lunedì 30 dicembre 2024

Le occasioni dell'amore (Hors-saison) - Stéphane Brizé

Guillaume Canet e Alba Rohrwacher sono perfetti nei loro ruoli.

lui è un attore famoso, lei una casalinga, con la passione del pianoforte, lui salta da un letto all'altro, lei ha un marito e una figlia, lui è abituato alle luci si Parigi, lei al vento e alla pioggia di una cittadina bretone, sono stati amanti molti anni prima, qualcosa è rimasto, nei loro destini che si erano separati.

dopo sedici anni si incontrano di nuovo ed è un addio come si deve, senza rancori, ma con tanti rimpianti, le loro vite, impone Alice a Mathieu, non devono più incrociarsi.

dopo tre (ottimi) film sul lavoro e gli esseri umani pedine senza valore nel mondo maledetto dell'economia liberista, Stéphane Brizé gira un film non sull'amore, come lascia intendere l'ingannevole titolo italiano, ma su tanto altro.

in ottanta sale, al cinema, non perdetevi Alba Rohrwacher e Guillaume Canet.

buona (ventosa) visione - Ismaele

 

 

 

Brizé ne fa emergere progressivamente i due differenti approcci alla vita. Mentre Alice si è ritirata nel suo bozzolo di moglie e insegnante di piano Mathieu ha sposato una star del telegiornale ed è un attore molto noto. Ma è proprio un pianoforte ad un certo punto ad offrire una lettura simbolica delle loro esistenze: i tasti suonano una musica senza che ci siano delle mani a sfiorarli. È quanto in fondo è accaduto ad entrambi. Hanno continuato ad eseguire il loro spartito senza che ci fossero le mani dell'altro a stabilirne la giusta armonia. Un'armonia che ora sembrerebbe da cercare nuovamente se non fossero intervenuti un distacco e tre lustri di lontananza.

Fuori stagione potrebbero essere allora non solo il soggiorno nell'hotel in un periodo non di punta da parte di Mathieu ma anche il reciproco desiderio di tornare ad essere ciò che un tempo erano stati superando rancori e incomprensioni e, soprattutto, le condizioni attuali. Il tempo, affermava un detto popolare, è un gran dottore perché lenisce le eventuali ferite. Purché chi le ha subìte e chi le ha (più o meno volontariamente) inferte non si incontrino di nuovo.

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Con Hors-Saison, Stéphane Brizé realizza un’opera intimista e delicata, in cui non sono i dialoghi o le azioni a guidare la narrazione, ma piuttosto i respiri, i silenzi, gli sguardi e le espressioni dei protagonisti. Guillaume Canet e Alba Rohrwacher offrono performance straordinarie, capaci di trasmettere con le sole espressioni facciali il ricco mondo interiore dei loro personaggi: anime spezzate, smarrite tra sogni infranti e vite che sembrano essersi cristallizzate in un’inerzia soffocante. Entrambi vivono intrappolati in strutture familiari e professionali che, anziché fungere da rifugio o ancora di salvezza, si rivelano prigioni che soffocano la loro autenticità e creatività…

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Le occasioni dell’amore è un film solo apparentemente d’amore, ed è anche uno dei più grandi film d’amore (e sull’amore) che il cinema recente ci abbia dato. C’è la mano di Brizé (che ha scritto il copione con Marie Drucker), e c’è soprattutto l’alchimia incredibile tra Canet e Rohrwacher. Lui sembra dissezionare il suo essere attore e regista famoso (e sposo famoso di Marion Cotillard); lei fa uno dei lavori più lucenti, sensibili, importanti della sua carriera.

C’è anche un finale bellissimo e struggente, anzi più di uno. Per alcuni sono troppi, e invece è giusto che gli amori vadano così, con mille finali. Che facciano giri immensi, e poi ritornino, e chissà come finiranno. L’amore è, dopotutto, “un souvenir qui me poursuit, sans cesse”. Lo diceva sempre quella canzone là, e le canzoni d’amore hanno sempre ragione.

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Ciò che colpisce in Le occasioni dell’amore è il fatto che, tranne pochi, per altro fantastici e decisivi dialoghi, l’amore è tutto un affare di silenzi, di sguardi, di stati emotivi e di pensieri. E di comportamenti, di gesti concreti. Anche contraddittori, certo. Le rotture minacciate e mai consumate, i ritorni dopo gli addii, i dubbi, i tormenti. Un “non tornare mai più” è un commiato definitivo o un invito segreto? Del resto, le storie vere non sono mai lineari. E sarà per questo che quando Guillame Canet e Alba Rohrwacher passeggiano, molto spesso sembrano allontanarsi e seguire due strade differenti. Come barche che cercano il vento più adatto per arrivare allo stesso punto di destinazione. Ciò che conta è che l’amore si vive, non basta solamente dirlo. Tanto non ci saranno mai parole abbastanza precise (o vaghe) per restituire le sue mille forme. Si vive anche nei suoi alti e bassi, nei vuoti, anche nelle reticenze. Anche nell’affanno di un accordo impossibile con gli obblighi, le scelte già compiute, le responsabilità.

