobre el deber, el amor, la
culpa, el perdón, hecha a la medida de grandes espectadores y erigiéndose como
producción ejemplar sobre las consecuencias de la guerra y la intolerancia.
una domanda, come mai Sushenya è stato rilasciato dai nazisti e i suoi compagni sono stati fucilati? questo è il centro del film, e tutto ci ruota intorno. Sushenya sa di essere innocente, ma è braccato dai partigiani, ma anche dai nazisti ucraini. anche se non si sente, nel film c'è freddo, e per Sushenya la soluzione della sua questione morale ha una strada d'uscita obbligata. film poco adatto agli spettatori di corsa, ma agli altri non dispiacerà - Ismaele
…Lento e solenne come nella migliore tradizione dei film russi, il film si pregia di una apprezzabile ricostruzione d’epoca, fatta di particolari anche minuziosi che rimangono impressi, fra cui è possibile citare la magnifica ricostruzione dell’abbigliamento povero dell'epoca, gli accessori umili ma indispensabili dei personaggi coinvolti (mi viene in mente il cucchiaio ritrovato nella tasca del vestito di uno dei protagonisti appena cade vittima di un agguato e viene avidamente spogliato di tutti i suoi averi, tranne di quel cucchiaio, unico attrezzo a disposizione per affrontare i frugali pasti capitati ove la provvidenza si è curata di soccorrerlo; ma anche lo straccio che accuratamente vvolge i piedi dell'altro partigiano, per supplire la mancanza di calzettoni utili per affrontare il gelo). Loznitsa utilizza in modo un po’ spericolato tre flash back che tuttavia si rivelano utili per consentirci di capire di più caratteristiche e punti di vista di ognuno dei tre personaggi coinvolti, dimostrando come sia soggettiva la considerazione del valore dei singoli individui, laddove uno dei due partigiani, pur rendendosi vigliaccamente responsabile di un eccidio di cittadini innocenti, viene unanimemente riconosciuto come un eroe della resistenza, mentre al contrario il protagonista Sushenya, nonostante l’eroica opposizione a far denunciare i responsabili dell'attentato al treno, viene superficialmente bollato come un codardo collaborazionista e condannato a morte dai suoi stessi compagni…
…Anime nella nebbiaè un’opera insolitamente struggente, scritta con impressionante precisione, eppure capace di turbare e commuovere. Potrebbe vincere la Palma d’oro, ma anche restare a bocca asciutta. Aspetti secondari. Quello che conta è la splendida conferma (o scoperta) di Sergei Loznitsa, la sua capacità di dare un senso e un valore ad ogni movimento di macchina, ad ogni inquadratura, ad ogni scelta estetica.
…La rarefazione dell’azione, per certi versi obiettivamente eccessiva, punta a conferire un risalto esponenziale ad ogni gesto compiuto, così da renderlo il tratto di definizione di un’intera esistenza messa alla prova. Il continuo nascondersi o strisciare per sfuggire al nemico, o il trascinare a spalla un cadavere come una croce, o infine, appunto, essere trascinati da un compagno come dagli eventi e dalle apparenze, assurgono ad atti archetipici che inquadrano i personaggi in una trinità del conflitto umano: il codardo, il santo, l’emotivo, ognuno in definitiva trattato con uguale empatia e comprensione. Appesantito da vuoti e sequenze di raccordo non sempre efficaci, Il film di Loznitsa riesce indubitabilmente a configurarsi come una parabola efficace e dall’afflato universale. da qui
V TUNAME, «Dans la brume » en français dans le texte, porte diablement bien son titre. Sergei Loznitsa aborde majestueusement son sujet mais ses codes culturels ne sont pas les nôtres et les enjeux envisagés sont, de prime abord, troubles et distanciés. La mise en scène n’en est pas moins admirable et la photographie sublime…
…Loznitsa te agarra por la garganta y ya no te suelta. Comienza centrando su atención en Burov y Voitik, pero cuando Sushenya aparece, las tornas cambian. Las circunstancias lo hacen con ellos, y el foco se abre. La obra tiene clara su estructura. Un trayecto a través de un bosque, y a lo largo del mismo, distanciados de forma casi milimétrica, tres flashbacks que rememoran la situación de cada uno de los personajes poco antes de encontrarse unos con otros. Ahí radica parte de la clave. Descubrimos que el enemigo alemán no es el único mal existente. La guerra no crea bandos justificables, sólo gente que piensa en sí misma. El propio Sunshenya se da cuenta de eso casi al término de su viaje. Algunos luchan por sus ideales, y mueren jóvenes; otros dudan, prefieren mantenerse en espacio neutro; y los últimos sacrifican a otros para salvarse a sí mismos. Pero nadie está exento de culpa. La guerra destruye al ser humano. Es una verdad sencilla, pero lapidaria. El horror que el Coronel Kurtz susurraba guturalmente era eso. Y lo que tanto Loznitsa como Sushenya o sus camaradas vienen a dejar claro es que la guerra cambia a las personas. Aunque la vida en sí no lo haga, en el momento en el que alguien se vea obligado a sobrevivir, el corazón de cada uno dictará si es capaz de sacrificarse a sí mismo por otros, si es fiel a sus principios hasta el final o si prefiere salvaguardar su integridad a costa de inocentes. Sushenya no entiende qué es lo que provoca este cambio en la gente. Es incapaz de comprender porqué los que antes le apreciaban, ahora desconfían abiertamente. Él no ha cambiado, sigue siendo el mismo. Los demás, aparentemente también…
…Non è un film facile Anime
nella nebbia ma riesce a far 'sentire' allo spettatore il crescere
della spirale di un sospetto che ha attraversato sempre (anche se spesso
accuratamente occultato) i movimenti resistenziali. Perché, messi nelle stesse
condizioni, alcuni si salvano e altri soccombono? Quale sarà stata la loro
attività di delazione e quanto sarà stata determinante per la loro
sopravvivenza? Il regista riesce anche ad andare oltre questo assunto primario.
Con il peregrinare nella foresta dei suoi protagonisti, alternato alla
presentazione di flashback in cui operano collaborazionisti, offre un'ulteriore
chiave di lettura ad un periodo storico in cui fa agire personaggi
silenziosamente tormentati.
