una pagina vergognosa del paese civile, ordinato ed ecologico, con gli orologi a cucù e il cioccolato (e la sterilizzazione delle donne jenisch (rom) e il rapimento dei loro bambini, per essere affidati, anche loro, a famiglie cattoliche),, quel paese è la Svizzera. orfani e poveri venivano messi in istituti, per essere poi affidati, con l'aiuto dei parroci, presso famiglie che avevano bisogno di schiavi, nel secolo scorso. una maestrina cerca di farsi sentire, ma invano. Max e Berteli sognano di fuggire in Argentina, il resto lo vedrete voi. gran bel film, per i miei gusti - Ismaele
Spesso i film svizzeri di successo non arrivano
nelle sale ticinesi. È perciò da salutare con soddisfazione l'uscita di
Der Verdingbub (Vite rubate) del regista Markus Imboden. La pellicola, ha fatto
la sua figura in marzo ai Quarzi (sei candidature e due premi: al giovane
protagonista Max Hubacher e a Stefan Kurt come migliore non protagonista) e
soprattutto porta alla luce con una fiction emozionale una pagina oscura e a
lungo «insabbiata» della storia svizzera. Il tema tratta, in forma di dramma
sociale, il destino di orfani o figli di genitori separati che venivano dati -
dall'800 e fino alla metà del secolo scorso - a famiglie contadine affidatarie.
In cambio di vitto e alloggio, a volte pessimi, venivano usati come manovalanza
nelle campagne. Un vero sfruttamento in contesti famigliari a loro volta poveri
economicamente e moralmente. Il tutto con il tacito consenso delle autorità
locali. La cultura dell'epoca era spesso indifferente ai diritti dell'infanzia
e questo in varie parti del mondo. Der Verdingbub, che nelle scene iniziali nel
sottofinale mostra il passaggio di una piccola bara, racconta della fattoria
dei Bösinger, gente che lavora duro e non ha tempo per i sentimenti. Lì
arrivano l'adolescente Max (Max Hubacher) e la dodicenne Berteli, strappata
alla madre divorziata. Dal servizio militare torna il figlio, che mette subito
gli occhi su Berteli. E arriva in paese la nuova maestra, giovane e piena di
buone intenzioni. Intanto, per Max e Berteli la vita è sempre più dura e a
niente servono i tentativi della maestra di protestare con il sindaco e il
pastore perché la loro situazione migliori. Una cappa di omertà, di perbenismo
di facciata, di cattiva coscienza plana su tutto. Max, che suona benissimo la
fisarmonica, e Berteli, sognano di fuggire in Argentina, terra promessa di vita
migliore. Ma la situazione precipita. La maestra è licenziata e Berteli,
incinta del figlio del padrone, muore di aborto. Soltanto Max riesce a fuggire
e a realizzare il suo sogno. Molto coinvolgente, anche se la sceneggiatura non
è perfettamente controllata, il film mette in scena una società con
atmosfere degne dei romanzi di Dickens.
Nicely photographed, “The Foster Boy” will make
the Swiss movie industry proud. A family, living in a mountain farm, shelters
kids from poor families in change of help and some monthly amount of money. The
movie concentrates in very different types of abusing endured by these kids,
who had lost everything in their lives. The exception is Max and his passion
for playing accordion, which will give him strength to go on dreaming with a
better life. This is the kind of movie that you can’t help being involved with
and be indignant. Every single performance was crucial to attain a honorable
result. Not to be missed.
un film sul potere, i buoni e i cattivi, il denaro, la frontiera e tutto il resto. tutto questo non in un noioso saggio, ma in una storia che si fa vedere e godere, attori bravissimi, nelle mani di un grande regista. in quei tempi erano film normali, oggi mancano film così politici senza volerlo essere. era l'aria dei tempi, adesso le arie sono diverse, purtroppo - Ismaele
Un western all'apparenza picaresco ma che
mostra subito tutta la sua attualità politica. Un bounty killer è incaricato da
latifondisti di cercare un peone messicano accusato di avere violentato una
ragazza e di averla uccisa. La caccia e l'inseguimento sono spietati ma il
cacciatore di taglie scopre che il messicano non è affatto colpevole,è solo un
capro espiatorio per coprire le malefatte del figlio di chi lo ha
assunto. Duello finale multiplo che è un esplicito omaggio(del resto come anche
il resto del film) ai western firmati da Sergio Leone. Il quale dal canto suo ha
messo più del cosiddetto zampino nel film. Si respira un aria contagiosamente
anarchica e non è neanche tanto velata una critica spietata alla classe aristocratica
mentitrice,sfruttatrice ed infingarda. Ed emerge la maschera di Milian che nella
parte del ricercato messicano letteralmente ci sguazza,contrapposta
all'eleganza senza tempo dei lineamenti di Lee Van Cleef. Forse nulla di
originale,ma siamo agli albori dello spaghetti western già reso genere di
riferimento dai film di Leone. Qui almeno ci si diverte e non è poco....
Due ottimi protagonisti in forma, ma è la regia
che non incanta fino alla seconda parte, dove entra in gioco anche Morricone.
Qui il film diventa degno di Leone, anzi, lo supera con la lunga sequenza del
fuggitivo braccato fra i canneti e i canyons, meravigliosamente accompagnata
dalla musica del Maestro. Per me il miglior pezzo di cinema western mai visto. Belli e originali i duelli, semplicemente
memorabile la battuta finale.
Eccellente western che riprende un fatto avvenuto in Sardegna in
quel periodo. Nascita del peone Cuchillo, simbolo del 68 italiano (Lombardo
Radice scrisse unas ceneggiatura per un film mai realizzato). Il grande mestiere
di Sollima ha una maturità talvolta superiore anche a quella di Leone;
l'impianto della storia è solido e i caratteri, pur ipertrofici come si
conviene ad uno spag, sono credibili e affascinanti. Milian conoscerà con
questo film l'inizio di una stagione d'oro nel cinema di genere. Grandissima
musica di Morricone.
…La resa dei conti è un perfetto e avvincente
western, dove tutto funziona con la precisione di un meccanismo ad orologeria. A cominciare, abbiamo
visto, dalla colonna sonora, il cui splendido tema portante (quello cantato nei
titoli di testa) ritorna più volte, arrangiato in modo diverso a seconda delle
situazioni, nel corso del film. Per proseguire con la
caratterizzazione dei personaggi, ciascuno fisicamente e psicologicamente
credibile e perfetto nel proprio ruolo, da quelli principali a quelli secondari.
