sabato 30 novembre 2024

La donna scimmia – Marco Ferreri

un film bello e terribile, la donna scimmia si innamora del suo aguzzino, e poi muore.

in mezzo succedono tante cose, la donna scimmia è una fonte di reddito per Tognazzi, e la nascita del bambino (in una versione nasce morto, in un'altra nasce vivo) e la morte della donna sono un  problema.

un film che non lascia scampo, da non perdere assolutamente.

vuona (pelosa) visione - Ismaele

 


QUI si può vedere il film completo


 

anche se non amo alla follia il cinema di Ferreri non ho potuto fare a meno di innamorarmi di questo film che ,pur essendo lontano nel tempo,è di un'attualita'sconvolgente per i temi che tratta.Innanzittutto tratta la spettacolarizzazione di una qualsiasi anomalia:il protagonista trova questo singolare esemplare di donna irsutissima in un convento e per un pugno di spicciolie se la porta via al fine di organizzare uno spettacolo dal vero e fare quintalate di soldi,arrivando anche a sposarsela.Io ci ho visto una gustosa anticipazione dello squallore che regna sugli schermi odierni ormai paralizzati dall'ingolfamento di reality show.A mio parere c'è anche un attacco alla scienza medica per cui tutto diventa oggetto di studio e di scambio a scapito anche della vita del paziente.E infine il cinismo:una censura stupida e troglodita fece passare un altro finale buonista.Il finale invece con Tognazzi che reclama il corpo della moglie e il corpicino del figlio col solo fine di esporli per fare altri soldi è un finale di cinismo e cattiveria inarrivabili.Nell'Italietta del boom economico mentre Risi dava la sua versione del miracolo economico italiano Ferreri armava un obice contro tutti i benpensanti e sparava la sua personalissima visione dell'arricchimento del popolo italiano:arricchimento fatto a scapito dei piu'deboli.Il personaggio di Tognazzi pur derivando dalle migliori interpretazioni della commedia all'italiana è di meschinita'unica,la Girardot invece dimostra di essere di sensibilita'straordinaria.Un film da rivedere e rivalutare ampiamente

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A mio parere il film più "cattivo" nella storia del cinema italiano. Acuto, grottesco, cinico, il capolavoro di Marco Ferreri, ancor più della Grand Bouffe. in altri film troppo spesso Il regista si è "perso" nelle sciatterie "tecniche", fotografia e montaggio al limite dell' amatoriale (invece sempre grande attenzione per le musiche), recitazioni sciatte o fin troppo sopra le righe, sceneggiature dove il nonsense o il gusto del grottesco e dell'assurdo rimanevano giochi fini a sè stessi e spesso  i critici li hanno tacciati per  capolavori come spesso si fa con ciò che non si capisce,per  non fare la figura del "fesso stupido". La Donna Scimmia, non cade in questi errori, è un piccolo grande capolavoro, nella sceneggiatura, nella recitazione, con personaggi che anticipano i caratteri felliniani di Amarcord (il professore guardone, la vecchia governante, l'agente teatrale, la terribile scena dell'esibizione della novia), ma senza il buonismo del ricordo felliniano. Ferreri è lì a ricordarci della cattiveria umana e del suo cinismo, senza scampo e senza resurrezione. Ah, quando avremo un altro "cattivo " così nella storia del cinema?

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«II film fece abbastanza rumore all'epoca in cui uscì [...], ma non fu capito. Se qualcuno lo rivedesse oggi, lo troverebbe non solo normale, ma in più vi vedrebbe una piccola storia poetica senza alcuna traccia di scandalo».

 

 

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5).

 

 

 

 

 

«[...] "La donna scimmia" ha un ritmo interno asciutto e preciso, che non sbaglia né la costruzione dell'atmosfera né la descrizione dei caratteri: fra Tognazzi e Annie Girardot, peraltro, è quest'ultima che ci è piaciuta di più, in una parte terribilmente ingrata [...]. Ricorda la Giulietta Masina della Strada, con una carica di commozione ancor più accentuata dal contrasto con la cinica incoscienza del suo compagno. Il quale, appunto perché non ha la brutalità di Zampano né l'aspetto rozzo di Anthony Quinn [...], assolve bene al compito di isolare artisticamente la figura di Maria, ma tradisce un'origine macchiettistica che forse poteva essere evitata con un maggior controllo nella recitazione: il personaggio, che rischiava di diventare indimenticabile, si limita così a essere semplicemente paradossale e ad effetto. [...]».

 

 

Angelo Somi, Oggi, Milano, 30 gennaio 1964.

 

 

 

 

 

«[...] Qui Ferreri e Azcona rovesciano implicitamente in senso laico, un rapporto come quello tra Zampano e Gelsomina, descritto nel vecchio film di Fellini "La strada". Tuttavia, anch'essi non hanno ottenuto questo risultato, se non a patto d'una certa astrazione. Cosicché l'universo di Antonio e Maria appare davvero qualcosa di assai particolare, di fine a se stesso, di idealizzato sia nell'orrore, sia nella pietà. E Antonio, nonostante le intense sfumature che Tognazzi, forse alla sua prova più alta gli conferisce, non risulta sufficientemente limpido e motivato, soprattutto nel risvolto finale, ch'era quello decisivo. [...]».

 

 

Ugo Casiraghi, L'Unità, Milano 7 febbraio 1964.

 

 

 

 

 

«[...] Ferreri ha tratteggiato con molta delicatezza la figura del povero mostro, attribuendole i sentimenti d'una donna normale [...]. Anche il marito della donna scimmia, pur con qualche ambiguità di disegno, è un personaggio riuscito. L'interpretazione di Annie Girardot è eccezionale per efficacia e intelligenza della parte. Ugo Tognazzi un pò generico, riesce tuttavia a convincerci della sua complessiva umanità».

 

 

Alberto Moravia, L'Espresso, Roma, 9 febbraio 1964.

 

 

 

 

 

«[...] Forse la miglior prova della maturità raggiunta dall'attore Tognazzi nel controllo delle sue risorse espressive e in "La donna scimmia": pensiamo soprattutto agli intensi primi piani del protagonista accanto al letto della moglie morente. Ma è comprensibile che il pubblico non abbia acconsentito a un film che contraffaceva troppo i lineamenti del più originale personaggio del nuovo cinema comico. [...]».