…Non c’è scampo a quel cinico gusto del
paradosso che, approfittando dell’imperversare dell’odio, si impadronisce della
Storia, rendendo tutto confuso, incomprensibile, incontrollabile. Lontano dal
fronte, la battaglia si combatte annaspando disperatamente nel vuoto, alla
ricerca di una qualche ragione. Il deserto dei mille perché si estende fin oltre l’orizzonte, privo di
trincee ma cosparso di labirinti senza uscita…
capita di vivere in un posto con un po' di delinquenti che fanno il bello e il cattivo tempo, rubano, minacciano, violentano, feriscono, sopratutto Kalule. Jorge, dopo tanta pazienza e sopportazione e umiliazioni si rivolge all'autorità, ma fanno poco e niente. allora diventa una questione di orgoglio e di vita o di morte, Jorge, con mille dubbi, ma con determinazione, fa da sé. un film dell'altro mondo, ma si capisce benissimo. a qualcuno può ricordare Un borghese piccolo piccolo, di Mario Monicelli si soffre e si pensa, oltre a vedere un piccolo grande film - Ismaele
…Matar a un Hombrees un trabajo ejecutado con la
perfección de un director que concibe mejor que nadie el cine como un vehículo.
Uno en marcha, del cual no debemos bajarnos en ningún momento sino hasta que el
conductor/director decide cuando hay que hacerlo y nunca, pero nunca, antes. No
es fácil vivir en el mismo mundo de Jorge, y todo lo que pase en él es para
sentirnos completamente culpables.
…Film diretto ed efficace, Matar a un
hombre racconta la vicenda (tratta da una storia realmente accaduta) in
modo semplice e senza fronzoli, ma rappresentando con grande impatto emotivo il
travaglio di Jorge, il senso di paura, solitudine ed impotenza di un uomo
comune, abbandonato dalla legge di fronte al male, una discesa negli inferi che
lo porta a improvvisarsi giustiziere. Nonostante la trama ricordi innumerevoli
film girati su questo tema, Matar a un hombre mantiene una sua originalità
evitando l'esaltazione della vendetta. Rifuggendo la spettacolarizzazione della
violenza e gli spargimenti di sangue (l'omicidio nemmeno lo vediamo, ma lo
ascoltiamo), la pelicola è incentrata sull'interiorità del suo protagonista,
ben incarnato nella sua ordinarietà e nella sua disperazione da Daniel Candia.
Daniel Antivilo interpreta l'antagonista Kalule, cattivo spietato e totalmente
immorale che, ben consapevole dell'impotenza della giustizia, pare divertirsi
sadicamente a tormentare ed umiliare la sua vittima; ma al momento in cui
capisce che l'ha trasformata in un giustiziere disposto ad ucciderlo si abbassa
a supplicare e implorare (inutilmente).
…Fernández Almendras logra un
intenso thriller donde la premisa del hombre vs. el hombre
ejerciendo la Ley del Talión como la única manera de lograr la sobrevivencia
del clan comprende, y hasta excusa, el comportamiento del taimado Jorge una vez
que ha llegado al límite. Y el director lo hace de la manera más sobria y
antihollywodense posible, lo que resulta su gran acierto: no estamos ante un
Liam Neeson convertido en pistolero vengador, sino ante un pater familia
que, como muchos, ya está harto de que su hija sea vejada, su casa violentada y
su hijo medio muerto. Jorge es un hombre común como millones más, que ante un
sistema lerdo deja de lado sus temores para llevar a la realidad ese viejo
adagio que recita que “el valiente dura hasta que el cobarde quiere”, y, no
obstante, al final logra erigirse digno, conservando su integridad moral y
ética, intacta.
…Matar
A Un Hombre es una
película que no opera desde la lógica o el raciocinio, sino que desde una
óptica emocional, desgarradora, visceral. Apartada de todo cálculo u operación
preliminar, lo que transmite es que fue hecha con el corazón en la mano. De ahí
que los alcances de la obra no estén concebidos desde una vereda ética o moral.
Su propósito mayor está en convertirse en un viaje mucho más profundo y
atípico, que desentrañe los abismos del ser humano. Y en esa búsqueda es que se
zambulle en territorios de penumbra, lo que no hace más que corroborarse
cuando se acontece el punto más álgido del relato…
…Tuer un
homme est un film de genre qui brouille
discrètement les pistes : un thriller qui laisse le suspense de côté et
dont l’enjeu prend toute sa dimension après le meurtre annoncé dans le
titre ; un drame montrant un homme ordinaire dépossédé de ce quotidien qui
le rend précisément si ordinaire. Ce film est la tragédie d’un homme qui se
voit devenir un autre malgré lui. Les partis pris visuels du film, tels que
l’image légèrement désaturée, participent à la création de l’atmosphère, de
plus en plus lourde et étouffante, dans laquelle évoluent les personnages. Très
souvent cantonnés au tiers inférieur du cadre, Jorge et sa famille semblent
pris au piège par une fatalité contre laquelle ils ne peuvent lutter. Aussi, la
musique vient ponctuellement amener le spectateur à percevoir les appréhensions
du personnage principal et la sobriété de la mise en scène accentue l’aspect
réaliste du récit. Il serait à regretter que cette même mise en scène ne permette
pas au spectateur d’avoir un plus grand aperçu des personnages secondaires, qui
peuvent par moment sembler bien lointains - et, volontairement, de plus en plus
étrangers aux préoccupations de Jorge. Se confrontant à la forêt et à la mer,
ce dernier se retrouve en effet seul pour affronter le poids de sa conscience
et la nature, par son immensité, fait écho au drame vécu par le
personnage. Sombre et d’une habile sobriété, l’œuvre
d’Almendras dépasse les cadres du thriller pour s’affirmer comme un voyage tortueux
au cœur de la conscience humaine.
non si vive
in mondi separati, e la scuola è lo specchio e la conseguenza di quello che sta
fuori.
e, come
in Class enemy, questo si vede con chiarezza
nel momento della riunione dei genitori, dove paura e coraggio, convenienza e
orgoglio sono i sentimenti che governano il mondo.
la
professoressa Drazdechová è così brava che si pensa sia proprio
l'attrice, Zuzana Mauréry, quel pezzo di merda dell'insegnante.
dice il regista: Ad ognuno di noi è capitato, sia da adulti, che da
bambini, di avere la sensazione che ciò che ci arreca beneficio sia in realtà
una cosa sbagliata da farsi. O viceversa: che seguire la propria coscienza, il
proprio codice morale, possa invece farci incontrare difficoltà, se non
procurarci addirittura dei problemi. Questo è il motivo per cui questa storia
può essere compresa da tutti...The Teacher non è un film sul Comunismo,
né sul bullismo. Ciò che a noi interessa è raccontare la paura, l’opportunismo,
la dignità umana
non
perdetevelo, anche se arriva con un anno di ritardo, merita davvero - Ismaele
ps: in Gran
Bretagna The teacher si chiama The teacher, in
Spagna La profesora, in Francia Leçon de classes, in
Romania Profesoara, in Italia il titolo resta The teacher.
sarà per non
far pensare alle professoresse dei film degli anni '70, o solo per una pigrizia
atavica?