Lee Van Cleef, pistolero implacabile e glaciale per eccellenza, assume qui una
connotazione psicologica più complessa e differente: è un elegante cacciatore
di taglie che lavora più per senso di giustizia che per soldi (caso quasi unico
nel western italiano), e che inizia a nutrire dei dubbi sulla reale
colpevolezza di Cuchillo, con il quale si instaura gradualmente un complesso
rapporto di rivalità e stima nello stesso tempo. Tomas Milian è pienamente a
suo agio nei panni del peone messicano perseguitato: avventuriero sempre in
fuga e spesso nei guai suo malgrado, è costretto a vincere la povertà con i
mezzi che ha a disposizione, ma è a suo modo onesto e non è quel delinquente
che tutti vogliono far sembrare. Tutto l’opposto di Brokston, interpretato da
Walter Barnes, un attore molto noto all’epoca: losco affarista, simbolo del
cinismo capitalista, non esita a perseguitare l’innocente Cuchillo pur di
salvaguardare il prestigio della famiglia in vista dei suoi affari, messi a
repentaglio dal vero colpevole; si tratta del viscido genero Miller
(interpretato da Angel Del Pozo), il quale, sotto le apparenze di uomo
raffinato e rispettabile, nasconde una personalità crudele e perversa che lo
spinge a violentare e uccidere una ragazzina. Assolutamente originale è poi il
personaggio interpretato da Gerard Herter, anch’egli perfetto nel proprio
ruolo: si tratta del Barone Von Schulemberg, un ufficiale asburgico al servizio
di Brokston, che porta un monocolo, indossa abiti principeschi ed è un cultore
delle armi e della musica classica. Anche nell’introduzione di un personaggio
di questo tipo si vede la grandezza di questo film: un colpo di genio,
all’interno di un panorama già molto variegato, che spiazza lo spettatore
inserendo un elemento di novità nel genere western…
The Big Gundown,
album-tributo del 1986, è un disco che, a più di vent'anni dalla
sua uscita per l'etichetta Nonesuch, è ancora fresco e rivoluzionario.
E' il primo lavoro di John
Zorn, compositore, sassofonista e multi-strumentista newyorkese, pubblicato
da una major. Questo CD riprende nove motivi di uno tra i più grandi
compositori di colonne sonore, Ennio Morricone.
La tracklist, varia ed
eterogenea, si apre con il brano "The Big Gundown", dalla OST
di "La resa dei conti", uno spaghetti western del 1967 diretto
da Sergio Sollima con Lee Van Cleef e Tomás Milian.
Seguono altri pezzi molto
belli come "Peur Sur La Ville", "Poverty",
"Milano Odea", "Erotico", "Metamorfosi"
e alcuni temi principali delle colonne sonore più note di Morricone come
la "Battaglia d'Algeri", "Giù La Testa", e
una struggente "C'era Una Volta Nel West" con cui Zorn chiude
questo magnifico tributo.
Trova spazio in questo disco
anche una composizione originale del sassofonista newyorkese che amplifica la
carica sperimentale espressa nei brani del maestro romano.
Tutta la crema
dell'avanguardia dell'epoca poi, sfila nelle formazioni che si alternano nei
singoli brani, da Bobby Previte a Cyro Baptista,
da Bill Frisell a Arto
Lindsay e Tim Berne, assicurando all'opera una
molteplicità di timbri e colori.
Zorn, in questo frangente
alle prese con delle composizioni non sue, distrugge e ricostruisce i brani
scelti, spaziando tra diversi stili.
Musica sperimentale,
classica, bebop, folk giapponese, rock, country e jazz si incontrano e si
fondono in questo album, creando un suono che ha la propria forza nella massima
libertà d'espressione, priva d'ogni limite ed etichetta.
La struttura originaria dei
pezzi non viene alterata ma piuttosto rafforzata.
Ogni tema è restituito
fedelmente e al contempo, completamente stravolto, ma sempre con maniacale
attenzione filologica: ad esempio nel brano che dà titolo all'album, dopo sei
minuti, si ascolta un breve accenno a "Per Elisa" che nel film
scandisce la fasi finali di un duello.
Impossibile poi non
apprezzare la japan version di "Giù la testa", il soul-jazz di
"Erotico" con John Patton all'organo Hammond
e la posseduta vocalità di Diamanda Galás in "La
classe operaia va in paradiso".
Senza dubbio, si può
affermare che The Big Gundown è un disco bello, la cui forza
sta nella varietà degli stili e dei suoni anche se ostico per l'ascoltatore
poco abituato a causa di certe "gratuità rumoriste" proprie
della poetica sonora dell'autore. Elio Marracci
This perhaps isn't the best known spaghetti
western but I have to say that it's absolutely one of the better and more
enjoyable ones that I have ever seen!
Like basically all genre examples, it has a
pretty simple and straightforward main story in it but it however are all of
the little details and nuances in it that help to make this movie an effective
one. And even while the main story itself is pretty simple it still manages to find
a pretty original approach to things, which also indeed lets this movie work
out as a pretty original one within its genre.
It's basically one long chase movie, involving a
cat and mouse game between an unofficial lawman played by Lee Van Cleef and a Mexican
peasant played by Tomas Milian, who is accused of raping and killing a
12-year-old girl. Of course nothing really ever goes as planned and also not
everything is what it seems, which means that the story has some interesting
changes in it at times and a good chemistry and relationship between its two
different main characters…
prove tecniche per il capolavoro dell'anno dopo, Breakfast club. sembra che in pochi giorni John Hughes abbia scritto la sceneggiatura di Sixteen Candles, per una storia in equilibrio fra le risate, i pensieri, le preoccupazioni di adolescenti quasi adulti in un mondo difficile. sembra un filmetto, fino a che non lo guardi. dategli un'occasione, non ve ne pentirete - Ismaele
…un buon Film, che cominciava a far vedere Hughes bravo a
scrivere e dirigere Commedie e nonostante un soggetto,facilmente banale,
riuscendo a non cadere a questa, e neanche sul mieloso riuscendo a essere
equilibrato,con un buon senso del ritmo e a tratti delirante, per una miscela
che funziona e che coglie bene le atmosfere e i sentimenti adolescenziali
dell'epoca.