Seguito il solco di un sentiero m’ebbi l’opposto in cuore, col suo invito. È questo, lo straordinario film di Stéphane Brizé. Una storia di seconde possibilità, certo. Ma soprattutto sullo scollamento dal quotidiano delle proprie vite, sul tempo passato e sul miraggio del futuro, sulla dolorosa malinconia dei ritorni “fuori stagione”. Sul conflitto insanabile tra la tortuosità del sentimento e la pretesa coerenza dei percorsi. Infatti Mathieu viene costantemente richiamato alla responsabilità. Dal regista della pièce teatrale che avrebbe dovuto segnare il suo debutto sul palcoscenico, ma da cui è scappato per paura di non essere all’altezza. Dalla moglie che gli chiede di accettare le sceneggiature che gli vengono proposte, per ripagare i danni dello spettacolo a cui ha rinunciato. E Brizé non manca di lanciare qui le sue stilettate a un’idea comoda del cinema: “la strategia migliore è fare prima il polar e poi la commedia sociale”. Ma, al di là della polemica, conta la sensazione amara di una gabbia da cui è difficile districarsi…

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…Amori perduti e ritrovati, che hanno attraversato la vita come il vento tra i capelli. Memorie e sentimenti che tornano a riva portati dalle onde, lasciando la schiuma del loro passaggio sulla sabbia. Descrivere a parole un film come Hors-saison significa provare a mettere nero su bianco l’indicibile dei sentimenti personali. Storie di finzione che trovano un legame universale. Perché quando si affronta lo scorrere del tempo non si può fare a meno di rivivere una vecchia relazione, riportando alla mente i bivi personali intrapresi nella nostra vita.

E non sorprende, quindi, che il titolo, fuori stagione, che sottolinea l’inaspettato ritorno di qualcosa che dovrebbe essere passato, di un incontro breve che non doveva avvenire e invece è accaduto, di qualcosa che sembra porsi fuori dal tempo, dona quel senso di eccezionalità, di sorpresa. Che può anche ritrovarsi nei confronti di un addio, che lascia il rimorso della separazione e il calore del tempo ben speso.

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…Dietro al disagio, alla malinconia e al rimpianto, c’è però ampio spazio per il sorriso e per la leggerezza. Anche da questo punto di vista Stéphane Brizé fa centro, facendo di Hors-saison anche un piccolo trattato sulla dialettica fra ex, portata avanti a suon di «Mi hai lasciato per una più bella di me» e «Non tornare mai più» ma anche di autoironia sullo scarso francese di lei e sul successo calante di lui.

Dove non arrivano le parole, le espressioni e i gesti ci pensa la splendida musica di Vincent Delerm, inizia bilico fra brio e nostalgia, e soprattutto lo scenario attraversato dai protagonisti in lunghe passeggiate. «Il mare d’inverno è un concetto che il pensiero non considera. È poco moderno, è qualcosa che nessuno mai desidera», cantava Loredana Bertè, dando voce a un sentimento comune sullo struggente contrasto fra il luogo per eccellenza del benessere e del divertimento e la cupa e fredda stagione invernale. Con Hors-saison, Stéphane Brizé si muove splendidamente lungo questo dolce crinale, trasformando il mare d’inverno francese in una perfetta metafora degli amori finiti, sopiti dal tempo e dalle intemperie della vita ma ancora pronti a soffiare.

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sabato 28 dicembre 2024

Ostia - Sergio Citti

due fratelli, Rabbino e Bandiera, crescono come criminali, con un padre anarchico che fa una brutta fine.

incontrano una ragazza, Monica, che sembrava morta, in campagna, e se ne innamorano perdutamente.

visitano le prigioni, entrano ed escono, sempre attesi dagli amici balordi.

il film è davvero un bel vedere, per regia, attori e tutto, un gioiellino da recuperare sicuramente (nella sceneggiatura c'è la mano di Pasolini).

buona (eccezionale) visione - Ismaele

 

 

Quando i due fratelli Rabbino (Franco Citti) e Bandiera (Laurent Terzieff), criminali da strapazzo, fuggono verso casa dopo un tentativo di furto, si imbattono in una bellissima donna dai lunghi capelli biondi, che pare addormentata profondamente e vestita da abiti discinti, in un prato.

Accolti tutt'altro che con modi diffidenti dalla ragazza, i due buontemponi decidono di portarla con loro e concederle ospitalità. Nasce un forte legame di amicizia ed affetto tra i tre, al punto che i due fratelli finiscono per raccontarle la loro drammatica storia di gioventù, culminata con l'assassinio, accidentale ma non certo avvenuto per caso, da parte dei due del violento e greve padre, un anarchico perennemente brillo che sfogava i suoi deliri sulla povera madre dei due.

Anche la ragazza, di nome Monica (una statuaria e disinibita Anita Sanders) ha un passato drammatico segnato da violenze familiari, che la donna finisce per fare condividere sia a Rabbino che a Bandiera. Quando i due fratelli vengono arrestati per furto e condannati a un anno di reclusione, Monica li aspetterà fino a, richiedere di convivere con uno di loro per avere la possibilità di non perderli…

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Che dietro la carriera di Citti ci fosse Pasolini è evidente, ma l'esordio dell'allievo ci fa capire quanto Citti ci fosse dietro Pasolini: analogo equilibrio tra i due protagonisti, in cui il volto scavato del filodrammatico Terzieff e la grinta animale dell'ex-Accattone Franco riescono a condividere lo stessa disperata risata, perenne e feroce sghignazzamento. Perfino il mito della rivoluzione e degli ideali libertari viene dissacrato (il flashback del padre ubriacone) e l'iconografia della Sacra Famiglia diventa trappola incestuosa e mortale.