 

 

Vittorio Spinazzola, Ferrania, Milano, n. 2, febbraio 1967, p. 27.

 

 

 

 

 

«[...] "La donna scimmia" assomiglia a "La strada" più che a qualsiasi film. [...] Tognazzi, che i più hanno trovato un pò debole in questo film, ci sembra invece esemplare nella sua ambiguità di uomo medio, né buono né cattivo, legato al carro di un sistema dal quale non può assolutamente sciogliersi; non meno convincente di una Annie Girardot patetica e coraggiosa [...]»

 

 

Tullio Kezich, La Settimana Incom Illustrata, Milano, n. 9, 1 marzo 1964, p. 70.

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giovedì 28 novembre 2024

Il Paese interiore - Luca Calvetta

 


“Perché i vuoti possano diventare pieni serve una grande idea politica”. L’intervista a Vito Teti - Elisabetta Galgani

 

 

Restanza e disperanza, pandemia, nostalgia, futuro. A colloquio con il grande antropologo calabrese

 

Una partitura   musicale, una poesia, un documentario. È tutto questo “Il Paese interiore”, il film di Luca Calvetta che narra la Calabria con le parole dell’antropologo Vito Teti attraverso la voce di Ascanio Celestini. Un film libero, senza budget, che si può trovare online (link in fondo all’articolo) ed è accessibile a tutti. Un viaggio in un mondo scomparso che ritorna, nelle macerie vive che hanno tanto da insegnare. L’uscita del film è stato un modo di avvicinare e incontrare Teti, che ha scelto di tornare a insegnare nella sua Calabria e ad abitare la casa dov’è nato, a San Nicola da Crissa (Vv), seguendo il filo di quello che lui chiama la “restanza”.
«Per me la restanza è molto legata a un’idea di mobilità e di erranza, di sentirmi in esilio da fermo, spaesato. Non è qualcosa di statico, apatico. Abitare i luoghi con consapevolezza, viverli e cambiarli in meglio, rendendoli più accoglienti e aperti. La storia lunga della Calabria è fatta di grande emigrazione e di grandi svuotamenti: io sono nato in un paese di cinquemila abitanti, oggi ne rimangono solo mille. Questa è la situazione generale delle aree interne dell’Italia, dagli Appennini alle Alpi. Il rischio è che questi paesi diventino dei musei vuoti che nessuno vuole più visitare».

Si fa un gran parlare della cesura imposta dal Coronavirus: c’è davvero un ritorno dalle grandi città alle aree interne?
La restanza riassume il partire e il rimanere: così come c’era mio padre che era partito per il Canada, così mia madre rimaneva nel paese ad aspettarlo. I termini sono inseparabili, si compenetrano e si comprendono solo insieme. Negli ultimi tempi c’è stato più un desiderio di restare che di andare, si è superato il mito della città. Con la pandemia c’è un numero maggiore di persone che torna o vorrebbe tornare ma lo smartworking calato in un paese vuoto non fa altro che riproporre un modello urbanocentrico. E soprattutto, chi verrebbe a lavorare in un paese vuoto? Di che cosa vivrebbe? I paesi sono vuoti anche perché non hanno più i servizi, gli ospedali, le scuole. Ho paura che davanti a questa immagine edulcorata e retorica del tornare si possa consumare l’ennesima beffa nei confronti dei paesi e del Sud. “Ripopolare” è un termine complicato: non si ripopola nell’arco di due anni un luogo che si è spopolato in cento anni, in un Paese dove c’è una crisi demografica altissima. Si dovrebbero prima di tutto ricreare delle comunità che mettano insieme quelli che sono rimasti con quelli che ritornano e quelli che arrivano, gli immigrati. E assieme costruire modelli, pratiche economiche sociali e culturali per riabilitare i luoghi in maniera diversa dal passato, per renderli di nuovo centrali. Si ribalta il vecchio paradigma: non partire dal centro ma ripartire dai margini, dalle periferie, dai luoghi apparentemente vuoti. Perché i vuoti possano diventare pieni serve una grande idea politica, un progetto. Se si ristruttura un vecchio palazzo in un paese abbandonato e poi non verrà usato e la via rimane vuota abbiamo creato una nuova rovina, una rovina moderna. Bisogna partire non dai bisogni di chi vuole fare affari, ma da quelli delle persone, rispondendo alla vocazione economica ed emotiva di un luogo.

Parla spesso nei suoi libri di nostalgia. Per essere contemporanei e prevedere il futuro c’è bisogno di pensare il passato e riconquistarlo?
La nostalgia come sentimento collettivo potrebbe significare restare ancorati a potenzialità inespresse da recuperare. Ad esempio, oggi in Calabria il 55% dell’acqua va sprecata, poi abbiamo quella gestita dai grandi acquedotti che non è potabile e la compriamo in bottiglia. Certi sistemi di approvvigionamento del passato forse potrebbero essere più adeguati di quelli imposti dalla modernità. Bisognerebbe rifare dei piccoli acquedotti gestiti a livello comunale, con l’acqua che tu vedi, conosci e controlli e arriva facilmente nelle case, anziché le mega opere. Il passato ha molto da insegnare, soprattutto in un tempo in cui il progresso è considerato inarrestabile, l’imprevisto e la catastrofe negati. C’è un vecchio detto calabrese che dice: Alla scordata si rende la pizzata, il danno che hai fatto ti verrà restituito quando te ne sarai scordato. Questo è molto vero rispetto al rischio sismico che sappiamo alto in Calabria. Perché non difendiamo il paesaggio? Perché non costruiamo in maniera da difenderlo saggiamente secondo le normative? Quando il terremoto verrà, avremo meno devastazioni, meno morti… In Calabria abbiamo centinaia di riti che ricordano i flagelli, le alluvioni, i terremoti, ma sono manifestazioni rituali, nel senso più brutto del termine, perché non ti consegnano un memento, una memoria attiva: non ti ricordano veramente che quello che è accaduto potrebbe succedere di nuovo. È quello che racconto con l’esempio di Cavallerizzo, un paesino calabrese che pur essendo sorto in una zona in cui c’era già una frana è riuscito a conviverci per secoli. E poi, improvvisamente, la morte di questo paese viene “chiamata” (il 7 marzo 2005 una nuova frana ha costretto la popolazione a spostarsi, nda). A Cavallerizzo c’è sempre stata la leggenda di San Giorgio in lotta contro il drago, che simboleggia il sottoterra, il pericolo. È l’animale che annuncia. Eppure qui hanno continuato a tagliare i boschi, a seppellire i corsi d’acqua, a costruire con il cemento armato sulla frana.