Vabbè dai....io l'ho trovato un film fantastico,
non mi ha fatto morire dalle risate però mi ha tenuto di buon umore per tutta
la durata; pensare poi che non ero certo a cosa andassi incontro visto che su
questo film sapevo poco nulla e credevo che John Hughes (regista e
sceneggiatore) calcasse la mano sullo sdolcinato, invece riesce a tenere in
lodevole equilibrio la commedia giovanile con la favola adolescenziale con un
più di un tocco di demenzialità. I vari soggetti sono simpatici, alcune battute
e gag sono divertenti e si snocciolano anche perle di saggezza: "ecco perchè
le chiamano cotte, quando il cuore fa male vuol dire che brucia". Altri
motivi dell' encomiabile esito della fatica di Hughes è il fatto di non
concentrare tutta la storia solo sulla protagonista ma di lasciare spazio anche
agli altri personaggi, tant'è vero che Samantha (Ringwald) nella parte centrale
del film si vede poco non soffermandosi, giustamente, al compleanno scordato
della protagonista; a proposito del personaggio primario Molly Ringwald è
veramente incantevole, perfetta per il ruolo. La colonna sonora svaria da Frank
Sinatra a Billy Idol, dagli Spandau Ballet a Patti Smith solo per citarne
qualcuno, ma non prende mai il sopravvento come succedeva spesso nei film di
quegli anni, d' altronde stiamo parlando della metà degli anni '80 quando i
videoclip incominciavano a prendere sempre più piede, ma non essendo questo un
film musicale è giusto che rimanga come accompagnamento e basta. Negli USA
incassò 23,7 milioni $ a fronte di un budget di 6,500,000 milioni $.
…Dopo
qualche sceneggiatura per il cinema, Hughes chiede al suo agente di cercare
attrici adolescenti: tra queste c'è Molly Ringwald, ragazza che diventerà la
musa di Hughes e protagonista di diversi suoi film. Appena vede Molly Ringwald
lo scrittore ne rimane folgorato e nel giro di un solo week-end scrive "Un
compleanno da ricordare", la sua prima pellicola da regista. Il film deve
buona parte della sua riuscita proprio alla scelta di Molly Ringwald, lontana
da tutti gli stereotipi utilizzate fino a quel momento al cinema: la sua
capigliatura rossa la fa uscire dal dualismo bionda/mora, socialmente non
rientra nè tra le reginette di bellezza nè tra le bruttine stagionate, la sua
Sam è un personaggio credibile nella quale potevano -veramente- riconoscersi le
adolescenti dell'epoca. E anche di oggi, più di quanto possano riconoscersi in
buona parte dei personaggi odierni.
Segue questo modello anche tutto il resto del cast: Hughes ha raccontato di
aver dovuto dribblare centinaia di ragazzi che si sono presentati al provino
per interpretare il geek Ted con la classica interpretazione/stereotipo da
occhiali scuri, calzino bianco e biro che escono dal calzino, rimanendo
impressionato da Anthony Micheal Hall proprio perchè si comportava come un
ragazzo normale, non accettato dalle masse ma normale. Non a caso proprio la
Ringwald e Hall saranno "le due muse" di Hughes, che utilizzerà
ciascuno di loro in tre dei suoi film….
Sixteen Candles is a sweet and funny movie about two
of the worst things that can happen to a girl on her sixteenth birthday: (1)
Her grandparents shrieking "Look! She's finally got her boobies!" and
(2) her entire family completely and totally forgetting that it's even her
birthday. The day goes downhill from there, because of (3) her sister's wedding
to a stupid lunkhead, (4) her crush on the best-looking guy in the senior
class, and (5) the long, involved story about how a freshman boy named the Geek
managed to get possession of a pair of her panties and sell looks at them for a
dollar each to all the guys in the locker room.
If
"Sixteen Candles" begins to sound a little like an adolescent raunch
movie, maybe it's because I haven't suggested the style in which it's acted and
directed. This is a fresh and cheerful movie with a goofy sense of humor and a
good ear for how teenagers talk. It doesn't hate its characters or condescend
to them, the way a lot of teenage movies do; instead, it goes for human comedy
and finds it in the everyday lives of the kids in its story…
in un
posto abbandonato da dio e dal mondo vivono Shell e Pete, padre e figlia, in
una casetta con la pompa di benzina.
le
Highlands scozzesi non sono così accoglienti, freddo e solitudine la fanno da
padroni.
meno male
che Shell e Pete si sostengono a vicenda, ma fino a quando?
film
davvero bello, dove gli sguardi valgono più delle parole.
anche la
fotografia è notevole.
non
succede niente e succede tutto.
non
perdetevelo - Ismaele
…La bellezza è negli occhi di
guarda e ce n'è tanta davvero nello sguardo di questo regista sui suoi
soggetti. Immersi in un silenzio per una volta giustificato appieno dal
contesto narrativo, Shell e Pete vivono un legame di sangue e di carne che si
fa presto sinonimo di morte e di passione, di reciproca prigionia, fino al
cannibalismo metaforico. Ad aprire per la protagonista gli squarci
fondamentali sulla propria esistenza sono i pochi incontri con gli altri: una
bambina che illumina il passaggio generazionale, una donna che lascia un libro
di Carson McCullers, "Il cuore è un cacciatore solitario": un altro
grande debutto che ha dato voce ai dimenticati e a chi vive ai margini. Il film, che sviluppa e approfondisce il
cortometraggio omonimo del 2008, ha il sapore di un viaggio per la sopravvivenza
psichica anziché fisica, un viaggio on the road, anche se da quella casa -sulla
strada, appunto- Shell non si è mai allontanata più di qualche decina di metri.
Come nel romanzo americano citato, sono gli incontri che fanno il film, le
tracce che lasciano più o meno consapevolmente sul personaggio splendidamente
vissuto da Chloe Pirrie. La sua è una storia di liberazione dal vuoto e
un'esistenza avventurosa e infiammabile, prima ancora che cominci.
Ugualmente, Shell contiene una promessa indelebile, per il
futuro del suo autore.
…Using a minimalist concept, Graham knew how to cook
thoroughly this story, increasing my curiosity about what the characters feel
and think. The grave silences and revelatory looks speak for themselves, and
the film runs patiently towards its freeing ending. Penetrating and
uncomfortable, “Shell” is an outstanding film that shall not be ignored.