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Nella rarefatta poesia pasoliniana, l’anima popolaresca diventa una bizzarra forma di desolazione. La crudeltà diventa un grido lanciato nel nulla, che, casualmente, assume la forma di un canto stonato, cinicamente allegro, e grottescamente decorativo. I fratelli Rabbino e Bandiera si muovono in un assurdo coperto di stracci, in cui la fantasia è contorta nelle intenzioni, ma squallida e primitiva nella messa in pratica. La loro vicenda è una storia di sopravvivenza alla morte, o meglio, all’assassinio (quello del padre, quello della pecora Rosina), che trova come unico appiglio un nonsenso condiviso: un gioco che sembra voler riprendere, e proseguire all’infinito, un’infanzia rimasta traumaticamente in sospeso. Rabbino e Bandiera sono diventati adulti, ma non sono uomini, perché non sanno amare una donna, non sono in grado di fare le cose sul serio, e, soprattutto  non hanno mai  spezzato il cordone ombelicale di quella complicità tra ragazzini che li tiene ancora saldamente uniti. Sono delinquenti, ma per pura incoscienza, rozzi, ma per semplice ingenuità, e il loro attaccamento alla vita è all’insegna di una spregiudicatezza fatta di niente…

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La presenza di Pasolini in produzione è evidentissima nella scelta dei volti, delle tematiche e delle location. Ma Sergio Citti non era regista da poco e anche lui ci mette tanto. È un film d'autore ma senza quella distanza tra regista e pubblico che si vede spesso in film del genere. La storia racconta alla perfezione un triste spaccato di vita popolare, concentrata su tre individui che, come si sa bene, da quella realtà non possono uscirne. Ottimo l'apporto dell'esiguo cast, Ostia fotografata e raccontata con pasoliniano realismo. Non troppo noto, ma da riscoprire assolutamente.

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Due fratelli borgatari e una mignotta: scene da un infimo sottoproletariato, raccontate come una ballata sottilmente intrisa di simbolismi teologici, e calate in una visionarietà lontana dal neorealismo e distanziata perfino dal maestro Pasolini, e invece devota a un gusto pittorico e di composizione originale. Ottimo debutto per Citti e per il suo mondo di reietti in perenne equilibrio tra narrazione popolare e allegoria, a cui difetta solo il senso del ritmo. Ma alcuni momenti sono folgoranti, e le figure dei fratelli simbiotici sono geniali.

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martedì 24 dicembre 2024

Nata di marzo - Antonio Pietrangeli

Francesca e Sandro si incontrano, si frequentano, si sposano.

vanno d'amore e d'accordo, ma a un certo punto cominciano a non sopportarsi più.

ed è tutto un rincorrersi fra i due, senza risultato.

poi va a finire bene, perché così hanno voluto i produttori.

un film che si vede bene anche adesso, Antonio Pietrangeli sapeva come si fa il cinema.

buona visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Veniamo quindi al finale, a proposito del quale il regista Stelio Martini su «Cinema nuovo» scriveva «È vero che i due protagonisti alla fine si riconciliano, ma lo fanno come due cani bastonati, i quali hanno pagato caro lo scotto della loro impreparazione al matrimonio. Ciò che nel film viene messo in luce sono le difficoltà del matrimonio e la necessità di affrontarlo con piena consapevolezza». D’altra parte però, come spiega Ettore Scola – tra i collaboratori insieme a Maccari – la riconciliazione non era prevista nella prima stesura della sceneggiatura in cui si assisteva alla separazione definitiva della coppia – dopo il tradimento scoperto da Francesca. Fu infatti la produzione a insistere per uno smielato e conformista happy ending, anche se, a ben guardare, si tratta di un finale non proprio felice o comunque problematico e che non annulla le istanze paritarie della protagonista. Dopo che Sandro le ha detto che non può perdonarla per aver avuto un amante, Francesca sale sul tram e quando inizia a piangere si sente chiamare a gran voce: è Sandro che ha cambiato idea e le corre incontro, così lei scende di corsa dal tram, lo abbraccia e solo allora, dopo cioè che Sandro ha accettato l’eventuale tradimento, gli confessa di essersi inventata tutto. Concludo con il telegrafico e mordace commento di Piera Detassis: «Il lieto fine è salvo, il pensiero di Pietrangeli anche, la morale pure».

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Una commedia d'altri tempi molto originale e godibile, incentrata sui dissapori del rapporto di coppia. La trama per la verità ha poche idee e ruota sempre intorno alla vita di due coniugi che ora litigano e ora si amano, ma non per questo si rivela piatta o banale, anzi. In particolar modo, risulta esilarante l'atteggiamento lunatico e strano della protagonista che mette costantemente alla prova (Dio solo sa perchè) il marito, raccontandogli spesso delle menzogne assurde allo scopo di verificare quanto riesca ad amarla per quella che è, difetti compresi. Può sembrare un po' matta ed assai difficile di carattere, ma in realtà è immatura, insicura e soprattutto annoiata dalla quotidianità ed è forse per questo che non trova un passatempo migliore del gioco del "tira e molla" da sperimentare con il marito.