Sta accadendo lo stesso con la pandemia?
Abbiamo ripetuto per mesi dai balconi, dai giornali, dai social che “niente sarà più come prima”. A me pare che purtroppo sarà peggio di prima. L’innevato deserto canadese che si incendia o la Germania alluvionata, con centinaia di morti, gli scienziati che ci dicono che non sono fatti occasionali ma eventi che dovrebbero farci riflettere. E invece si continua a essere colti dalla grande “cecità” di cui parla Amitav Gosh, per cui il problema dominante diviene il chiudere o aprire le discoteche, o la mascherina sì o no. Mi sembrano questioni legittime, che non colgono però la dimensione catastrofica, da “fine del mondo”, di quello che è successo. Quella spinta iniziale al cambiamento non è stata raccolta, non è stata ascoltata la visione profetica del Papa, al di là che uno creda o meno (l’omelia di Pasqua 2020 in una piazza San Pietro vuota, nda). Ma anche quegli insegnamenti che venivano dal passato sono inascoltati. Come quell’altro detto di mia nonna e mia madre: U peju è arrede, il peggio è indietro, un detto che significa che il peggio in realtà è avanti, potrebbe accadere. Tutta questa saggezza popolare aveva la consapevolezza del limite: non si potevano superare certi limiti della finitudine, della malattia, della morte. Oggi, per l’ennesima volta, si parla di incidente: superato si torna alla normalità, anche se ormai non si sa quale sia la normalità. È chiaro dal modo in cui ci salutiamo e abbracciamo, in cui comunichiamo, dalla percezione che abbiamo del corpo, della salute, della morte, delle feste: nulla sarà come prima. Lo stiamo rimuovendo al punto che si tornerà a un “prima” a cui non è utile tornare poiché è esattamente quel “prima” che ci ha portati nel baratro. Non bisogna tornare al mondo di prima, ma immaginare il mondo di domani.

Lei parla di nostalgia del futuro e la sua ricetta è fatta di “responsabilità, saggezza, prudenza, etica del futuro come limitazione del rischio e ridimensionamento dell’imprevedibile”. Chiudiamo questa intervista con ottimismo?
Non sono ottimista ma non posso dire che il mondo sia già finito perché non è vero. Tra la disperazione e la speranza, scelgo la “disperanza”. Una speranza dolorosa, dolente. Questa mia visione può sembrare consolatoria ma è una sorta di buon auspicio per le nuove generazioni. Continuiamo a dire “non superiamo il limite, non sprechiamo, recuperiamo quello che c’è da recuperare”. Essendomi definito “rivoluzionario” in gioventù, adesso posso dire che il problema non è rivoluzionare il mondo ma conservarlo. La vera rivoluzione sta nel curare, custodire. Nell’imprevedibilità del domani un atteggiamento possibile è quello delle “piccole utopie quotidiane”: amare gli altri, andare a visitare gli ammalati, non lo dico evangelicamente, parlare con gli anziani, dialogare con i defunti per scongiurare la morte, sprecare meno, consumare meno cibo. Tutto questo forse non salverà il mondo ma tante piccole utopie quotidiane individuali potrebbero contribuire a fondare nuove comunità, nuovi modi di stare assieme. Per poter dire che abbiamo fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità.

 

Clicca qui per vedere “Il Paese Interiore”

 

Vito Teti è professore ordinario di Antropologia culturale dell’Unical, dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche “Antropologie e letterature del Mediterraneo”. Tra le sue pubblicazioni: “Il senso dei luoghi”, “Maledetto Sud”, “Terra inquieta”, “Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni”, “Prevedere l’imprevedibile”.

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mercoledì 27 novembre 2024

L’amore buio – Antonio Capuano

dice Paolo Sorrentino che Antonio Capuano è il suo maestro, guardando L’amore buio si capisce perchè.

storie di ragazzi, imprevedibili e alla fine poetiche.

non perdertelo.

buona (carceraria) visione - Ismaele


 

"Lei è irraggiungibile" e tu lo sai, sai cosa le hai fatto ma non sai come spiegartelo, riesci solo a sentire la colpa, il dolore, l'insonnia notturna e quella cosa indescrivibile che tutti si ostinano a chiamare amore ma che tu quando mai hai potuto capire prima d'ora, c'è solo un cuore che batte, e due occhi che ti restano appiccicati addosso e li vedi anche quando fa buio e ti ritrovi a pensare a lei, che intanto prova a ricostruirsi il suo mondo borghese fatto di genitori ancor più ignoranti e incapaci di capire (anche se in buona fede), di fidanzatini che parlano di matrimonio e America, di un corpo acerbo e già violato che davanti allo specchio si denuda e nella sua disarmante pubertà rende colpevole anche chi lo osserva; c'è che ci provi in tutti i modi a spaccare quella barriera che vi divide (due mondi troppo distanti, troppo diversi, troppo chiusi) e che la quella fatidica notte hai solo scheggiato con un foro, sei penetrato in lei ma poi tutto ti si è inesorabilmente richiuso addosso, senza speranza.

E poi c'è uno sguardo.

La magica capacità dell'animo umano che solo una macchina da presa può rendere così visivamente efficace: chilometri di distanza, oceani e stati che vi dividono, e un solo semplice controcampo finale che vi ricongiunge, che vi riunisce, che vi rimette faccia a faccia in silenzio, per qualche istante, prima di riprendersi il suo dazio e spingervi, con la violenza dolce con la quale tutto era iniziato, nelle vostre nuove vite di adulti.