…Shellè insieme un film d'amore e una profonda riflessione sul divenire
adulti, sul sacrificio e sul destino, e il cinema di Scott Graham è un cinema
asciutto, fatto di sottrazioni e che vive di silenzi, di sguardi, di parole non
dette e di segreti inconfessabili, un cinema attaccato ai volti e ai gesti di
due straordinari protagonisti, Chloe Pirriee Joseph Mawle, per i
quali non si può far a meno di parteggiare. Un'opera dolente che scuote nel
profondo e che il regista (anche sceneggiatore del film) costruisce in maniera
accattivante usando gli stessi meccanismi del thriller per tenere lo spettatore
in tensione fino all'ultima inquadratura, avvolto nell'incertezza su quel che
accadrà. Poi la scena finale, liberatoria e catartica, di quelle che
alleggeriscono il respiro e restano dentro a lungo.
nel 18° secolo, in Romania, in un profondo medioevo, con la schiavitù e i padroni di corpi e anime che hanno diritto di vita e di morte, oltre che di tortura, naturalmente, ci sono due male in arnese, un padre vecchio, e un figlio un po' tonto, sono, come in un western che si rispetti, cacciatori di taglie, si ride, si va al bordello, di corre, di fanno incontri, insomma, tutto come il faut. poi riescono nel loro scopo e riportano il fuggitivo, il servo schiavo rom, guarda caso, al padrone. vi basti questo, alla fine il cacciatore di taglie dice al figlio che... ma dovete vedere il film, sarà una bellissima sorpresa - Ismaele
…la concepción circular de Aferim! alcanza
a todos sus niveles de lectura. Las andanzas de Costadin e Ionita empiezan y
acaban en el mismo lugar, con una pequeña y muy relevante elipsis (el escenario
del hogar) en el trazo del círculo de la trama. Y más allá de lo diegético, la
transmisión generacional de valores repetidos se adivina (Ionita mediante)
completada sin conflicto, así como el mantenimiento del orden social. Este
aspecto resulta interesante si tenemos en cuenta que la cinta está inscrita en
la cinematografía de un país que, si por algo se ha caracterizado en los
últimos años, es por su fuerte carácter de crítica social contemporánea (que ha
laureado a autores como Cristian Mungiu, Cain Peter Netzer o Cristi Puiu). En
cierto modo, Jude realiza una exploración en los orígenes de esas tensiones de
clase rumanas. Con lo que su Valaquia amplifica sus ecos como yermo ya no
paisajístico, sino cultural y humanitario. En el que una vida de vagabundeo
encuentra sus mayores recompensas en una hoguera al raso con la que calentarse,
una cena con la que llenarse el estómago y una vulva con la que aliviar las
tensiones del camino. Si bien, sobre todo, Aferim se contempla
como un soplo de aire fresco frente al semblante serio de la crítica social
contemporánea: no olvidemos que la picaresca, pese al miserabilismo en el que
se inscribe, es un género capaz de crear una irresistible atracción hacia su
mezcla pintoresca de folclore y humor. Y la película de Jude se deja permear
por esta deliciosa socarronería que emerge de entre la negrura.
Nell'esplosione
della nouvelle vague di film provenienti dalla Romania mancava l'affresco in
costume come Aferim, che ci porta nella prima metà
del XIX secolo nella Valacchia che solo qualche decennio dopo si sarebbe
unificata dando vita allo stato nazionale rumeno. Il protagonista è quello che
potremmo definire una via di mezzo fra un poliziotto dell'epoca e un cacciatore
di taglie che viaggia per il paese insieme al figlio alla ricerca di uno
schiavo fuggitivo di etnia rom.
Se
la dittatura comunista di Ceausescu è stata
protagonista del cinema rumeno degli ultimi tempi che si è
fatto apprezzare nei festival più importanti del mondo, è sul suo passato
meno recente che il regista Radu Jude crede valga la
pena porre l'attenzione. Un tentativo, il suo, di iniziare un processo
consapevole di (psic)analisi per guarire la società rumena di oggi scoprendo da
dove viene e di conseguenza capire come calibrare la direzione in cui andare.
Nel
farlo Jude ha effettuato delle approfondite ricerche
trovando alcuni casi reali che lo hanno ispirato per realizzare Aferim,
un film dall'andamento a dorso di cavallo, qualche volta di mulo, spesso al
trotto, ma ogni tanto con accelerate al galoppo. Picaresco e truce, ironico e
spietato è il ritratto di un paese rurale, povero, in cui la schiavitù è ancora
presente nella quotidianità, con una nobiltà in grado di disporre della sorte
dei suoi sudditi in maniera quasi feudale…
…Los textos han sido extraídos de cartas y archivos
históricos verdaderos. El resultado es como una de cazarrecompensas de
Tarantino pero más real.
Cruel, pero con un humor negro, sórdido y ácido
(Imperdible la escena previa a la sentencia del Sultán Constandin sin Georgeu)
único.
Durante todo el viaje Aferim alecciona a Ionita en
cuestiones importantes de la vida: "Lo que tu mano encuentre para hacer
hazlo según tus fuerzas porque en el sepulcro donde vas no hay obra ni industria,
ni ciencia ni sabiduría."…
Wittily co-written
and passionately directed by Radu Jude, “Aferim!”, is an extremely entertaining
historical adventure, set in Eastern Europe in 1835, that gallops at an
effortless pace and carries death, sickness, greediness, and punishment in
considerable amounts to grab your senses in several ways.
The filming
locations are superb, providing the perfect background for the incredible
black-and-white canvases created under the supervision of the competent
director of photography, Marius Panduru. This prophetic manhunt, occurring in
the idyllic surroundings of Romania’s Wallachia, is simultaneously eventful,
chatty, outlandish, and grotesque in its very own way. Its characters are
wonderfully sarcastic, moving in idiotic, toadying, and peremptory manners that
can be considered equally stupid and funny…
…With
his feeling for movement in space and between people Jude achieves something
magnificent because, as with masters like Hou Hsiao-Hsien, the action is just a
part of a bigger social and historical context. Moreover, we are allowed to
watch relations in single shots that are full of respect for reality. When the
father played by a great Teodor Corban climbs on his horse, he will need some
time, and when they go or ride from one place to the next, we feel the absurd
complexities of life. The powerful rhythm of the film, with all the
noise, mud and catchy music, creates a fascinating disdain that never feels
cold. It is almost unbelievable how a country like Romania is able to have such
an amazing production outcome in terms of quality. Aferim! is
another must-see film and it certainly would deserve an award.