…L'attrice slovacca Zuzana Mauréry ci regala una
performance magistrale, ai livelli di Ruth Gordon in Rosemary's
Baby o Isabelle Huppert ne Il buio nella mente. C'è
davvero qualcosa di diabolico in questa insegnante dal volto disumano così
abile a recitare la parte della vedova inconsolabile, quando a ben vedere è
proprio perdendo il marito in guerra che ha realizzato, per così dire, il
miglior affare della sua vita. La gestualità appiccicaticcia con cui blandisce
il prossimo, l'incedere vagamente sgraziato, l'abbigliamento fuori moda perfino
per i canoni dell'epoca e la perfida nonchalance con cui ordisce i suoi miserabili
ricatti conferiscono alla signora Drazdechová l'apparenza fintamente innocua di
un lupo travestito da agnello che difficilmente mancherà di guadagnarsi il
nostro più profondo disprezzo. Memorabile.
…Va dato atto al regista Jan Hřebejk di aver reso una
realtà in tutte le sue sfaccettature senza adagiarsi al facile manicheismo.
“Questo non è un film sul comunismo o sul bullismo.” Ha dichiarato, “Qui
l’argomento principale è la paura, l’opportunismo, la dignità umana”.
…Un piccolo film incentrato su un
paradossale caso di "socialismo reale" applicato, con cui la coppia Jan
Hřebejk (regista) e Petr Jarchovský (sceneggiatore), sodali da lungo tempo,
vuole far riflettere sulla corruzione, l'abuso di potere e i paradossi di un
sistema in cui lo scambio di favori a vicenda (qualcosa che apparentemente
sembra a fin di bene) finisce col scardinare i reali valori e alterare il
benessere delle persone…
…Con una
historia que para muchos críticos recuerda a los textos de Milan
Kundera, Jan Hrébejk crea una película sobre el poder que ejercía la gente
con contactos y que bajo una mascara de amabilidad se esconde un personaje que
no le tiembla el pulso a la hora de destruir a alguien que no le baile el agua.
La Profesora mantiene una ambientación opresiva de la época perfecta gracias a
ese edificio gris y hermético donde se rueda buena parte de la película y
transcurre el "meollo" de la historia. Un lugar donde esos
padres se reúnen y deciden que decisión tomar planeando sobre la película un recuerdo
al clásico Doce Hombres Sin Piedad" en su versión comunista.
Inspirada en un hecho real conocido por el guionista La Profesora consigue
atrapar al espectador en esa lucha de personajes aparentemente pequeños pero
que se niegan a ceder y creen en la libertad para poder vivir dignamente.
Héroes que desgraciadamente no pasaran a la historia pero si son
necesarios para saber que son el primer paso para una sociedad libre
y sin miedos. Una historia opresiva sobre las nefastas consecuencias de la
corrupción y sobre todo que aunque los tiempos cambien-a priori para mejor- lo
verdaderamente triste es ver que la naturaleza humana no se quita la
condición de malvada y mezquina.
…The Teacher è
un film davvero sorprendente, che riesce a trattare in maniera estremamente
chiara e con taglio sociologico, argomenti molto complessi e
stratificati, come il totalitarismo, l'impostazione ideologica e gli effetti di
ogni regime, l'abuso di potere, facendo leva su una forma tragica tanto quanto,
a tratti, divertente e Pop (complice l'espressione buffa e comica dell'attrice
protagonista), che smorza l'esposizione della violenza intrinseca delle cose e
della vicenda, raccontata in maniera potente e convincente.
L'efficacia
del messaggio, e della particolare “confezione”, viene enfatizzata dalla
consapevolezza finale di aver assistito a storie vere, ma impensabili, nella
loro sconcertante assurdità. Di certo questo è un film che rappresenta al meglio
tutte le qualità che continuano a far grande il cinema dell’Europa
centro-orientale, soprattutto per l’originalità di scrittura, gli splendidi
interpreti dalla palese carriera teatrale, e per lo humour mai banale…
…<<Ad ognuno di noi è capitato, sia da
adulti, che da bambini, di avere la sensazione che ciò che ci arreca beneficio
sia in realtà una cosa sbagliata da farsi. O viceversa: che seguire la propria
coscienza, il proprio codice morale, possa invece farci incontrare difficoltà,
se non procurarci addirittura dei problemi. Questo è il motivo per cui questa
storia può essere compresa da tutti>>, ha dichiarato Jan
Hrebejk.
Purtroppo
La natura umana non cambia.
La
storia personale di Petr Jarchovský raccontata in The
Teacher richiama le atmosfere, i toni e i temi del film precedente
dei due autori: Divisi si perde: <<Come Divisi si
perde non parlava solo del Nazismo e dell’Olocausto, così The Teacher non è un
film sul Comunismo, né sul bullismo. Ciò che a noi interessa è raccontare la
paura, l’opportunismo, la dignità umana>>, ha aggiunto Hrebejk…
l'altra sera visto Eraserhead al cinema, quelli della Cineteca di Bologna (il Signore del Cinema li conservi) l'hanno restaurato e lo mandano in giro. cosa vuol dire David Lynch non lo sa nessuno, magari lui sì, forse. il mondo è in rovina (già 40 anni fa), si sopravvive, male, anzi malissimo. Henry ha dei bellissimi capelli, e scopre di avere un figlio, un essere da Cottolengo, Henry ha una grande fantasia, ma non ce la fa. polvere eravamo e gomme per cancellare diventeremo, in mezzo qualcosa. un film unico, senza tempo, un capolavoro che resterà. cercatelo, guardatelo (o riguardatelo), al cinema è meglio - Ismaele ps: sono solo io che penso che nel 1977 Spielberg abbia visto il film e nel 1982 ET sia lo strano bambino di Henri e Mary sopravvissuto e cresciuto?