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…Il film racconta la contrapposizione tra due realtà che convivono nello stesso spazio, ma che sembrano non avere niente in comune: quella di Ciro e dei suoi amici, che a stento frequentano la scuola e girano Napoli in motorino tutto il giorno, con genitori che lavorano da mattina a sera per pochi soldi, vessati dalla camorra che controlla il territorio.

E, dall’altra parte, la città di Irene: quella alto-borghese, totalmente autoreferenziale, chiusa in sé stessa, fatta di case signorili, servitù, famiglie che offrono tutto il necessario al mantenimento materiale dei propri figli e alla loro formazione culturale. Due mondi opposti, che non dialogano, ma accomunati dalla stessa incapacità di gestire la relazione con gli altri, da un contesto affettivo carente.

È proprio in questo contesto che cresce quella percezione distorta per cui violenza e amore possono coesistere e, magari, coincidere, come pensano Ciro e i suoi amici. Come una percezione distorta è quella che porta Irene a scambiare per amore il rapporto col suo ragazzo, pieno di silenzi, distanze, incomprensioni, e in cui il corpo, anziché rispettato e amato, sembra usato per soddisfare bisogni. Capuano rintraccia le radici di questa aridità nei rapporti familiari: nella famiglia popolare, come in quella borghese, per motivi diversi, i genitori non sanno comunicare coi figli…

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…ìl film però lascia sullo sfondo l’episodio drammatico che dà origine al racconto, interessato com’è a mettere in risalto la condizione sociale dei giovani reclusi. E nel fare questo si rivela eccessivamente didascalico: contrappone la trasandatezza della psicologa del carcere (una Valeria Golino imbruttita) alla raffinatezza della psicologa che ha in cura Irene; l’imbruttimento e l’invecchiamento precoce della mamma di Ciro alla bellezza e alla cura della mamma incredibilmente giovane di Irene; la grossolanità delle attività culturali svolte in carcere (poesie, canzoni rap, posacenere informi) alla raffinatezza dei testi di Marguerite Duras recitati da Irene, dell’arredamento della sua stanza, degli strumenti tecnologici di cui si circonda; il disordine chiassoso e multietnico dei vicoli di Napoli all’ordine minimalista della casa di Irene a Posillipo.

E anche se il film pone delle questioni importanti sull’integrazione e sul riscatto sociale di un ceto che sembra condannato a un destino di delinquenza o di sopravvivenza, anche se il film sembra muovere una precisa accusa contro la borghesia napoletana che vive la città con sguardo distante, anche se il film denuncia l’assenza dello Stato nei vicoli e nelle periferie di Napoli, anche se il film mostra lo stato dell’Università italiana che spinge i giovani (che hanno i mezzi per farlo) a trasferirsi all’estero, esso non riesce ad essere pienamente un film di denuncia. Non solo perché molti dei temi che affronta rimangono solo sullo sfondo, ma soprattutto perché questi non sono una ragione sufficiente per cancellare la storia del corpo violato di Irene. È come se pure il film utilizzasse un corpo di donna per raggiungere uno scopo, per fare incontrare due ambienti che di fatto non possono incontrarsi (come la scena finale, un po’ retorica, comunque suggerisce); ma nessuno scopo, neanche il più nobile, può richiedere mai il degrado e il sacrifico di un corpo. Neanche di un corpo sullo schermo.

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Dispiace vedere un film come questo praticamente ignorato dal pubblico,dispiace vederlo in una sala quasi completamente  vuota.Lo spunto è un fatto di cronaca di quelli con cui si convive quotidianamente,purtroppo:a Napoli giovane studentessa,Irene, viene violentata da un branco di ragazzotti che forse non hanno capito neanche quello che hanno fatto.Uno di loro,Ciro, si autodenuncia e spalanca per sè e per gli altri le porte del carcere minorile di Nisida.Il film di Capuano segue le traiettorie sinuose che portano al percorso di maturazione definitiva di entrambi nei loro rispettivi mondi.Nisida è dominata dall'azzurro del cielo e del mare,dal calore della luce solare,dai colori delle magliette da calciatore taroccate dei detenuti e dal'ariosità delle loro stanze ,pur se delimitate da quattro sbarre metalliche.Il mondo di Irene,rampolla della Napoli bene è invece incarcerato in interni soffocanti,tetri,cromaticamente freddi. Sia Ciro che Irene cercano di uscire dalle loro momento di  empasse  amplificando il dolore autoinflitto dalla propria solitudine

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La cosa interessante di questo film, è che lo spettatore non legge mai una parola delle lettere che i due giovani si scambiano, eppure ne percepisce l'intensità e si sente subito che il legame tra i due è fortissimo e delicato nello stesso tempo.

Ciro si ciba delle risposte che gli arrivano da Irene, scrive in continuazione, lavora con la creta, tira fuori di sé tutta la creatività che non aveva mai sospettato di avere fuori dal carcere.

Irene inizia a conoscere una parte di lei sconosciuta, si scopre curiosa di conoscere le cose che le sono vicine ma che fino ad allora non aveva notato...e comprende come le persone che invece le stanno accanto le appaiono così lontane.

Un regalo che Ciro le fa giungere a casa (una ceneriera fatta di creta) pone fine al loro scambio epistolare, lo sguardo lunghissimo e inteso tra madre e figlia non lascia dubbi: Irene deve allontanarsi da Napoli, prima che la situazione si complichi ulteriormente...Così Irene andrà lontanissima, in America, con il fidanzato, ma ormai era già andata lontano da quella vita...La madre non potrà mai sapere quanto è rimasta vicina a quella Napoli che l'ha violentata, e che nessun chilometro potrà mai allontanare abbastanza.

Ciro finisce la sua condanna, esce, ci sono i suoi familiari ad attenderlo, il suo futuro è segnato, non sarà facile...Ma il finale del film è uno dei più poetici che abbia mai visto negli ultimi anni. L'incrocio degli sguardi dei due ragazzi, lontani, ma ormai fusi insieme, si sono riconosciuti, e non si potranno lasciare più, le loro vite si sono unite per sempre, le parole scritte scambiate rimangono come macigni, le immagini dei loro ricordi delle firme indelebili, il loro amore buio una certezza incrollabile.