…Aferim! possiede
una lunga serie di eccellenti motivi che giustifica il consenso unanime di
critica che ha ricevuto, anche perché è proprio nella regia che la pellicola
mostra forse l’aspetto più nitidamente valido: la scelta di un bianco e nero
autentico, da Anni '40-'50, evoca atmosfere perfette per una storia che guarda
ai canoni western in maniera smaccata; i dialoghi divertenti, ricchi di facezie
e di funambolismi dialettici; i registri narrativi multipli sui quali il
racconto si appoggia, tra western-road movie-commedia spesso ridanciana e
dramma finale, ben si fondono a creare una storia semplice, ironica, cattiva e
drammatica al tempo stesso, in cui l’aspetto pedagogico non assume mai contorni
fastidiosi né scolastici; infine, ma non certo aspetto secondario, Radu Jude è
capace di lasciare una pregevole impronta stilistica, grazie alla particolare e
originale forma narrativa con cui decide di narrare una storia di sopraffazioni
e di triste accettazione della realtà.
…Le film apparaît donc
comme une flèche sans retour, où la seule vérité est celle de l’esclavagisme et
du racisme, qui affecte tout, surtout le profond des âmes. De ce point de vue,
_Aferim!_ nous apprend la tragédie des âmes conscientes de leur mal,
contraintes à l’alternative entre révolte violente et humiliation face à
l’impossibilité d’un compromis non révolutionnaire. Cette tragédie plonge
amèrement dans le sarcasme qui, avec un bon “bravo !” – “aferim !” – conforte
et motive la voix (humaniste ?) de Constantin, un homme qui se retrouve
finalement en échec.
_Aferim!_ n’est pas un film historique, mais clairement universel, et
sinistrement contemporain, car la tragédie qu’il raconte touche tous ceux qui,
malgré leurs bonnes intentions, se font complices de la barbarie de
l’esclavage. Et qui, dans notre société néocolonialiste, peut vraiment se dire
étranger à cette barbarie ?
Dio è morto, e chi rimane non sta tanto bene. tre donne sono in viaggio per risolvere il problema, se mai ci riusciranno, saliranno una scala, trovando dei morti, e parlandosi spesso una contro l'altra, ma l'ascensione tocca a loro. non sanno cosa troveranno, se arriveranno vive, hanno una missione, per conto di loro stesse, forse. film coinvolgente o del tutto folle, a me è piaciuto molto. provateci, non fidatevi di quello che si dice in giro - Ismaele
…Siamo in un futuro imprecisato. Il Creatore (Dio) è morto, ucciso da
un’entità sconosciuta che col suo atto ha reso l’umanità intera immortale e
dotata di poteri sovrannaturali: in seguito a ciò il mondo si è lentamente
distrutto, andando completamente in rovina. Tre donne iniziano la scalata verso
quest’entità rea in un palazzo altissimo dove regnano la morte, la pestilenza e
strani fenomeni paranormali, decise a mettere fine una volta per tutte ad un
mondo in disfatta, colpevole di non aver saputo gestire tanto potere. Dopo
svariato tempo una delle tre riesce ad arrivare in cima alla costruzione,
scoprendo l’identità del famigerato essere e…
Una dimostrazione davvero potente quella del
talentuoso autore in questione. Un dramma che va oltre la semplice prova di
forza visiva o filosofica, proiettando un’immagine di umanità davvero
imbarazzante. Hussain qui trova il coraggio di guardarsi allo specchio per
derivarne tutti i caratteri umani necessari, comprendendo non solo la necessità
di una pellicola che davvero mostri il volto masochista dell’uomo, ma anche la
natura di fatto stolta e pessimistica che viene rivelata dallo stesso vivente e
che codifica l’esistenza stessa. Il mondo che viene mostrato è appositamente
ridotto al nulla totale, gli unici esterni mostrati riprendono le primissime
vicinanze del palazzo, ovvero strade deserte, con rovine dappertutto, e
l’interno dell’edificio non è diverso. Le tre donne sono diversissime tra loro
e le loro storie, le loro convinzioni personali saranno il pretesto per mettere
a fuoco la vera essenza dell’uomo, che riesce ad autodistruggersi pur partendo
da basi perfettamente stimabili. Il viaggio che loro compiono è difficile, con
l’avanzare e l’avvicinarsi della cima aumenteranno i dolori e le sofferenze. La
strada è disseminata di morti con gli occhi cavati per la paura di scoprire
cosa li attende in cima, metafora dell’ottusa paura dell’essere di fronte alla
morte. Il palazzo, nonostante da fuori appaia modestamente alto, all'interno
sembra non finire mai, le rampe sono immense, e la loro infinitesimalità
permette di focalizzarsi meglio sul senso intrinseco alla storia. Un film
quindi ricco di richiami allegorici e filosofici, un’opera che punta molto su
ciò che si cela dietro alle apparenze, e che costringe chi osserva a farsi una
propria opinione, ad addentrarsi più profondamente nella lettura di ciò che
contempla, perchè in definitiva di contemplazione si parla qui…
… Un film enorme, una vera e propria lezione di
cinema per come dovrebbe essere. Un grandissimo, massimizzante quadro umano che
denuncia, riflette, condanna e infine distrugge ogni possibile arbitrarietà,
delineando una visione d’insieme realisticamente pessimistica e conscia
dell’ineluttabilità di un mondo dove il libero arbitrio e la potenza portano
alla morte.