Considerando l'epoca in cui questo film è stato girato, non si può che apprezzare il suo stile innovativo e la sua narrazione ricca di una garbata e raffinata ironia. Ha davvero qualcosa in più rispetto ad altre commedie contemporanee. Consigliato.

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Francesca ha poco più di 18 anni quando conosce Sandro, architetto di venti anni più grande di lei. I due si innamorano e si sposano ma la vita matrimoniale rivela, poco a poco, le sue difficoltà. Francesca, dal carattere irrequieto e donna moderna, non sopporta più i metodi conservatori di lui e finisce per lasciarlo. Ma il finale è tutto da scrivere.

Il film di Pietrangeli è una attenta dissezione delle dinamiche del rapporto di coppia, dagli esordi alle sue evoluzioni possibili. Il formato commedia, forse depotenzia l’attento lavoro del regista, ma costituisce anche il suo punto di forza, rendendo il film sempre piuttosto godibile. L’analisi del rapporto, della borghesia e della figura della donna, quella della protagonista fin troppo moderna per i tempi, sono tuttavia impietosi e aggiungono quel tocco di drammaticità che si libera nel finale, inevitabilmente lieto. È tuttavia necessari, che entrambi abbandonino i ruoli precostituiti, e ascoltino i loro sentimenti reali perché l’incontro, forse più profondo, possa avvenire di nuovo tra la coppia in crisi.

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domenica 22 dicembre 2024

Una Notte a New York - Christy Hall

Dakota Johnson e Sean Penn sono gli unici personaggi del film, che deriva da un'opera teatrale.

un tassista e una cliente fanno un gioco, quello di dire cose mai dette prima, Sean Penn è un tassista psicologo, che resta senza parole alla fine quando Dakota racconta un storia terribile.

il film è tutto girato all'interno del taxi, con il tassista che inizia a lamentarsi delle app, degli smartphone, della sostituzione del contante con le carte di credito, e la cliente sembra scocciata dalla loquacità del tassista.

e poi il film cresce fino alla fine, senza tregua, sembra un filmetto come tanti, poi gli ultimi 15-20 minuti sono straordinari.

buona visione - Ismaele


 

 

 

…Un film ben realizzato e diretto, interpretato magistralmente dai due attori. Un’opera che colpisce in quanto tocca in maniera non banale temi come l’amore, il sesso, il dolore dei ricordi, i traumi del passato che non si è voluto mai affrontare. Un viaggio che, quando lo “yellow cab” finalmente si ferma di fronte all’abitazione della donna, consente ai due personaggi di salutarsi con un sorriso e una carezza, sapendo che quell’ora e quaranta passata insieme, in quel viaggio che pareva interminabile, ha regalato a entrambi una maggior coscienza di se stessi e, soprattutto, una connessione umana vera, importante per poter affrontare le difficoltà della vita di tutti i giorni.

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…Sean Penn è il taxista come te lo aspetti, che sembra uscito da Milano più che da New York, contro Uber, contro i pagamenti elettronici, contro quei telefoni che fagocitano le persone e chissà, probabilmente anche complottista ma si ferma a una certa misoginia tipica di una generazione e di una certa cultura.

Ma riesce ad aprirsi, a confrontarsi, con una donna senza nome e senza età aperta al dialogo e che lo sfida trovando in lui una figura paterna davvero, che sotto la faccia scavata da ore di traffico, è diventato senza saperlo uno psicologo esperto.

Che dispensa consigli su amore e sesso, che indovina passati dolorosi e viene a conoscere presenti ancora freschi, che quei passati dolorosi li condivide a sua volta, con una nostalgia inaspettata anche per lui.

Il film è tutto qui, una notte, una corsa in taxi, due personaggi diversi chiamati a condividere lo spazio e il tempo.

Sono più facili da sbagliare che da indovinare i film così, che si reggono sugli attori, certo, su una regia che si deve muovere in uno spazio ristretto senza ripetersi, ma anche sui raccordi, sulla tensione che monta e che smonta, sulle pause.

Sulla sceneggiatura, dunque, che riprende temi, nomignoli e situazioni, riuscendo a commuovere pure in un finale che rischia il melenso o lo stalking.

In un equilibrio instabile che però resta in piedi.

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…Non bastano due grandi interpreti come Dakota Johnson e Sean Penn, una sceneggiatrice di talento al suo esordio da regista come Christy Hall e una confezione da road movie, per fare dello script di Una notte a New York un film. L’impianto teatrale che caratterizza l’operazione è una gabbia dalla quale il testo nativo non riesce a sfuggire e ci sarà un motivo. Questo perché le tavole del palcoscenico a nostro avvivo erano la cornice più adatta a un testo intimo e personale come questo, basato sulla complicità dei protagonisti e sui fitti e densi scambi dialettici tra di loro. Si è preferito al contrario il grande schermo e la realizzazione di un film del quale probabilmente resteranno solo le vibrazioni sprigionate dalle performance del duo chiamato in causa. Il resto è per citare i Jalisse solo un fiume di parole tra noi.