Nato in un contesto indipendente e underground,
il primo lungometraggio di David Lynch passa in pochi mesi dalle gallerie
d'arte di New York alle sale di tutto il mondo. Girato in totale autonomia nel
1976, con un pugno di amici e collaboratori fidati, si fa subito notare per
l’inquietudine che emana e per lo sconcerto che suscita nei pur ben disposti
spettatori. È il primo incunabolo (ma per alcuni il più radicale e ipnotico)
delle visioni lynchane: b/n avanguardistico, narrazione apocalittica, vicende
inspiegabili e orrore ovunque, con una trama (un uomo misterioso, con un figlio
mostruoso, dentro un futuro post-industriale) pressoché nulla. Né fantascienza
né horror, anche se i vari distributori nazionali, Italia compresa, provarono a
farlo passare per un film di genere. In verità, il dialogo è con il
surrealismo, la fotografia industriale, l’underground statunitense.
"Come Shining, Eraserhead stupisce per la capacità di tener fede
alla forma linguistica dell'inconscio", secondo Enrico Ghezzi. A
posteriori, va considerato come il film che per primo ha dato voce ai fantasmi
interiori di Lynch: non solo alle sue fantasie morbose, ma anche al suo
desiderio di purezza.
The
benchmark of bizarreness. At the surface this is a dark and twisted tale of a
timid dreamer on vacation living in a squalid house and neighborhood who
discovers he is now a father of a monstrous creature/baby due to an old sexual
encounter. He is forced into marriage by the mother-in-law and is frequently
left to care for the baby while his emotional wife runs off to take breaks from
this unpleasant life. He uses one of these breaks to have an affair with the
neighbour. This is all filmed with incredibly bizarre imagery and behaviour
through nightmarish dream sequences and visuals. Details such as the other
world with a pilot, sperm-like worms and a strange lady inside a radiator can
be taken as symbols of subconscious, guilt and death, but the movie works as a
superb dream-like experience regardless of what it means, so it is highly
recommended. Lynch has never repeated the brilliantly pure and abstract
dream-experience of this debut.
…Lynch voit son film comme le bilan des
années passées à Philadelphie. Et bien figurez-vous qu'en y regardant de plus
près, c'est peut-être l'interprétation la plus juste. A la seconde vision, fait
étrange, le film devient merveilleux. Ce qui nous paraissait repoussant la
première fois dégage à présent une grande poésie et une douce mélancolie. Et
cette fois, on pense à un film précis :2001de Stanley Kubrick. En effet, sur plusieurs points, les
deux films se font écho, notamment sur leur premier et dernier plan (pour
l'anecdote, Kubrick affirmera que Eraserheadest
le seul film qu'il aurait aimé réaliser). 2001s'ouvrait
sur une spectaculaire levée de planètes dans un ciel en Cinérama sur le
grandiloquent Ainsi parlait Zarathoustra de
Richard Strauss. Cette ouverture nous indiquait que nous allions assister à un
voyage à travers l'infiniment grand….
In principio era il rimosso. Per David Lynch il cinema è un universo mentale,
è la nostra mente che crea le “realtà” che ci circondano, quell’insieme
misterioso di mondi perlopiù alterati dove (non) sempre è meraviglioso
perdersi. Ecco quindi che la sequenza iniziale di Eraserhead, in stretto legame con le sperimentazioni visive dei primi
cortometraggi, funge da subito come manifesto della poetica del regista. La testa di Henry volteggia nello spazio e, in
sovraimpressione, cerca di allinearsi con una strana struttura sferica verso
cui ci avviciniamo lentamente. Stiamo entrando dentro la testa del
protagonista, stiamo per esplorarne i segreti. Ma di che segreti si tratta? Se riflettiamo sulla semplicità drammaturgica
di Eraserhead ci
rendiamo conto di come l’atto creativo, sessuale, sia l’incubo per eccellenza,
che trova nel terrore della paternità la sua manifestazione. Tutto il film è
pieno di disturbanti tic, di allusioni all’amplesso e alle sue possibili
conseguenze, mostrandosi come la vera ossessione del personaggio, dietro la cui
maschera, apparentemente impassibile, ribolle un profondo malessere. Il cinema
di Lynch però è sempre stato assertivo dell’impossibilità di isolare un trauma
fondante, perché questo ha comunque vita propria e, in un modo o nell’altro, prenderà
forme tangibili con le quali bisogna fare i conti. L’incipit di Eraserhead quindi è leggibile come la sintesi di ciò che è stato
rimosso ovvero l’atto sessuale tra Henry e Mary, quel non detto e dimenticato
che ha dato origine al feto prematuro. La bocca del protagonista si apre
(coito), ne fuoriesce uno spermatozoo che precipita dentro un liquido
(amniotico) presente in quella sfera che ora non può non essere letta come un
ovulo inseminato. A tirare le fila, in uno scorcio espressionista, vi è un demiurgo
dalle sembianze deformi che anticipa la fisionomia di John Merrick o del Barone
Harkonnen e attiva questo meccanismo di fertilità. E a colpire è il mondo nel quale nasciamo, un
inferno apocalittico, dove i tubi hanno sostituito gli alberi, dove la materia
industriale giganteggia nella sua avvolgente e ipnotica lingua sonora. Non
bisogna allora stupirci di come anche l’atto più naturale come la procreazione
abbia perso tutta la sua componente vitale e assuma la forma di un gelido
processo di produzione…
…Espressionista
e surrealista fino all'inverosimile, ricco di inquadrature che si trasformano
in pochi secondi, rimandi allucinati al mondo dell'assurdo (le teste del
bambino che svolazzano per la stanza) e il sentore costante di fastidio
ricreato dilatando in maniera anomala i tempi e i suoni, co-protagonisti
dialoghi ridotti la minimio per non minare l'ermetismo della pellicola. E così,
se i dialoghi sono pochi e stranianti, i rumori, i suoni regnano sovrani
creando un muro suono-immagine terrificante che non può lasciare insensibili.
Lontano dal poter essere chiuso in una categoria questo film disturba nel senso
più reale del termine, annichilisce i sensi dello spettatore rapito da sequenze
di immagini oltre ogni controllo non certo paragonabili all'innocuo
intrattenimento fornito dai film horror che infestano i botteghini, passeggeri
passatempi in cui l'orrore è costruito e dosato con gentilezza per non scalfire
la morale di chi nel cinema vede solo intrattenimento semplicistico. Eraserhead
è oltre il sopportabile...è un capolavoro e tanto basta.
Possibly
the most classic, highly-regarded and loved cult short horror movie ever made.