''Ascension'' è un film profondamente conturbante. Un' opera
inclassificabile, unica. Un lento ed estenuante cammino ascensionale. Un
Tarkovskij orrorifico. ''Ascension'' è pura anarchia spirituale, mero
nichilismo trascendentale. Dio è morto. Il lavoro del canadese Karim Hussain è un
atipico horror filosofico. 'Ascension' è una terrificante benedizione per il
Cinema. Una visione assolutamente straniante. Capolavoro
…gli omaggi a Stalker di Tarkovskij sono tanti e balzano
subito all’occhio, dalla scelta del numero delle protagoniste, passando per gli
innumerevoli dialoghi, fino al finale.Ambientato interamente in un edificio
(che le tre donne dovranno scalare in tutta la sua lunghezza, poiché all’ultimo
piano si trova l’entità da uccidere, in una semplice ma riuscita metafora del
percorso difficile e irto di difficoltà che è l’auto-miglioramento e la
scoperta di sé), la pellicola di Hussain si snoda attraverso le asfissianti
inquadrature metalliche di macchinari giganteschi, scale arrugginite,
serpentine infinite di tubi. L’opprimente sensazione di chiuso e di distacco
del nostro mondo moderno, si percepisce in ogni singola inquadratura (molto
bella la sequenza dove la macchina da presa si deve divincolare in un groviglio
senza fine di travi, per arrivare ad inquadrare le protagoniste).Gli uomini
hanno avuto il potere, quel potere che sembravano bramare più di ogni altra
cosa e al quale aspiravano da sempre e, ora che l’hanno ottenuto, ora che sono
padroni assoluti di se stessi, ora che hanno nelle loro mani le redini delle
proprio vite, insomma ora che sono Dio, il mondo è diventato un inferno senza
scampo. Nella sua sete mai sopita di auto-disfacimento, l’uomo ha portato morte
e distruzione in ogni luogo.In un mondo siffatto, l’unica speranza sembra
essere la fine, il nulla. L’oblio perpetuo. Ma, fondamentalmente, la pellicola
di Hussain non è così pessimistica e nel bel finale ci propone una via
alternativa…
…Le réalisateur canadien exploite
ici au maximum l'architecture particulièrement intéressante d'une usine désaffectée
pour créer un univers post-apocalyptique avec finalement peu de moyens, aidé en
cela par une photographie très froide, utilisant le plus souvent une
colorimétrie tendant vers les gris et les bleus. Le film est une interminable
ascension d'un bâtiment pour trois femmes à la recherche de l'assassin de Dieu.
Cette montée ne se fera pas sans difficulté, entre fatigue et vieillissement
des protagonistes. L'histoire tourne essentiellement autour de ces trois
femmes, interprétées par Marie-Josée Croze ("Ne le dis à personne",
"Je l'aimais", "Un balcon sur la mer"), Ilona Elkin
("End of the Line", "Confessions d'un homme dangereux") et
Barbara Ulrich ("Danny in the Sky"), qui au cours de leur ascension
discuteront sur divers sujets existentiels (genre : As-tu déjà eu un orgasme?)…
…A l'instar de ses précédents travaux, ce
«Ascension » ferait passer Tarkovki pour un actioner. Il faut dire qu'avec
son néant à la « Stalker » (1979), ce lieu désertique n'a rien de
bien vivifiant. Cette absence de mouvements risque à elle seule de faire fuir
celui qui ne savait pas où il mettait les pieds. La première variation d'Hussain est le rôle du
langage. Amoureux des performances techniques, il va pendant les 2/3 du métrage
modifier son approche du langage verbal. Alors qu'il était habituellement un
argument venant soutenir l'image et le son, il vient ici supplanter
l'apparence. A ce petit jeu la qualité s'en ressent. Si les discussions
philosophiques lapidaires étaient une marque de fabrique, leur utilisation
répétée, toujours selon une articulation monotone, fonctionne assez mal quand
il s'agit de long-cours. L'écriture se fait par instant brouillonne et on sent
les creux des échanges. Une forme d’ambiguïté vient heureusement semer
le doute dans le petit groupe. Des secrets gardés et des pointes d'humour noir
– discrètes – détendent un peu le nerf de son approche métaphysique. On se rapprochera petit à petit des explorations
plus graphiques du cinéaste au fur et à mesure de l'ascension, se rapprochant
de la rencontre avec cette entité. Le propos, comme il a été dit, est un peu pataud
mais il n'en demeure pas moins intéressant. On retrouve l'obsession de l'humain
et de ses écueils, sa distanciation avec Dieu, la composante viscérale
supplantant notre magnifique logique jusqu'à épuisement de l'homo sapiens
sapiens. Une fois n'est pas coutume on a l'impression
d'inégalité qui prédomine surtout que le cadre ne bouge guère donnant encore
plus de poids aux dialogues…
un piccolo film ambientato nel Cile delle terre e delle acque rubata per costruire dighe.
una ragazza spagnola di un fondazione contro la costruzione delle dighe incontra e si scontra con un ingegnere italiano che prepara il cantiere per la costruzione della diga.
e poi da cosa nasce cosa.
succedono poche cose, Adela (ma anche Alberto) è bravissima, non si risparmia e di sicuro soffrirà di più, questo è il mondo.
a me è piaciuto molto, senza troppe complicazioni, e sincero.
peccato che Corso Salani non c'è più.
buona visione - Ismaele
…In Palabras, sullo sfondo di una moderna Santiago del
Cile, è la giovane Adela a raccontare alle amiche la relazione avuta con
Alberto un anno prima: un sentimento sofferto, un amore improvvisamente
svanito. Lei era sulle Ande assieme ad altri amici ambientalisti per contestare
la costruzione di una diga; lui, uno schivo ingegnere italiano, è lì a
rappresentare la ditta che quel progetto lo vuole attuare. Sulle tristi melodie
di un ballo non consumato, Adela e Alberto si diranno addio. Soggettista, sceneggiatore,
regista e attore, Salani (che davanti la macchina da presa così profondo e
intenso forse non è) scompone progressivamente la relazione fra i due
innamorati, si addentra pian piano nell’insofferenza di Adela, fino a mostrare
senza vergogna il patimento di chi ancora può piangere sinceramente per amore.
Bravissima e bellissima Paloma Calle quasi sempre in scena.
…dettagli su cui si costruisce un film
che sa essere lieve e denso allo stesso tempo, aperto e libero eppure avvolto
dolcemente su alcune scene, quelle in cui emerge la forza dello sguardo/cinema
di Salani, attimi che concentrano una ricerca progressiva e sempre rivoluzionaria,
capace di chiudersi attorno ad una scena di ballo, ad uno sguardo dove non
servono più parole per dire.