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venerdì 20 dicembre 2024

La stanza accanto - Pedro Almodóvar

a Venezia nel 2024 leone d'oro come miglior film.

non ricordo film di Almodóvar senza qualche sorriso, anche nei film più "seri".

nell'ultimo film non c'è niente da ridere, la Morte è la protagonista. 

e però, sia pure con "mestiere" e con attori davvero bravi, il film appare freddo, troppo serio e troppo tragico, per lo stile di Almodóvar. 

nel suo primo film in inglese (sia pure girato per metà vicino a Madrid, leggi qui) il regista perde quella virtù che spesso pratica, la leggerezza. 

se gli dessi un voto sarebbe la sufficienza, comunque è un film da vedere, ognuno si farà la sua opinione.

buona (mortale) visione - Ismaele

 

 

 

 

A mancare, rispetto al passato, è il calore tipico dei film di Almodóvar, il quale nelle sue incursioni più serie è sempre riuscito a trovare un giusto equilibrio tra la gravità del dramma e l’ironia del mondano. Ne La stanza accanto, invece, si percepisce spesso una certa disconnessione tra ciò che si vede a schermo e la materia trattata, un lirismo visivo poco ispirato, nonché dialoghi farraginosi, didascalici e spesso ridondanti, tanto che il personaggio interpretato da John Turturro – un ambientalista radicale – sembra inserito solamente per lanciare un tiepido monito extrafilmico. A tratti, sembra quasi di essere di fronte a una versione depotenziata di Julieta. Così, suggestioni di pura poesia, a partire dalla neve rosa sino ad arrivare allo splendido riferimento a I morti di James Joyce (con tanto di richiamo a The Dead di John Huston), si alternano a momenti di grande spessore attoriale che appaiono come eccessivamente autoreferenziali e fini a se stessi. Perché nemmeno le ottime prove di Tilda Swinton e di Julianne Moore possono compensare, a malincuore, il substrato emotivo carente di un film che colpisce solo in superficie, senza mai spingere fino in fondo.

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La stanza accanto non è soltanto un’altra variazione sulla morte ma anche sui sentimenti – la passione, il rancore – e sul tempo perduto. È un’altra dichiarazione d’amore alla ‘magnifica ossessione’ di un cinema che guarda, in modo ancora più evidente che in passato, Fassbinder e Sirk in cui Julianne Moore e Tilda Swinton possono essere le sue reincarnazioni, soprattutto l’attrice londinese, che incarna la morte e la rinascità e dimostra, dopo Suspiria di Guadagnino, che può duplicarsi o, in quel caso, addirittura moltiplicarsi in tre personaggi. Nei fitti dialoghi tra le due protagoniste però qualcosa si blocca, non arriva, resta a metà strada. Certo c’è tutto: abbracci, lacrime, rimpianti. La stanza accanto poteva avere quegli slanci del vertiginoso Zinnemann di Giulia nella sintonia che si era instaurata tra Jane Fonda e Vanessa Redgrave. Il film di Almodóvar si blocca invece al primo livello, quello della rappresentazione dove delle due protagoniste, in cui il metodo, la tecnica, diventano tra gli elementi principali per far apparire questo film struggente quando invece non lo è al contrario del grandissimo film precedente, Madres paralelas. Le cicatrici della ‘storia privata’ restano otturate invece da una ‘personale autocelebrativa’ del proprio cinema. La stanza accanto è come una mostra sul cineasta spagnolo dove in una stanza ci sono i suoi modelli di riferimento: Buster Keaton in tv, i dvd di Lettera da una sconosciuta e The Dead. Gente di Dublino, il poster di Ingrid Bergman per creare un parallelismo con il personaggio interpretato da Julianne Moore (ma no!).

La stanza accanto è funereo ma non come Wilder di Fedora. Quando l’opera del cineasta non è al meglio, si chiude in una forma elegante e artefatta, proprio come la neve rosa che cade su New York. Solo la deviazione dell’interrogatorio in polizia risveglia il film dal suo lungo e compiaciuto grande sonno. Ma forse lì c’è già, o ci poteva essere, un’altra storia…

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Almodovar al suo debutto in un lungometraggio in lingua inglese. Almodovar che prende di petto un tema fra i più spinosi e controversi, quello dell'eutanasia, con una netta presa di posizione politica che ha ispirato anche il suo toccante discorso di ringraziamento a Venezia per il Leone d'oro. Almodovar che dirige due fra le più talentuose ed esigenti attrici del panorama mondiale.

"La stanza accanto" è un melodramma raffreddato, che evita facili sottolineature emotive e tentazioni strappalacrime, è puro Almodovar ma è anche una ricognizione originale in un territorio diverso, un tentativo di raccontare sullo schermo un dolore così straziante da poter essere placato solo con il desiderio della morte…

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E qui Almodóvar compie il primo passo verso la sublimazione. Quando Martha lascia la clinica e torna a casa fermamente decisa a organizzare la propria dipartita, la messa in scena si fa infatti più sintetica e il melodramma viene silenziato, disinnescato. Il passato rocambolesco sparisce dalle immagini, niente più flashback, niente più storie, niente più tortuosità ma un lucido e metodico piano che prende forma circondato dei segni di quella vita dalla quale la donna sta per congedarsi.  Mobili, oggetti, libri, taccuini, film, fotografie, scatole, buste, fogli, tutto nella casa è traccia e sedimento, memoria senza mai nostalgia: la casa è li, accogliente, avvolgente come un abbraccio discreto. Ma non è li che Martha può morire. Ci vuole un’altra casa e una altro passaggio della messa in scena verso un’ulteriore asciuttezza, verso un’ulteriore svuotamento, verso un’ulteriore essenzialità. Così Martha e Ingrid possono abitare insieme solo un nuovo spazio, uno spazio altro dove non c’è memoria, minimale ma non asettico, elegantissimo, ricercatissimo, ma dove nulla è personale o familiare: solo superfici, linee, vetrate, pieni, vuoti, dove i colori possono essere solo pieni, dove non ci sono sfumature, dove le porte possono essere solo aperte o chiuse, definitive. E dove la morte può diventare un magnifico quadro composto con precisa meticolosità al momento giusto.