Capuano, oltre ad una storia narrata in modo davvero convincente e originale, ci mostra sempre una Napoli inconsueta e molto personale, sotto una pioggia torrenziale, i muri di tufo appaiono come le arterie di un corpo sventrato e stanco, dove Irene vi trova un conforto insperato. Che dire? Da vedere assolutamente.

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lunedì 25 novembre 2024

Flow - Gints Zilbalodis

non ci sono umani, e neanche parole.

l'avventura di un gattino che si trova a sopravvivere in un mondo che sta cambiando velocemente, il pianeta è invaso dall'acqua, e bisogna adattarsi.

quel gatto è solo, e i suoi compagni di vita sono con lui, da poco.

nemici, eppure bisogna convivere e imparare a collaborare, in modi nuovi.

l'umanità è esistita, restano le tracce, ma è scomparsa, forse.

la differenza degli umani con gli animali è che i primi pensano a ieri, oggi e domani, per gi animali c'è solo l'oggi, non c'è futuro da pensare.

al cinema, in poche sale.

non è un'americanata, mi è piaciuto molto.

buona (gattesca) visione - Ismaele


 

 

 

Flow non è un film solo per bambini: anche gli adulti ne seguiranno con meraviglia l'animazione in costante movimento e si appassioneranno alle vicende mozzafiato del gruppetto di animali di fronte a sempre nuovi imprevisti. Il film di Zilbalodis è una continua invenzione artistica e narrativa, un incalzare incessante di piccoli e grandi eventi che scorrono insieme assumendo la forma mutevole dell'acqua.

C'è qualcosa di universalmente riconoscibile, di nobile e profondo, in questa narrazione meno morbida e rassicurante del tratto di disegno francese (anche se il regista ha portato in squadra artisti francesi e belgi) e meno spigolosa e a tratti grottesca di quello giapponese. Qui l'animazione è rigorosa ed essenziale, forse anche a causa della matrice luterana lèttone, ma è spirituale senza operare scelte religiose.

Flow è anche una parabola ammonitrice di ispirazione ecologista, ma non diventa mai una lezioncina pedestre o un "catastrophy movie". È invece un'ode alla solidarietà e alla cooperazione, necessarie per sopravvivere anche agli eventi che rischiano di annullarci per sempre.

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…Del gatto protagonista, ad esempio, non viene mai detto a parole “ricerca la solitudine, imparerà ad amare il gruppo”, ma assistiamo a questo cambiamendo giungendo noi stessi a questa conclusione, vedendolo passare dal suo solitario specchiarsi nell’acqua al farlo in compagnia dei suoi nuovi amici. Questo vale in realtà per ogni valore che il film vuole trasmetterci, riuscendo a farlo proprio perché trova il modo di comunicarlo in modo universale, parlando il linguaggio delle emozioni anziché quello delle parole.

Flow – Un mondo da salvare è allora davvero un film che merita di non passare inosservato, di non finire schiacciato dalla mole di titoli che ogni giorno si accalcano in sala o sulle piattaforme venendo divorati e ben presto dimenticati. Zilbalodis ci consegna un’opera speciale, tra le più importanti di quest’anno cinematografico, che chiede allo spettatore di non forzarsi nella ricerca di determinati significati ma di abbandonarsi al flusso dell’esperienza proposta. Un’opera che nel suo “tornare alle origini” di un’arte rispolvera un senso della meraviglia troppo spesso perduto, qui ritrovato e proposto come la più gentile delle carezze al cuore.

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“L’assenza di futuro è già iniziata”, scriveva Günther Anders osservando quanto l’apocalisse di Hiroshima e di Nagasaki avesse eclissato l’umano sperare in un domani, quella fiducia profetica in un mondo-per-l’uomo che, con rivoluzioni, progressi o regressi, si donasse, comunque, come pensabile, vivibile nell’attesa, costruibile, appunto, nella Speranza[1].

È proprio per l’uomo che in Flow (2024), film d’animazione diretto da Gints Zilbalodis, quel futuro viene del tutto a mancare. E, probabilmente, solo per lui.

In un acquatico spazio post-Antropocene, in cui dell’uomo si mostrano solo tracce e lacerti (case, sculture, templi di un passato passato), starà alla natura ricostruire, in un certo senso, la sua casa. La trama è semplice ed essenziale: un piccolo gatto nero, per sopravvivere alle improvvise ondate che travolgono inaspettatamente la terra emersa – una sorta di nuovo frastornante diluvio universale – trova rifugio, insieme a un pigro capibara, all’interno di una vecchia barca a vela, che lo trasporterà, arca-salvezza, via via, di altri animali, in un viaggio silenzioso e magico, fluttuando sul mondo sommerso. Un gatto e un capibara, quindi, e un cane, un lemure, un uccello serpentario, che scivolano in uno spazio sconfinato di acque, foreste e città perdute: forse spazio più interiore e simbolico che esteriore e reale, più una sorta di Bardo Thodol di attesa e rinascita, che un terra storica del dopo-umano; uno spazio abitato da mostri preistorici (è in gioco un eone geologico e simbolico), e avvinto in un gorgo fluviale di emersioni e risucchi di tempesta. Sfidano, questi animali animalissimi, tentazioni umanissime (tribù, specchi, egoismi, distrazioni, paure), costruiscono reciprocità e, vicendevolmente, si salvano. Coerentemente con l’universalismo arcaico della tradizione favolistica, il loro rapporto, cosciente ma mai davvero antropomorfizzato, diventerà così il tessuto simbolico su cui si darà il destino di una possibile comunità del domaniFlow, in fondo, parla di questo: di ricerca, di salvezza, di ciò che rimane, quando si eclissa il volto dell’uomo. Una sola immagine, per lui, che lo rappresenti: una testa scolpita, senza identità, in attesa di essere, anch’essa, avvolta nell’acqua: la sua speranza appartiene, di fatto, al “no future”…

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In Flow gli animali sono esattamente ciò che sono nella percezione quotidiana di tutti noi, e uno dei traguardi raggiunti dal regista è proprio quello di saperli raffigurare così bene nelle loro peculiarità e nella loro mimica, rendendo molto chiaro – grazie a un’animazione e a un’espressività eccellenti – quando il piccolo protagonista provi paura, perplessità, curiosità o sollievo.