It's only strange in a light Bunuelian absurd way, but the tension keeps
building until the unforgettable ending that packs a wallop. An ordinary man
becomes trapped in an ordinary phone booth with amused reactions from various
passersby. The situation becomes more ridiculous as time passes by. To say any
more would be to ruin the movie. Watch it.
A man (José Luis
López Vázquez) sees his son off to school, and stops to make a call in the
newly installed phone booth in town square. The phone doesn’t work,
and as he tries to leave the booth, he discovers that he’s stuck. A crowd
gathers to assist (and gawk) to no avail. Then here come the
telephone guys, and the situation looks even more dire.
Starting out as
a surrealist slapstick — something like Buñuel meets Tati — it gradually morphs
into a modern nightmare. In this film, running just over a half hour,
writer/director Antonio Mercero brings us fears of claustrophobia, humiliation,
technology and urban social disconnect. I wasn’t sure where the film was
headed… you don’t know if it’s going to end with a gag or if it’s going deeper
into horror. I won’t spoil it, but it’s satisfying. Vázquez, who
I’ve previously enjoyed very much in works by Saura, Berlanga and Ferreri, does
a fine job in a role that’s entirely silent except the beginning. At
first he tries to maintain his dignity but as the situation grows more dire he
starts to lose his cool.
For such a short
film there shouldn’t be as many draggy parts as there are, but overall it’s a
clever, effective and often witty piece. I find it interesting that even
though phone booths are largely a thing of the past, people are more “trapped”
by their phones than ever.
…Una
trama compleja, de corte surrealista, de múltiples lecturas, que empieza como
una chanza, una broma, pero que, tras el visionado, deviene en un canto a la
libertad, precisamente constatando cómo, cuando extrañas entidades, ajenas al
común de los mortales, deciden coartarla, reducirla, aniquilarla, de forma
aleatoria, es decir, sin razón alguna, nadie, o casi nadie, mueve un dedo para
ayudar a su prójimo, prefiriendo burlarse del cautivo, o sacar provecho propio
de la ocasión; del conjunto de la sociedad, sólo unos pocos destinan una parte
de su tiempo en ayudar a otro, y la compasión, la comprensión, la solidarirdad,
tan sólo se manifiestan en los que en modo alguno van a ser tomados en serio,
payasos de un circo.
De forma imprevista, el hombre se ve privado tanto de libertad como de voz para
expresarse, pues ni puede salir de la acristalada cabina, prisión transparente
pero prisión al fin y al cabo, y nadie le puede oir, por mucho que se desgañite
reclamando, desolado, exasperado, su libertad, atenazado por unas decisiones,
una metodología, una maquinaria impresionante que le sobrepasa, le excede, y
que casi todos aceptan como inevitable consecuencia, a saber que habrá
pasado....
Consiguen los autores crear un sentimiento claustrofóbico a plena luz del día,
recordándonos que la libertad sí tiene precio y que éste es muy alto, sobretodo
cuando se produce la pérdida de esa libertad a la que estamos acostumbrados
como derecho adquirido, demostrando, magníficamente, que la libertad individual
pende de un hilo cuando no todos estemos dispuestos a luchar por la propia y
por la de los demás, como si fuera la propia…
Esta idea tan sencilla da pie para que se
construya de forma efectiva el horror en el personaje, el cual apoyado en una
excelente interpretación de su actor principal, es transferido convincentemente
al público. La trama como se mencionó anteriormente, se va transformando poco a
poco desde la comedia hasta el horror surrealista. El director, supo crear una
atmósfera definida, con el fin de presentar al personaje como si fuese un
animal encerrado en un zoológico o en su defecto, una atracción de circo, donde
las personas van a verlo para reírse de su situación y entretenerse a costa de
su humillación. En una de las escenas más dicientes, el hombre encerrado ve su
reflejo en un espejo que están trasladando unas personas en el parque, en ese
momento, se ve a sí mismo en su propia jaula. Adicionalmente, la actuación tiene
mucho soporte para la historia, por el hecho de que el personaje prácticamente
no tiene diálogos -solo cuando se despide de su hijo-, pues el sonido que se
escucha viene del exterior de la cabina en todo momento, elemento que ayuda a
aislar el personaje del mundo. Todo su miedo debe ser transmitido a través de
sus reacciones, todo un logro interpretativo y de genialidad creado desde un
sorprendente guion. La historia posteriormente se transforma en una pesadilla,
un horror surrealista que nadie es capaz de anticipar, pero que le otorga a
este cortometraje español un estatus de calidad pocas veces logrado.
…El retrato social
de un país aprisionado, necesitado de aires de libertad está aquí
magistralmente conseguido, tanto, que una vez más una idea claramente
telegrafiada pasó inadvertida a los estúpidos equipos de la censura, que
todavía continuaba a pleno rendimiento antes de la ligera ‘suavización’
introducida en los setenta. El inquietante final conseguía ese efecto de
extensión de una situación particular a una metáfora en el plano colectivo de
lo que sucedía entonces en España. Además, está visto desde la perspectiva de
los nacidos después de la guerra: al igual que nos asusta profundamente, no el
hecho del encierro en sí del pobre hombre en la cabina, sino la ausencia de
explicaciones, de por qué sucede, quién lo ha ordenado, dónde le llevan, etc.,
indignaba a muchos jóvenes nacidos tras la guerra el hecho de encontrarse en
una situación heredada e injustificable, ante la que además no tenían voz para
hacer preguntas ni formular quejas, y cuya única respuesta era un porrazo de
los grises o una noche en el calabozo de la Dirección General de Seguridad. No
había salvación, ni explicación.
Por otro lado,
supuso un nuevo paso más en la conversión de José Luis López Vázquez hacia un
cine más serio, alejado de la comedia (tras aparecer durante las décadas
anteriores sobre todo en comedias costumbristas y de entretenimiento que
incluso le valieron una cuantiosa oferta de Hollywood, proveniente de George
Cukor, que buscaba convertirlo en el nuevo “Cantinflas”), que luego alcanzaría
cotas altísimas en trabajos para Carlos Saura, Jaime de Armiñán y muchos otros,
aunque mantendría sus apariciones en comedias con papeles que recordaban a los
de antaño, como por ejemplo, sus trabajos con Berlanga.