 

In quegli spazi che mutano, in quella scena che si asciuga, in quelle parole che dicono tutto senza mai pesare, Almodóvar trova il compimento di un vero capolavoro, una lezione di cinema, di regia, di messa in scena, di scrittura. La grande lezione di un maestro per nulla senile, ma capace come nessuno di parlare con umanità e magnificenza della vita e della morte dicendo tanto del mondo strambo in cui viviamo, di dignità e di diritti, di minacce e di speranza, di sofferenza e di bellezza, di amicizia e di condivisone, di responsabilità e di empatia, di rispetto e di autodeterminazione.

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Insulso. Banale. Mortale. Si ma nella noia! Altro che eutanasia. Qui lo spettatore muore da solo. Senza aiuti esterni

Insulso. Banale. Mortale. Si ma nella noia! Altro che eutanasia. Qui lo spettatore muore da solo. Senza aiuti esterni

Alla prova americana non ha retto.

Ma chi glielo doveva dire al Pedro de noialtri di andare a crasharsi a 75 anni nelle produzioni, sistemi, visioni USA, quando il suo è sempre e solo stato un cinema europeo? MAH

I misteri della fede

Bastassero due eccelse attrici a far riflettere su un tema cosi delicato come quello della malattia, il cancro alla cervice e due amiche che non si vedono da trent'anni 

Ma voi davvero uccidereste una che non vedete da secoli?

O le stareste vicino con i problemi che comporta a livello legale, morale e spirituale l'eutanasia? 

Il film non regge, annoia ha in sostanza una brutta energia, non di vita, ma di bieca assoluta e devastante morte !

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"Se vuoi mandare un messaggio, spedisci un telegramma, non fare un film"

Non sembra neanche Almodóvar! Film a tesi pretenzioso e noioso, due ore di dialoghi privi d'interesse, situazioni statiche e una citazione letteraria ripetuta più e più volte nel vano tentativo di commuovere lo spettatore.

Julianne Moore e Tilda Swinton sono brave e ce la mettono tutta ma non riescono a salvare un film in cui le situazioni di potenziale conflitto e le occasioni per far emergere il dilemma etico (ad esempio la perdita e il ritrovamento della busta con la pillola) si risolvono da una scena all'altra come in uno sceneggiato televisivo. E mentre lo spettatore assonnato aspetta il guizzo di regia o di sceneggiatura che giustifichi la spesa del biglietto, Turturro pontifica sul disastro ecologico.

Tutto si svolge ineluttabilmente come da copione. L'unico momento in cui il film si rianima un po' è l'interrogatorio con la guardia bigotta, ma anche questa occasione cade nel vuoto con l'arrivo dell'algida avvocatessa. Quando infine si presenta la figlia della Swinton ci si aspetta una svolta, un sussulto, e invece anche questa possibilità cade nel vuoto e il film si spegne mestamente.

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mercoledì 18 dicembre 2024

Il giorno dell’incontro – Jack Huston

il titolo pare sia un omaggio a un corto di Kubrick da giovane, chissà.

tutto accade in un giorno, Mike chiude i conti con se stesso, cerca la moglie (quando canta Have You Ever Seen The Rain? chi non si emoziona dovrebbe farsi visitare da uno bravo), e la trova, ma non riesce a parlare con la figlia, scommette tutto quello che ha per la sua vittoria con un allibratore di fiducia, incontra il padre malato in una casa di riposo, va in cimitero a chiedere perdono a un bambino (guardando il film capirete perché).

in un bianco e nero d'altri tempi (è un complimento) Mike vive la sua personale via crucis, sotto l'ala protettiva del suo eccezionale allenatore, che la mattina dopo l'incontro passerà a vedere come sta il campione.

pochissime sale, grande film, da non perdere.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

Fotografato in un bianco e nero elegante che richiama capolavori come Toro scatenato, ma con un approccio registico e recitativo più simile al primo Rocky, Il giorno dell’incontro ci fa muovere per una Brooklin degli anni ’80 al fianco di un protagonista e dei suoi demoni. Un uomo che ha compiuto errori gravissimi e che è cresciuto attraverso di essi ci viene mostrato pronto a compiere il passo finale. Per il suo esordio, il regista si affida a un attore dal grande carisma come Michael Pitt, credibile sia nella struttura fisica che nella capacità di mettere in scena un uomo spezzato, che dopo avere “meritatamente” sofferto, prova a trovare la forza di “lasciare andare”. Straordinaria la sua capacità di trasmettere con lo sguardo una tenerezza a tratti insostenibile, che ben contrasta con la durezza dei suoi muscoli tirati e della sua mascella storta.