Pertanto Zilbalodis ha il merito di saper coniugare una prospettiva molto realistica e asciutta con atmosfere vagamente fantasy e apocalittiche (seppur realistiche nel loro riferimento alla crisi climatica). Come dicevamo, poi, è senz’altro presente il registro della favola morale, attraverso la metafora (neanche troppo velata) della convivenza tra specie animali differenti, che si trovano letteralmente tutte “sulla stessa barca” a dover collaborare per sopravvivere.

Il linguaggio più eloquente in questo Flow – Un mondo da salvare risulta quello del silenzio: la realtà è già evidente nella sua strabordante forza e impetuosità, basterebbe solo osservare.

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domenica 24 novembre 2024

La città si difende – Pietro Germi

un noir italiano, una rapina andata male, nessuno dei banditi se la vava, tranne il ragazzino, che forse non sapeva cosa stava succedendo.

non è neorealsmo, è proprio noir.

cercatelo, non ve ne pentirete.

buona visione - Ismaele

 

QUI si può vedere il film completo



Una banda, formata da quattro naufraghi dell'esistenza, dà l'assalto alla cassa dello stadio durante una partita di calcio, e s'impadronisce dell'incasso. Inseguiti dalla polizia, i quattro riescono a dileguarsi. Guido, il capo della banda, pittore fallito, viene ucciso da alcuni marinai, che gli avevano promesso di trasportarlo in Corsica. Luigi, operaio disoccupato, ha partecipato alla rapina per poter lenire la miseria della moglie e della bambina. La buona moglie l'induce a partire, ma, braccato dai carabinieri egli finisce con l'uccidersi. Paolo, già famoso giocatore di calcio, in seguito ad un incidente non può più giocare. Ridotto ad una vita mediocre, s'è lasciato trascinare al delitto. Sfuggito alla polizia si rifugia presso una sua ex amante, ma la ragazza, spaventata, favorisce il suo arresto. Il quarto, Alberto, è poco più che un fanciullo. Figlio di genitori poveri ed onesti, ha avuto un'adolescenza stentata, cercando conforto nella letture di romanzi a fumetti. Ora, abbandonato dai compagni, decide di tornare a casa, dove la polizia l'attende. Lo sciagurato si rifugia sul cornicione del palazzo, minacciando d'uccidersi; ma le parole piene d'amore, dei genitori, lo convincono a consegnarsi alla giustizia.

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Una rapina alla cassa dello stadio finisce male.Comincia come un action americano ma filtrato attraverso la sensibilità europea,diventa un film di inseguimento di quattro disperati braccati dalla legge,finisce come un apologo moralista.Tante sfumature in questo film di Germi sceneggiato da Fellini e Pinelli.Curiosa la commistione di generi:il neorealismo italiano(i casermoni,le scene con la bambina quando aspettano il tram ad esempio) sposa l'artificiosità dei film americani e francesi dando luogo a una commistione di generi magari non pienamente riuscita(soprattutto il finale con un discorso moralistico caro all'anticomunismo militante di Germi)ma sicuramente riuscita.Germi è più bravo a far recitare gli attori che a dirigere le scene più movimentate ed infatti quello che resta negli occhi è la storia di quattro perdenti alla ricerca di un occasione per riscattare la loro vita grama.E il destino riserverà per loro altre delusioni.Altra cosa che resta impresso è lo sguardo della cinepresa sui casermoni,sulle strade sterrate,sulle piazze brulicanti di gente,sulla disperazione come primo motore di una rapina portata a termine con estrema imperizia da quattro disperati.L'Italia è in attesa del boom economico che sta per arrivare.Quindici milioni rapinati allo stadio possono servire.....ma stavolta il crimine non paga dividendi.

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L’indigenza non è la via del male: se induce a commettere reati, è solo perché predispone all’insicurezza e allo sbandamento un individuo che, dentro, nonostante tutto, continua ad essere sano. Avendo a cuore questo principio, Pietro Germi mette a fuoco l’innocua normalità dei suoi personaggi, immergendoli in un ambiente dai morbidi connotati umani; e così, anche quel timido cenno di neorealismo si stempera in un sentimentalismo che è, di per sé, una forma letteraria di indulgenza.

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"La città si difende" è uno dei pochi film italiani degni di entrare in un'ideale antologia mondiale del cinema noir, erede in questo di modelli americani, quali "La città nuda" (1948) di Dassin e "Giungla d'asfalto" (1950) di Huston (ed anticipatore di un altro capolavoro come "Rapina a mano armata" di Kubrick, del 1956). Se, inoltre, il montaggio serrato rimanda al cinema americano, alcune inquadrature della città sembrano richiamarsi al cinema espressionista, così come la morte del professore sembra una derivazione di "M - Il mostro di Düsseldorf" (1931) di Fritz Lang.
La vera critica che si può muovere al quinto film di Germi è, invece, relativa alla creazione dell'intreccio narrativo: il quartetto dei rapinatori sembra quanto mai eterogeneo e, benché sul punto gli sceneggiatori (tra i quali il giovane Fellini) glissino, ci si domanda dove possano essersi conosciuti il padre di famiglia disoccupato, l'ex campione del calcio, il pischello di modesta ma onesta famiglia e il pittore spiantato

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giovedì 21 novembre 2024

Gastone - Mario Bonnard

Gastone (Alberto Sordi) è un artista di avanspettacolo che tira avanti con difficoltà, il successo è ormai alle spalle.

e però ha una scuola di avanspettacolo, non gli mancano le aspiranti attrici, ma quella che lui vorrebbe lo lascia e va a Parigi.