En resumen, una
película perfecta para explorar las técnicas básicas del suspense y su
influencia en las emociones del espectador, pero también de gran valor
sociológico ahora que conmemoramos el treinta aniversario de las primeras
elecciones democráticas en España tras la dictadura franquista, para hacernos
una idea del incipiente estado de protesta que latía en el país y que
provocaría un cambio imposible de detener.
se uno si aspetta un film di sesso, meglio che stia a casa; se uno si aspetta un film con tanta violenza, alla Tarantino, meglio che stia a casa; se uno si aspetta un film di quelli complicati, che dopo sette visioni ancora non sa che pesci prendere, meglio che stia a casa ; se uno si aspetta un film d'amore, romantico, con qualche lacrima, meglio che stia a casa. Easy è un piccolo grande film, che tutti possono capire, fa ridere e sorridere, senza bisogno di effetti speciali, con una comicità spesso da film muto, sa emozionare, e alla fine ti fa uscire dal cinema contento di aver potuto vedere un film che non ti aspettavi, davvero bello. se non lo sapevate il film è in poche sale, naturalmente, bisogna cercarle, ma non ve ne pentirete di sicuro - Ismaele ps: coincidenze, il protagonista, il grande e grosso Nicola Nocella, sembra il gemello di Francesco Di Giacomo, e nel Banco di Mutuo Soccorso chi suonava le tastiere aveva un cognome che iniziava per Noce.
…Bel film,
bella sorpresa, gran successo di pubblico festivaliero (pagante) che ha fatto
la fila a tutte le proiezioni. Tant'è che negli ultimi giorni se n’è dovuta
aggiungere un’altra non prevista. Uno di quei film che ti fan capire come il
nostro cinema (sempre che si possa dire nostro un film di un autore che vive
tra Italia e America e che è una coproduzione italo-ucraina: ma questo dei film
apolidi e cosmopoliti e di indecifrabile identità nazionale è ormai fenomeno
generalizzato) sia nonostante tutto ancora vitale, in grado di produrre anche
oltre e fuori Roma buone cose, non corrive, non asfittiche, allineate
linguisticamente, formalmente, tecnicamente agli standard internazionali. Un
cinema che sa andare oltre la commedia piaciona e la commediaccia corriva
imperanti da noi, oltre i romanzi criminali e le gomorre e le suburre…
…Easy è questo: una
commedia agra e perlopiù sommessa, mai gridata, mai becera, che non ha niente
dei soliti modi romanocentrici, niente di quella vernacolarità che è un segno,
e spesso un marchio di condanna, del nostro cinema popolare. Con un interprete
meraviglioso, Nicola Nocella, di corporea rotondità (ma poi non così
strabordante), che punta sull’interiorizzazione, sulla sottrazione, senza
quegli eccessi espressivi e la gestualità mediterranea che altrove, in altri
film, avrebbero imposto al suo tipo fisico. Nocella che ha una buona parte di
merito nella riuscita di Easy, impossibile
immaginarlo senza di lui, in scena dalla prima all'ultima inquadratura, e mai
un cedimento…
…Si prega i giurati dei prossimi premi italiani
di tener conto del film, e di non dimenticare Nicola Nocella quale migliore
attore. Grazie.
…Il motivo che fa la differenza in "Easy" è anche
quello più rischioso per un cinema (italiano) che ha paura di uscire fuori
dalle proprie sicurezze; e con questo intendiamo puntare l'attenzione di chi
legge su una tipologia di comicità fuori dalla norma, in ragione del fatto che
le risate suscitate dalla storia nascono all'interno di uno scenario tutt'altro
che felice (c'è di mezzo la morte di un operaio, avvenuta nel cantiere del
fratello del protagonista) e sullo sfondo di un paesaggio dominato dalla
pianura desolata e piatta che dall'Italia conduce Easy e il suo carro funebre
nel piccolo villaggio dell'Ucraina dove dovrà essere recapitata la salma…
…Da un
lato un'Italia che ha un rapporto ambivalente con i migranti (da respingere ma
anche da sfruttare) e poi, più si va verso Oriente, Paesi in cui la dimensione
rurale ha ancora una grande importanza. Easy li scopre con uno sguardo interrogativo dapprima
protetto da una barba invadente e poi con un volto messo a nudo come progressivamente
viene messa a nudo la realtà che lo circonda. Conservando intatto il mandato di
non fare spoiler va però detto che il finale del film è, dal punto di vista
della sceneggiatura, uno dei più coraggiosi del recente cinema italiano. Onore
al merito.
…Il
successo del progetto è dovuto anche alla presenza del protagonista perfetto:
l’attore Nicola Nocella, che con la sua
corporeità, la gestualità e – probabilmente – una buona dose di ironia, si è
calato nei panni e nel mondo di Isidoro sino a rendercelo tangibile, amabile,
insostituibile. Vedere sgretolarsi tanto isolamento, ha reso anche la nostra
aria più respirabile. Ci sentiamo più forti: se Easy è riuscito ad incontrare
la famiglia di Taras, noi possiamo vincere qualsiasi piccola sfida del
quotidiano. E poco importa che quella sullo schermo sia un’opera di finzione
mentre questa qui fuori sia la vita reale.
...Grande
spazi deserti, location mozzafiato, raramente viste nel cinema italiano.
Il regista fa un grande lavoro nel scegliere il paesaggio, spesso
abbandonato, che mostra i segni del tempo e ricorda le location del cinema
sovietico degli anni ’70. I personaggi che fugacemente si affacciano
all’avventura di Isidoro sono altrettanto memorabili, improbabili, a volte
inquietanti.
Magnani
lavora per sottrazione, togliendo man mano dialoghi, azione, forza e difetti al
protagonista. Isidoro si spoglia di tutto per arrivare alla catarsi finale e
così deve fare lo spettatore, perchè man mano che il film procede, il ritmo
cala sempre di più, l’atmosfera si fa più rarefatta e trascendente ed è lo
spettatore che deve trarre forza e senso dalle scene finali. Da un inizio
movimentato, si arriva, esausti, ad un finale silente.
Easy – Un viaggio facile facilericorda più il cinema estero che quello italiano.
E’ una commedia sottile, triste e faticosa, ma ottimista. Porta sullo
schermo un cinema indipendente che trae la sua forza da un soggetto
accattivante e una realizzazione elegante. Un piacevole viaggio a fianco di Easy,
la bara di Taras e un carro funebre che si guadagna un posto tra i mezzi di
locomozione più iconici in un road movie.