Al suo fianco un cast di attori semplicemente spettacolare. Insieme a un Ron Perlman che sembra essere nato per interpretare il ruolo dell’allenatore di boxe, troviamo i piccoli ma significativi ruoli di John Magaro, Steve Buscemi e, soprattutto, di un monumentale Joe Pesci. L’81enne attore premio Oscar è chiamato a interpretare il padre di Mike, evocato per tutto il film come il villain finale da sconfiggere e che poi appare senza quasi pronunciare parola, lasciandoci stupefatti.

Fondamentale anche la scelta musicale, spesso diegetica e che ritorna a livello drammaturgico. Come a sfiorare le corde emotive dei suoi personaggi, archi soffusi e note di piano accompagnano il viaggio di Mike tra i bassifondi della sua New York e, in particolare, nel suo passato. Frequenti flashback, infatti, ricostruiranno la storia dell’uomo e del campione, ciò che ha subito, ciò che ha ottenuto e ciò che ha perso. Alla fine de Il giorno dell’incontro, il duro e fragile Irish Mike non avrà più segreti per noi.

Un film sul pugilato senza pugilato, si direbbe. Un po’ sì, se non fosse per l’ultima, attesissima, sequenza di combattimento, in cui la tensione emotiva accumulata per oltre un’ora si libera un cazzotto dopo l’altro, lasciandoci stesi senza più energie come pugili dopo 12 round. Esanimi, ma scossi nel profondo dall’umanità che ci è stata riversata addosso con tale, splendida, semplicità.

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Il giorno dell’incontro non è un’opera prima che cerca il nuovo – anzi cita il classico -, né un museo per i virtuosismi di Jack Huston, né una storia dalla potenza strabordante: ma è un film sincero e sentito, che si nutre di un immaginario (senza per questo sentirsi in dovere autoriale di reinventarlo) che ricalca in modo a tratti greve e che riabilita un enorme Michael Pitt per ricordarci che grande attore sia stato ed è ancora, anche se dopo un po’ di anni di buio.

Doveroso citare anche il massiccio Ron Perlman e i cameo eccezionali di Steve Buscemi e soprattutto Joe Pesci.

Ma soprattutto il film riesce, con semplicità e incoscienza, a restituire la New York degli anni Ottanta, sporca e disperata come non si vedeva da tempo, intensa come la disperazione silenziosa del protagonista del film.

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…Deve fare i conti con il suo doloroso passato fatto di violenze paterne e suicidi materni.

Jack Huston ci rappresenta tutto questo calvario pedinando con la sua cinepresa un Micheal Pitt da Oscar, una faccia e un corpo da macello che ricorda il Mickey Rourke di The Wrestler.

Usando quel bianco e nero tanto caro al mondo della boxe soprattutto da quel capolavoro che è stato Toro Scatenato qui degnamente rappresentata da un Joe Pesci (produttore esecutivo) che parla solo con gli occhi.

Ma è soprattutto la colonna sonora che ci racconta il viaggio all’interno del dolore di Mikey l’irlandese.

L’uso di The Book of Love di Peter Gabriel che accompagna l’incontro tra Micheal Pitt e Nicolette Robinson è di una poesia disarmante. Ci fa capire l’immensità di questo amore anche davanti a una pizza col doppio formaggio.

Anche se il meglio ce lo riserva Have You Ever Seen The Rain? cantata live sulle note di un pianoforte che gronda dolore e la voce di Nicolette Robinson strozzata dalle lacrime per un amore che è stato e che non ritornerà più.

Grazie Jack Huston che ci hai regalato una delle opere prime più belle degli ultimi 10 anni e uno dei personaggi che difficilmente ci toglieremo dalla nostra memoria.

Un personaggio che va incontro al suo destino con una dignità e una tenerezza dilaniante che ci devesta l’anima.

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domenica 15 dicembre 2024

Il generale dorme in piedi - Francesco Massaro

una satira della vita militare e dei militari.

Ugo Tognazzi è il colonnello che non riesce a diventare generale, è un veterinario che diventa il medico/chirurgo nell'esercito, innamorato della moglie (Mariangela Melato) e poi vedova di un generale.

la sua opera d'arte è un libro autobiografico con il quale "ricatta" i suoi superiori, e riesce a diventare generale.

non sarà un capolavoro, ma si vede bene.

buona (antimilitarista) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

Commedia militare in cui alcuni ottimi spunti satirici sono a tratti annacquati da un registro farsesco e da alcune dispersioni (i flashback, la sottotrama sentimentale). Tognazzi è comunque formidabile nei panni dell’ufficiale arrivista dal subconscio incontrollato, per di più assistito da un cast estremamente valido in cui emergono in particolare Scaccia (grandioso nella sua monoespressività) e Fabrizi (per una volta nei panni di un personaggio dignitoso). Tutt’altro che disprezzabile la Melato, per quanto relegata nelle scene meno interessanti. Tre stelle(tte).