Alberto Sordi grande come sempre.

buona (gastonesca) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

Classica parabola discendente sordiana, interpretata con gran classe dal suo protagonista, pronto a cogliere sia le note grottesche che patetiche del suo personaggio. La prima parte, più spumeggiante, regala anche le simpatiche prove di De Sica e Stoppa, mentre nella seconda si fa strada la melanconia di un ambiente artistico di quart'ordine. Buona regia di Bonnard, con fotografia dai bei colori e ottima ricostruzione storica. Finale un po' inconcludente ma in generale una buona commedia amara italiana

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…Gastone è la maschera forse più celebre di Petrolini, protagonista di una satira sul mondo dello spettacolo negli anni Venti. Al grande istrione romano, Bonnard era molto legato, così come al giovane divo della commedia italiana. Il film nasce nel segno di questa aurea triangolazione nel nome del varietà, nel momento di massima gloria cinematografica di Sordi: ed è quantomeno intrigante che un personaggio tanto decadente sia interpretato da lui.

Gastone si fa chiamare Gaston Le Beau, veste il frack del “bell’adone”, porta i capelli inamidati e si guadagna da vivere nei tabarin come danseur mondain e s’improvvisa insegnante di danza. Prigioniero del suo ruolo, si atteggia a dongiovanni che non deve chiedere mai, ha rapporti con la pigra nobiltà capitolina, non disdegna il ruolo di pappone, illude le donne ed è in realtà un truffatore, per di più interessato solo a raggiungere il successo impeditogli dallo scoppio della Prima guerra mondiale…

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gastone è un progetto vivente, sostenuto dalla verve e dalla presenza del principe e dai soldi avallati dallo strozzino achille(il solito perfetto sgradevole paolo stoppa), che gravita intorno al tabarin come un satellite impazzito, avido delle grazie di quelle soubrette appannate o insipide o smunte in via di avvizzimento.

e il tramonto definitvo di gastone, avviene quando s'imbatte nelle grazie squattrinate di NN di annina(l'adorabile anna maria ferrero), assolutamente inconsapevole della propria fine perchè folgorato dal talento dalla ragazza ma soprattutto perchè se ne innamora.

e quindi questo "gastone" perso in se stesso, nel proprio riflesso, nell'idea di se stetto, sperso nel tempo e in un non luogo di carta pesta e di quinte e fondali che salgono e scendono, compaiono e scompaiono , abbagliato dalla propria vana bellezza, corrosa dalla propria ignoranza e demolito dall'incapacità di riconoscersi nel tempo e nello spazio, svanisce danzando per un ultima volta nello splendore del proprio fracche, cantando il proprio nom de plume poco prima che sull'italia, sull'europa e sul mondo si abbatta l'insensata follia di un'altra guerra…

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martedì 19 novembre 2024

Fuoricampo - Elio Bruno, Domenico Centrone, Joana de Freitas Ginori

gli autori del documentario seguono due ragazzi africani che giocano a calcio, ma non hanno i documenti giusti.

quei ragazzi sono oggetto delle politiche securitarie, burocratiche, poliziesche del governo, ragazzi umiliati e offesi.

davvero una vergogna...

buona (clandestina) visione - Ismaele



 

 

Un documentario firmato dal Collettivo MELKANAA, un'opera corale composta da tredici giovani autori provenienti da diversi ambiti artistici e accademici. La storia è quella di una squadra di calcio composta da rifugiati e richiedenti asilo che partecipa al campionato di terza categoria, ma visto che quasi tutti i giocatori sono privi dei documenti di identità richiesti dalla Federazione per poter concorrere al titolo, ne saranno esclusi. La mancata o ancora scarsa conoscenza della lingua italiana – oltre che la mancata e scarsa conoscenza della lingua inglese da parte degli italiani – rende difficile la comunicazione e aumenta il senso di isolamento e solitudine dei ragazzi. Spesso, fra le loro parole, ricorre il desiderio di incontrare gli amici, di parlare e raccontare a qualcuno la loro storia, il loro passato e il loro desiderio di un futuro migliore. Burocrazia infinita, labirintica e mal organizzata – come ben sanno anche gli italiani – passione per il calcio, sogni e speranze si fondono nelle parole di questi ragazzi un po' spaesati e smarriti fra gli ambienti asettici dei centri di accoglienza. Quello che viene descritto è il tempo sospeso dell'attesa, indefinito, in un non luogo, nel quale si allacciano amicizie occasionali, nella speranza che alcune non finiscano mai.

La squadra della Liberi Nantes Football Club non può concorrere al titolo, ma sogna di potersi fotografare accanto a Totti, il re di Roma, amato e rispettato da tutti. Come forse i componenti di questa squadra non sono e non saranno sempre, nella vita di ogni giorno. Costretti, i più fortunati, a lavoretti occasionali, possono davvero i giovani migranti mettersi in gioco in un paese straniero? 

La squadra è un punto di aggregazione, di forza, da dove prendono forma i sogni e le aspettative di ognuno, che poi dovranno scontrarsi con la realtà. I punti di vista sono molteplici, le storie diverse l'una dall'altra. 

Lo straniero, il diverso, l'immigrato, è tale e può fare paura, può trasformarsi in oggetto (anche di contesa politica) e perdere la sua identità singola e umanità solo fino a quando non lo si guarda davvero in faccia, non lo si ascolta. In fondo il pregio più grande di Fuoricampo è riuscire a mostrare i volti e le parole di questi ragazzi. Persone semplici e normali, che parlano di feste, donne e cucina, accomunati solo dalla giovane età, dalla paura del futuro e dal desiderio di costruire qualcosa. Nei quali chiunque, migrante o italiano, può identificasi, in quanto essere umano e cittadino del mondo.

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lunedì 18 novembre 2024

Giurato Numero 2 - Clint Eastwood

a 94 anni Clint Eastwood gira un altro film.

leggendo qui e là il film è piaciuto molto, anche a me è piaciuto, ma niente di speciale.

Giurato Numero 2 è un'ottima lezione di stile, ma non dice niente di nuovo, tutto è prevedibile, ci sono i buoni e i cattivi, la giustizia in un'aula di tribunale condanna il colpevole ideale, brutto, sporco e cattivo, peccato che il colpevole non sia lui.

ottimi attori, ottima confezione, ma sulla soglia del cinema, all'uscita, ti stai gia dimenticando della nuova opera di Clint Eastwood.