EASY è un gioiello: i talenti non sono "muscolari" ma funzionali a un on the road delicato e profondo. Boris Sollazzo EASY fa tesoro della tradizione della commedia italiana: qualcosa di cui molti, oggi, sembrano aver smarrito la memoria. Valter Vecellio, Jobsnews Originalità, leggerezza, un bravo protagonista e un preciso stile visivo. Roberto Nepoti, Repubblica EASY: un’opera di notevole pregio, una novità nell’asfittico cinema italiano di questi anni. Antonio Pettierre, Taxidrivers Una storia surreale, con un imprinting quasi fantozziano. Ansa Come Marrakech Express, EASY potrebbe diventare il manifesto (esistenziale) di una gioventù che si trova in mezzo al guado Carlo Cerofolini, Ondacinema Andrea Magnani e lo straordinariamente efficace Nicola Nocella hanno saputo trovare una modalità originale per rileggere il tema dell'on the road. Gianfranco Zappoli, MYmovies Una commedia bizzarra e poetica che si snoda come un road movie. Simona Santoni, Panorama da qui
una spia inglese in Sudafrica si innamora di una donna che riesce a portare in Inghilterra per vivere con lui. il punto è che per farla arrivare ha dovuto chiedere un favore, che poi va restituito, con interessi da usura. e gli esseri umani sono solo pedine di giochi che non prevedono l'umanità, figuriamoci l'amore. tratto da un romanzo del grande Graham Greene. bravissimi attori, ritmi lenti (come quelli de La talpa), un film che merita, promesso - Ismaele
Tratto nel 1979 da Graham Greene, una di quelle
spy stories assai british (e assai Greene) che mettono l’individuo al centro
del plot, a costo di sacrificare qualche orpello del congegno narrativo,
qualche esteriore colpaccio di scena. Amosfere plumbee, con quelle ombre che
ben si addicevano a Otto Preminger, ebreo fuggito da una Mitteleuropa in preda
al male, uno degli esiliati a Hollywood provenienti dal cinema (e dal mondo)
dell’asse Vienna-Berlino. C’è una talpa nei servizi segreti britannici, passata
dalla parte del nemico rosso, il comunismo di Mosca (siamo in piena guerra
fredda). Ma è un tradimento avvenuto per riconoscenza nei confronti di un
russo, non per avidità e nemmeno per solidarietà politico-ideologica. Come
anche in John Le Carré, che di Greene è l’erede e il continuatore, i giochi di
potere, le mosse e le contromosse sulla scacchiera sono dettate sempre da
qualcosa di umano, troppo umano. Bellissimo titolo. Gran cast all’inglese,
ovvio: Richard Attenborough, John Gielgud, Derek Jacobi. Attenzione, c’è anche
Iman, bellissima.
C'è una talpa nel servizio segreto inglese.
Deve essere identificata e, per non fare scattare uno scandalo, deve essere
uccisa. Funzionario di medio livello, Morris Castle, ha avuto la
"dabbenaggine" di aver sposato una donna di colore in Sudaflrica,
dove era distaccato all'ambasciata. Per non separarsi da lei ottiene aiuto
nell'espatrio della donna con un figlio da parte del KGB ed in cambio offre
notizie segrete di modesto rilievo. Messosi in allarme a seguito della morte
(poco chiara) di un giovane collega, richiede aiuto al KGB e fugge a Mosca. Quì
scopre che il suo ruolo di talpa era in funzione di comprovare al servizio
segreto inglese di avere una solida fonte d'informazioni nel Kremlino (in
realtà un uomo del KGB che, rinviando le notizie apprese da Castle, si
accredita come valido elemento e può agire facilmente come disinformatore).
L'aiuto nella fuga ricevuto dal KGB serve solamente per far scoppiare uno
scandalo e mettere l'intelligence service in difficoltà con gli americani. A
fuga avvenuta Castle non serve più e quindi non riuscirà più a riveder moglie e
ragazzo. E' una spy story, ma anche (e per me soprattutto) una storia di
amore intenso e struggente, sofferto e difficile. Tratto da un'opera di
Graham Green (quì anche sceneggiatore), è l'ultimo lavoro di Otto Preminger,
non molto riuscito in quanto appesantito sia dalla trama, sia dal ricorso
eccessivo al flashback, con il risultato di rendere il film lento ed in alcuni
momenti monotono. La recitazione di Nicol Williamson è convincente ed amara.
Buona anche la prova di Richard Attenborough. Musiche apprezzabili.
Valentina Pedicini aveva girato un documentario in cui intervistava l'unica donna minatore italiana, nella grotta di Nuraxi Figus, in Sardegna (qui la scheda su Imdb). Dove cadono le ombre è la sua opera prima (non documentaristica), ispirata a una storia di genocidio da parte della Svizzera, contro gli Jenisch. la storia raccontata si ispira ai libri di Mariella Mehr, una bambina sopravvissuta all'esperimento di eugenetica, di stampo nazista. film doloroso, con molti silenzi, sguardi, turbamenti, piccole vendette, smascheramento di una storia poco conosciuta. bravi gli attori, non è un film perfetto, ma vale più di quanto sembri. non si può perdere, se uno capita vicino a una delle 5-6 sale italiane dove viene proiettato - Ismaele ps: siamo cresciuti coi miti della civilissima Svizzera e del faro della civiltà che sarebbero gli Stati Uniti d'America, sappiamo adesso che sono stati una schifezza, non tralasciamo di dirlo tutte le volte che capita (parliamo del Potere, naturalmente, non di ogni singolo cittadino di quei paesi).
…L’esperienza per lo spettatore di Dove Cadono le Ombre è
completa, totalizzante: non termina, non può terminare dopo i titoli di coda
del film. Si ha come l’impressione di aver ricevuto un pugno in faccia, di dover
portare con sé il dolore di quanto si è appena visto: perché si tratta di
un’opera di finzione, ma basata sulla storia di forse 2000 persone. Sarà
difficile una volta usciti dal cinema non cliccare su google i temi portanti
del film, alla ricerca di una verità che Valentina Pedicini ha sapientemente e
coscienziosamente voluto denunciare e che la scrittrice Mariella Mehr, protagonista
delle vicende denunciate nel film, documenta nei suoi romanzi; e ancora, non
vogliamo rivelare nulla, perché le contrastanti emozioni che la pellicola
suscita valgono la pena di essere vissute appieno (ed in questo, il trailer è
perfetto nel suo non rivelare niente di più di ciò che lo spettatore dovrebbe
conoscere prima della visione).