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Commedia militare un po' grottesca che incrocia spesso la farsa e "promuove" il grande Tognazzi ai massimi gradi d'attore. Vicenda che tratta di guerra e di pace, prendendo in giro chi ama la guerra ma senza addentrarsi, saggiamente, in particolari o introspezioni che potrebbero appesantire lo spettacolo. Una critica attraverso l'ironia, con un impiego discreto di mezzi e di simboli, per un film piacevole da seguire e che non necessita di particolari predisposizioni per la visione.

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Umberto Leone è un colonnello ex veterinario che in guerra si è improvvisato medico per la necessità di operare i feriti. Per ricambiare la sua dedizione sul campo viene nominato direttore della Scuola Superiore di Sanità a Firenze, ma non rinuncia alla sua vera ambizione: diventare generale. Per ottenere la carica inizia a scrivere le sue memorie, raccontando episodi non proprio lusinghieri su alcuni esponenti delle alte gerarchie militari, con il proposito, in seguito, di ricattarli. Ma deve stare attento ad una sua bizzarra peculiarità: mentre dorme tende a raccontare verità scomode, e per questo è costretto a dormire in piedi...

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Commedia non disprezzabile, con un buon Tognazzi ed una base critica - sebbene non molto incisiva - all'esercito e, più in generale, al potere, disposto a qualunque compromesso o bassezza pur di autoconservarsi. La regia è un po' assonnata, la trama ogni tanto sussulta con qualche scena godibile, ma in definitiva si riassume in ben poco. Poche pretese, ma mantenute.

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sabato 14 dicembre 2024

L'orchestra stonata - Emmanuel Courcol

il regista (già indimenticabile sceneggiatore per Philippe Lioret) riesce a girare un film convincente e commovente, che in alcuni momenti fa pensare a Ken Loach, a Stéphane Brizé, ai Dardenne.

Emmanuel Courcol è bravo a non fare un film patetico e strappalacrime, riesce a sfuggire le situazioni "a rischio" per la solidità della pellicola.

i due fratelli sono interpretati da Benjamin Lavernhe e Pierre Lottin, ottimi attori.

i temi della storia sono stati già visti al cinema, ma non c'è niente di ripetitivo, di copiato, il film è fresco e coinvolgente.

un film da non perdere, promesso.

buona (musicale) visione - Ismaele

e


 

L’orchestra stonata (dal 5 dicembre al cinema) è un bel film, ed è un bel film come soltanto i film francesi (e le dramedy francesi in particolare) sanno essere belli, larghi, pop, sorridenti e insieme commoventi, senza mai diventare scontati, melensi o troppo retorici. E soprattutto sanno tenere insieme generi diversissimi, come il cancer movie (che però qui diventa solo pretesto, innesco per la trama), il family drama e la commedia sociale con la massima spontaneità e semplicità, muovendosi naturalmente tra una certa delicata ironia e toni invece più seri (ma mai seriosi). Il tutto attraversato dalla musica (la classica, il jazz, ma anche brani meno scontati, come Emmenez-moi di Charles Aznavour), che è insostituibile punto d’incontro/scontro tra due fratelli e il modo di essere comunità, di diventare persino famiglia per una banda sgangherata della città di minatori di Walincourt, nel distretto di Lille, Francia del Nord…

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Uomo burbero ma di buon cuore che vive ancora con la mamma, che non è la sua vera mamma, lo ha solo adottato, Jimmy accetta di aiutare il fratello Thibault. Qualche tempo dopo, Thibault cercherà di sdebitarsi con lui proprio dando una mano all'orchestra scombinata del paese. In pochi minuti, lo avrete capito, c’è tutto. La città e la provincia. La solitudine dei ragazzi ricchi e la ricchezza dei ragazzi cresciuti nelle comunità operaie. Le due orchestre, La crisi economica. Il desiderio di ritrovare la propria vita…

…E due fratelli che dovranno volersi bene. Uno ricco e arrivato, benché malato, perché adottato da una famiglia altoborghese, la mamma è Ludmila Mikael, che ricordo esordì in un vecchissimo film di John Flynn, “Il sergente”, e l’altro provinciale, non ricco, confuso, con un matrimonio fallito alle spalle, una professione precaria, ma con l’orecchio assoluto. Se la mamma di Thibault avesse adottato anche lui, magari il direttore d’orchestra sarebbe stato proprio Jimmy e non Thibault. Se Thibault fosse stato adottato dalla mamma di Jimmy cosa sarebbe capitato? Mah… Me lo sono visto fino alla fine con piacere.

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…ha il merito di arrivare diretto e di affrontare in modo efficace la crisi economica accennando alla condizione dei lavoratori della fabbrica dove lavora Jimmy. In più è proprio la differenza di recitazione tra Lavernhe e Lottin che rende il film più autentico e che lo fa crescere alla distanza come nell’emozionante finale man mano che evolve il rapporto tra i due personaggi. Qui si sente l’eco del cinema di Lioret di cui Courcol è stato sceneggiatore, anche nei bellissimi Welcome e Tutti i nostri desideri. La malattia e la solitudine sono vengono mostrati in modo sobrio in grado di incidere in maniera forte. La vita e la sua messinscena diventano elementi coincidenti, come nel precedente film del regista, Un triomphe. Lì il teatro, qui la musica. Entrambi si portano dietro tracce di storie vere. È poi il cinema ad esaltarle senza tradirle e a darci l’illusione di prolungarle e a renderle dei passaggi che ci porteremo dietro per sempre.

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