Salani squaderna il peggio del cinema italiano: immagini
spudoratamente soleggiate (passato) e sporche di melanconia (presente), una love story melò tra due
nemici “ambientali”, la trovata rivoluzionaria della narrazione in flashback,
tristezza di maniera e tanto altro. Paloma Calle è un’attrice fin troppo
teatrale, platealmente a disagio con la telecamera piantata sul volto (e allora
sgrana gli occhioni); il regista stesso, portatore sano di deteriore
morettismo, fa innamorare la protagonista di lui (alla Pieraccioni? Andiamoci
piano con gli insulti); le due amiche della protagonista sono anitre pettegole,
la coppia triestina non dà segni di vita. Fastidiosi indugi registici sulla handycam del cinema
“povero” (di mezzi come di idee), una sceneggiatura estratta da un temino di
quarta elementare: verso la metà della pellicola Adela attacca con io e lui ci capivamo senza
parlare e prosegue
per uno snervante quarto d’ora. Apprezzabile solo il bilinguismo
italiano-spagnolo, su un roccioso sfondo andino da cartolina. Gli snodi filmici
riusciti si contano sulle dita di un moncherino: in uno di questi il silenzio
ottenebra un ballo della protagonista, sfortunatamente per pochi secondi. Poi
quelli là sullo schermo ricominciano a sbrodolare parole (dallo spagnolo palabras), affondando il
coltello sullo spettatore: in confronto lo psicologismo di Ozpetek è cinema
epico e la ruffianeria di Muccino appare quasi digeribile (ho esagerato).
Abel Morales, un immigrato di Portorico, è riuscito a diventare un imprenditore, ma facendo il suo lavoro secondo le regole che le leggi impongono ha delle grandi difficoltà. è il migliore nel suo campo, ma i concorrenti, che conosce bene, fanno di tutto per farlo cadere. lui vuole giocare pulito fino all'ultimo, non sapremo se ci riuscirà. ottima sceneggiatura, grandi interpreti, un gran bel film che non delude, anzi... - Ismaele
…Il
nocciolo miracoloso dell’opera sarebbe questo, il dilemma tra fortuna e
pervicacia, le conseguenze disastrose della sorte o del successo sull’animo
umano. Non basta, il prodigio più grande è che il film non si ispira ma respira
il cinema di quell’età di mezzo, c’è Friedkin, Cimino, De Palma, e poi Lumet,
Mamet, Pollack, Jewison. Suoni, sonorità, sociologia, affreschi di interni, inseguimenti
di macchine, corse a piedi verso il nulla, Brooklyn, la neve, l’immondizia, i
mafiosi, le banche, i sindacati, i vestiti, i loft, la rabbia. Tutto, tutto,
proprio tutto è dell’anno (non) di grazia 1981, pure la mancanza di
pietà, da allora mai più pervenuta.
A 35 anni di distanza, A Most
Violent Year è il viaggio definitivo al principio della notte, il ritorno a
quel futuro senza distacco nè rimorsi né rimpianti, un buco nero che inghiotte,
dissolvendola, la sterile nebulosa di questo eterno presente e riorigina dove i
sogni di alcuni diventarono gli incubi di tutti. Sia lodato J.C. Chandor,
sia lodato Oscar Isaac, sia lodata Jessica Chastain, sia lodato Elyes Gabel,
sia lodato Alex Ebert. Sia lodato il cinema.
… Quella di Chandor è una New York viva,
ma moribonda, preda di una decadenza morale a cui il suo protagonista cerca
strenuamente di opporsi, ritrovandosi però costretto a scendere sempre più a
patti con la realtà. Ne viene fuori un film strano, dal ritmo letargico ma
bizzarramente ipnotico, una sorta di thriller placido che a tratti si risveglia
con due o tre sequenze dalla potenza e dalla tensione fuori scala. E tutto
ruota chiaramente attorno all'incredibile bravura di Oscar Isaac, che ancora
una volta prende possesso di un film e lo domina dall'inizio alla fine, in ogni
momento, in scene clou come quel fantastico monologo ai dipendenti ma anche in
momenti più piccoli e apparentemente insignificanti. 1981: Indagine a New York
è soprattutto suo, nonostante il resto del cast esprima comunque il magnetismo
delle grandi occasioni, ed è anche e soprattutto per godersi un'altra notevole
performance di uno fra i migliori attori sulla piazza che bisognerebbe
gustarselo.
Ci sono alcune famose pagine in Pastorale
Americana di Philip Roth, che ho sempre trovato formidabili a
differenza di quasi tutti quelli con cui ne ho parlato (anche quelli che hanno
amato quel romanzo), che le considerano invece la parte più insopportabile del
libro. Mi riferisco a quando Roth si mette a spiegare il business dei guanti,
come funziona la fabbrica dei guanti, come è fatto il prodotto, il disegno, le
dita, i gusti dei consumatori – uomini e donne. Il lettore è costretto a
calarsi in un groviglio di dettagli tecnici, tessili, industriali, economici –
e restarci per un bel po’. Altri autori, forse, avrebbero mirato al nocciolo
ideale della faccenda – gli affari, il commercio, l’ascesa di un imprenditore
immigrato secondo il copione del Sogno Americano – senza perdersi nel nitty-gritty dei
processi produttivi. Dopotutto, un’industria vale l’altra, no?, l’azienda dei
Levov avrebbe potuto produrre anche bulloni industriali o costumi da bagno, e
l’impronta morale del romanzo sarebbe rimasta la stessa.
C’è però una forza incredibile
nelle storie che emergono dalle cose, piuttosto che venire imposte dall’alto
dall’autore onnisciente. Il brulicare di dettagli tecnici può sembrare
insignificante per chi vuole distillare un senso simbolico dai fatti; ma la
realtà trabocca di minuzie e la cosa più difficile e potente del narrare è
mostrare come da questi brandelli di vita emergano dei possibili (ambigui,
tentativi, faticosi) disegni di senso.