Beato chi non si aspetta nulla, perché non resterà mai deluso - Ismaele




 

 

 

Insomma, una specie di Delitto e Castigo screziato di alcolismo – su cui, per dire, un Woody Allen ci ha ricamato per anni le sue non proprio tarde motivate fortune – viene amalgamato dallo sceneggiatore Jonathan Abrams tra echi spettacolari alla Grisham e sottotrame socio-politiche più affini ai rovelli eastwoodiani.

Prendete l’avvocatessa dell’accusa – Toni Collette in tailleur tiratissimo – candidata al ruolo di procuratore generale che grazie a una leggera politicizzazione della sentenza del processo verrà eletta, ma rimarrà titubante nel riconoscere l’evidente colpevolezza di Justin. Perché è su questo latente senso di colpa individuale, su questa etica pubblica sfuggente in cui bene e male sembrano continuamente confondersi, che Giurato Numero 2 si libra cristallino tra il più classico impianto da thriller processuale e una sofisticata chicca autoriale del più grande vecchio autore della vecchia Hollywood…

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In conclusione Giurato Numero 2 è un film eccellente con un cast in totale stato di grazia guidato da un monumento della Settima Arte che non si stanca di veicolare i messaggi in cui crede attraverso il cinema nonostante le molte primavere sulle spalle. I legal drama sono un genere difficile da realizzare nel 2024, in quanto la loro natura spesso statica ed estremamente verbosa cozza con la frenesia e di una società sempre più iper cinetica. Eppure Clint riesce a stupire rendendo assolutamente godibile anche un’opera del genere. Se questo dovesse essere il suo ultimo film, di sicuro potremmo dire serenamente che avrebbe concluso la sua carriera con una nota altissima.

Ma ogni amante del cinema spera di vedere ancora un altro film. Perchè Clint è Clint.

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Hollywood conosce da sempre due soli modi di regolare i conti: a suon di pistolettate o all’interno di un’aula di tribunale. Vecchi cowboy e brillanti avvocati sono i due volti, le due più consuete manifestazioni, di una giustizia per lo più polverosa, ma efficace. Anime complementari della medesima astrazione che, forse inevitabilmente, convivono anche in quest’ultima creatura di Clint Eastwood. Segno di un cinema che, vissuto davanti e dietro la macchina da presa, prosegue fin dagli albori a fagocitare e rielaborare immaginari. A incarnare valori e significati alti, puntualmente offerti alla rigorosa rilettura poetica del suo autore. Implacabile, eppure immancabilmente lucida…

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venerdì 15 novembre 2024

Longlegs – Oz Perkins

il diavolo fa il suo lavoro, ha trovato un meccanismo implacabile, lui sceglie le vittime, Longlegs, il costruttore di giocattoli, fa consegnare la bambola a immagine della vittima alla famiglia prescelta e condannata.

non ci sono motivi o colpe, chi deve morire morrà.

l'agente Lee Harker arriva a capire la logica del Male, e il suo coinvolgimento nella storia.

il film non è male, anzi...

buona (diabolica) visione - Ismaele


 

 

 

 

…Lo spiegone finale l'ho trovato perfetto perchè benissimo raccontato, evocativo, inquietante e persino necessario visto che di cose che si faceva fatica a mettere in fila ce n'erano parecchie.
E lo scoprire che no, non c'era un "semplice" serial killer e le cose avvenute non potevano essere spiegate in maniera solo razionale e/o scientifica rende il film ancora più bello.
Proprio per il discorso di cui sopra, ovvero quello che Perkins sa raccontare il malefico, il soprannaturale in maniera perfetta. L'atmosfera dei suoi film ha "bisogno" di questa componente per cui c'è sempre un qualcosa più grande di noi, un Male assoluto, che ci rende semplicemente suoi manichini.
E quindi sì, che ci sia stato il "Signore del piano di sotto" l'ho adorato, specie perchè noi non lo vediamo mai (come in tutti gli horror standard) o in "persona" o attraverso i mostri (fisici) che genera, ma soltanto per le azioni che questo ci costringe a compiere…

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…Ma perché lode a Longlegs? Nella sua primogenita estetica che ribattezza l’horror degli anni ’70, il film si impone come traguardo del terrore per la sua discontinuità narrativa apostrofata da un’intenzione estetica spregevole. I toni sono sempre lividi e trasparenti, opachi e sfocati concettualizzando l’importanza dell’aspetto cinematografico di una determinata impresa ereditata da Mario Bava.

La visione è focalizzata sull’eccentricità dei personaggi completamenti asessuati, virtuosismi che non incidono sul senso umano ma li aspirano come entità soprannaturali. Eppure, il tema è quello religioso, la combinazione tra il sacro, la venerazione e la dedizione o – forse – adorazione dell’onnipresente. Uno scambio linguistico che preclude quella paura di essere avvolti dentro le braccia di qualcuno o qualcosa che non possiamo osservare, capire, delineare, decifrare…

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È proprio la sua natura inafferrabile, intangibile e sfocata, a renderlo di difficile decifrazione, accrescendone l’alone di mistero. Dal punto di vista delle definizioni di genere si tratterebbe di un procedural, con l’indagine che riguarda un serial killer, alla maniera di Se7enZodiac e Il silenzio degli innocenti. A quest’ultimo in particolare, è accostabile per finezza compositiva e per come ripropone lo schema detective-assassino in una chiave morbosa. In effetti il legame malignamente simbiotico tra l’agente dell’FBI Lee Harker e il serial serial killer noto solo come Longlegs, ricorda molto quella tra Clarice Starling e Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti. E se Maika Monroe interpreta una detective anche più traumatizzata di quella resa celebre da Jodie Foster, Nicolas Cage riesce a non far rimpiangere Anthony Hopkins dando vita a un personaggio altrettanto penetrante e sinistro. Là dove i due film divergono è nell’agone in cui giocano la partita, preferendo il lavoro di Jonathan Demme una chiave psicopatologica per lo scavo sul male e sulle paure, mentre Perkins abbraccia il versante più esoterico, dialogando con il cinema satanico maturo…

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