Ci troviamo sicuramente di fronte ad un
prodotto lontanissimo dagli standard commerciali ed in quanto tale (sic!) di
alto livello, quasi autoriale grazie alle
particolari caratteristiche documentaristiche che la sua regista nasconde (come
abbiamo affermato fin dall’inizio, neanche troppo velatamente) all’interno di
esso, per forza di cose impossibile da far arrivare a tutti in modo
adeguato. Dove Cadono le Ombre è al tempo stesso lento ma
assolutamente magnetico, a volte ingenuo ma anche straziante, e potrebbe essere
facile per alcuni soffermarsi sui (pochi) difetti – per la maggior parte figli
dell’inesperienza – anziché sui suoi macroscopici ma forse più insidiosi pregi.
…Sulla suggestione forse della poesia della
grande Mariella Mehr, jenisch ella stessa e preziosa, autorevole traccia
documentale di un orrore consumato sulla propria pelle (Dove non c’è luogo/si
nutre la parola della montagna non rimossa./Disperata frase per frase, la mia
Babilonia./Solo la ferita da aculeo tace.), la Pedicini ha realizzato un
film di fantasmi, sommesso e onirico, un film che non si limita a fare memoria
ma che è fatto di memoria. Dei suoi meccanismi di riemersione e rimozione
che si servono di movimenti sincronici di eventi diacronici, di carezze e
cazzotti tra passato e presente, compresenti e sempre confliggenti.
Un muro contro
muro dialettico, tradotto nello scontro mentale e fisico tra una sopravvissuta
e una sopravvivente, tra la jenisch Anna, e la vecchia carnefice Gertrud. La
prima, infermiera in un vecchio istituto per anziani, che una volta era stato
l’orfanotrofio dove aveva vissuta da bambina; là dove incuteva terrore la
seconda, la dottoressa che ora, invecchiata, ricompare come paziente. I ruoli
che si invertono, l’una fa all’altra quello che l’altra le aveva fatto a sua
volta e nel mezzo giochetti, meschinità, rivendicazioni, questioni non risolte.
Al netto di una certa
impostazione teatrale, le due interpreti, Federica Rosellini ed Elena Ciotta,
sono bravissime e l’operazione rivela una grande cura formale e un’algida
architettura emotiva, un procede per ripetizioni a bassa intensità, (primi)
piani severi e sentimenti strozzati come groppi in gola. La scena della memoria
non può che essere la stessa dell’accaduto, il luogo dove i ricordi sono eventi
intrappolati negli scantinati dell’anima. Immagini vuote, innocue, finché il
lucchetto è chiuso. Riportami la notte, l’occhio del giorno mi strappa la
ragione, scriveva la poetessa…
…In "Dove cadono le ombre" la memoria sepolta
viene plasticamente messa in scena con le continue buche scavate nel terreno
del parco da parte di Hans che porta ogni sera ad Anna resti di ossa di piccoli
animali, nel vano tentativo di scoprire la sepoltura di Franziska. Ecco che
allora nella diegesi principale nel tempo presente s'innestano numerosi flash
back in cui la giovane regista (anche co-sceneggiatrice) mette in fila una
serie di episodi che si raccordano l'un l'altro come singoli anelli di una catena
che collega drammaturgicamente il presente con il passato dei personaggi. Il
senso di decadenza e di disfacimento, di isolamento fisico e freddezza emotiva,
sono aumentati dagli interni spogli ed essenziali, dai gesti misurati di Anna
che implode le proprie emozioni. Ma quello che più tormenta la donna alla fine
è comprendere quanto sia diventata uguale a Gertrud: più volte abbiamo delle
inquadrature in cui le due protagoniste sono allo stesso livello, come ad
esempio nella doccia oppure sedute dietro a un tavolo, mentre mangiano una
caramella, dove persino i gesti sono compiuti in parallelo. La scoperta della
verità è anche una liberazione per Anna che si è murata volontariamente nella
villa per espiare una responsabilità tutta sua: quella di essere stata la
preferita di Gertrud durante gli anni dell'orfanotrofio. La morte di una donna
anziana, la quotidianità della vita degli ospiti al termine dell'esistenza sono
metonimiche del dolore di Anna, così come la villa è il luogo simbolico di un
intero dramma che ha colpito un popolo. I colori desaturati, le riprese
claustrofobiche dei lunghi corridoi nella penombra, la stessa Anna inquadrata
più volte nella semioscurità, contribuiscono a rendere visivamente il grumo
nero che riempie il personaggio.
Se da un lato, "Dove cadono le ombre",
forse, pecca di un eccessivo accademismo teatrale nella recitazione delle due
protagoniste (a dire il vero di una certa bravura, Elena Cotta - Gertrud e
Federica Rosellini - Anna), dall'altro la meritoria opera di disvelamento
storico di un dramma umanitario senza mai cadere nel patetismo ne fanno una
pellicola degna di essere vista e rigorosa nella sua messa in scena. "Dove
cadono le ombre" lo possiamo considerare un'opera interessante alla
stregua di "Corpo celeste" di Alice Rohrwacher, "Vergine giurata" di Laura Bispuri, "Liberami" di Federica di Giacomo e "Nico 1988" di
Susanna Nicchiarelli. Valentina Pedicini con il suo film si rivela una regista
di grandi qualità che la inseriscono di diritto tra le giovani autrici da
seguire e affacciatesi nel panorama cinematografico degli ultimi anni.
…Generalmente, quando si confeziona il proprio lavoro
di debutto, si cerca di mantenere un linguaggio ruffiano e di andare sul
sicuro. Valentina Pedicini, invece, decide intelligentemente di rischiare e propone una
forma filmica tanto scarna quanto meticolosa nell’allestimento scenico, nella
gestione della spazialità e in una direzione attoriale di stampo prettamente
teatrale. Una fotografia algida e particolarmente curata (firmata da
Vladan Radovic, autore anche delle immagini della trilogia di Smetto Quando Voglio e qui forse
al suo miglior lavoro) ci restituisce interni spettrali, nei quali la cineasta
fa muovere gli spiriti del passato in inquadrature di grande suggestione. I
tempi sono dilatati, i movimenti di macchina sobri e minimali; il commento
musicale di Paolini e Grosso sorprendentemente (e fin troppo) diradato…
…in Dove cadono le ombre Valentina Pedicini rifiuta preconcetti e soluzioni di
comodo, una divisione manichea tra bene e male, perfino in un contesto del
genere. Soprattutto nei dialoghi tra Anna e Gertrude, che probabilmente
rappresentano i momenti più alti e riusciti dell’intero film, assistiamo al
dischiudersi di due personaggi senza abbellimenti, umani e autenticamente
complessi, che spesso rendono difficile distinguere il confine che intercorre
tra donna e bambina, amore e odio, vittima e carnefice.