C’è un tipo di narrazione densa
ed elevata che abbraccia i fatti dall’alto per mostrare la portata delle idee
che li vogliono spiegare. C’è invece quell’altro tipo di narrazione che nasce
in basso tra le apparenti insignificanze della vita – i dettagli trascurabili e
umili, irrilevanti per il disegno complessivo – per animare di vita vera e
vibrante le storie che emergono nel complesso. Ci sono svariati modi in cui un
autore può guardare ai dettagli – ma il modo in cui lo fa, quel movimento del
racconto che piomba verso la concretezza singolare delle cose e si aggancia
alla realtà e alla vita, è cruciale per il risultato alla fine ottenuto: se si
tratta, cioè, di una parabola allegorica o di uno squarcio nella realtà delle
cose…
…la pacata compostezza dei gesti, a
partire da quelli di un controllatissimo Oscar Isaac (l'attore più interessante
della sua generazione, che qui - avendo palesemente per modello le prove
più moderate di Al Pacino da giovane - regala probabilmente la sua miglior
interpretazione grazie alla bravura di Chandor nel dirigere gli attori). E poi,
la studiata pacatezza dei movimenti di macchina. La mdp - più spesso ferma che
in movimento (ancora più che in Margin
Call, dove tracciava spesso carrellate fra le geometrie degli ambienti) -
scruta in realtà sovente la scena con dei leggerissimi, quasi impercettibili
movimenti in avanti o indietro, che oltre a procurare una sensazione di
intrappolamento, aumentano nello spettatore un'ansia sottile. Il ritmo è
senz'altro lento, potremmo dire un "adagio": ma è una lentezza che
vibra come una corda che pare immobile e che invece è tesa allo spasimo…
…Forte di una fotografia
meravigliosa che riesce a rendere grandiose le immagini pertinentemente vintage
di una Grande Mela difficilmente resa così splendida e nostalgica prima, A most
violent year si fa forte di una tensione di natura più psicologica che fisica,
in grado di devastare interiormente la tenacia e la scaltrezza imprenditoriale
di un uomo che lotta in modo impari contro una casta che cerca tendenziosamente
e con l'inganno più subdolo di metterlo a tacere per sempre. Nel gran cast di
nomi già citati, un Albert Brooks, trasformista, un pò laido un pò amicone, e
perennemente con le mani nel sacco, completa un terzetto d'eccellenza che
avrebbe meritato almeno la menzione all'Oscar.
…una idea que funciona a la perfección: un
hombre huyendo de una espiral de violencia, que sin darse cuenta le atrapa.
Imagen que podemos capturar en una escena en la que Abel dice algo así como que
pasó toda su vida evitando ser un gánster. Casi claudicando. Y el destino
parece depararle otra cosa. Toda una declaración de intenciones. Afirmación que
además supone un posicionamiento ideológico, pues se aleja de ese cine que
enaltecía y todavía glorifica a la mafia, dotándola de un hálito glamuroso; a
la altura de las propias estrellas de Hollywood. El personaje de Oscar Isaac,
siguiendo con los antagonismos, podría ser el adverso del interpretado por Ray
Liotta en Goodfellas(1990). Además
reniega de la corrupción y del crimen como quien se repite una mentira una y
otra vez para auto convencerse. Un mantra de fe. Se ratifica constantemente:
impidiendo que su flota de camiones lleve armas, enfrentándose a su esposa que
le reta por no saber proteger a los suyos, intentando demostrarle al fiscal que
juega limpio. Pero en el fondo sabe que tendrá que sucumbir. Marcando sobre el
tapete una última reflexión, esa que pone al éxito en el sistema capitalista en
estrecha relación con la capacidad que uno tenga para infligir las normas. El
precio moral de tener el skyline de Nueva York
a tus pies.
peccato che Tino Buazzelli sia apparso così poco nei film italiani, qui è davvero bravo. la sceneggiatura, oltre che di Sollima, è di Suso Cecchi D'Amico ed è davvero densa di colpi di scena, in un film che non si può rinchiudere in un genere (e meno male). qualsiasi riassunto toglierebbe la sorpresa, guardate il film, è tempo ben speso, e poi ci risentiamo - Ismaele
Intrigante giallo psicologico che sfrutta al
meglio una sceneggiatura molto ben scritta in cui i flashback non sono stati
inseriti per ambizioni virtuosistiche da parte di Sollima ma sono funzionali
allo sviluppo dell'intreccio giallo e la definizione del carattere dei
personaggi che come ci vuole indicare la mano protesa nella locandina sono sei
figure che girano intorno a degli interrogativi o per meglio dire sono loro
stessi degli interrogativi…
Ottimo giallo. Ben scritta la sceneggiatura ricca di colpi di
scena. Ottima la Sandrelli al tempo stesso bambina e donna sensuale (il suo
nudo integrale), straordinaria la Presle suocera, monoespressione Dullea (ma
ben doppiato) e "Nero Wolfe" Buazzelli insolito ma ottimo
psicologo-detective; c'è pure la De Santis cameriera. La strana coppia
detective piace, il finale ricco di tensione viene ben costruito a partire
dalla scoperta dell'omicida. Un bel film, diverso dagli altri gialli
dell'epoca.
…In this same way, Devil in the Brain deals
with rationalization and denial. Sandra, in her infantilized state, denies
anything is wrong, that she has any family aside from her mother, and that
everything is just hunky dory. The Contessa denies that this situation is
something she can’t handle. Further, she denies to herself that the killer
could have been anyone other than little Ricky. She rationalizes that sending
Ricky away is a great solution to this problem, as was covering up not one but
two murders. Oscar (Keir Dullea) plays the old friend who returns from
Venezuela to find the unrequited love of his life a devastated mess and his
best friend dead. He rationalizes that developing a romantic relationship with
Sandra at this moment in time is okay, because this is his big opportunity to start
over with her (some would call this manipulation, but there you have it).
He also denies every explanation that his
friend Dr. Emilio Buontempi (Tino Buazzelli) gives for what’s actually going
on. This is despite the fact that Oscar called Emilio specifically to help him
figure everything out. Oscar doesn’t actually want the truth. He wants this
fantasy that he can control, even though, as he eventually finds out (and
characters in situations like this always find out), the truth is something
which can’t be contained. Emilio and Ricky are the only two characters in the
film who are actively interested in the truth (of course, the film, as with all
gialli, plays it a bit fast and loose with actual psychological theories), who
don’t wear blinders like the others, although the two are also opposites in
that Emilio is vocal about it and Ricky keeps it all locked up inside himself…
…Sollima didn’t direct very many films.
His career is split fairly evenly between theatrical and televised fare. Devil in the Brain is not what anyone would consider a technically
outstanding movie, but it is solid in its craftsmanship. Where the film stands
out is in its story, not its style. It’s difficult to even consider it a
giallo, because it doesn’t wallow in the genre’s typical stocks in trade. There
is no black-gloved killer careening through the cast of characters (in fact,
there are only two murders in the film, only one of which the audience gets to
see, and it isn’t gratuitously violent or stabby). There is no real sleaze to
speak of. What nudity there is doesn’t feel immoderate. Instead, this is a well-written,
well-thought-out story about repression and obsession and the consequences of
both. It’s a film about characters and the self-destructive desires they have
to cling to in order to give their lives meaning. Because without these things,
ultimately, they have nothing (or, at least, they believe they have nothing).