(testo
scritto appositamente per la Cineteca del Comune di Bologna in occasione della
presentazione alla Mostra d'arte cinematografica di Venezia 2005 di “Banditi a
Orgosolo”, versione restaurata dalla Cineteca di Bologna-Laboratorio L’Immagine
Ritrovata)
Due
anni fa i miei produttori italiani di “Il mio viaggio in Italia” (il mio
documentario sul cinema italiano) mi fecero un regalo inaspettato, alcune copie
in 35mm di documentari diretti da Vittorio De Seta tra il 1954 e il 1958. Sette
film in tutto, della durata di circa dieci minuti l’uno, sei dei quali girati
in Cinemascope. Titoli incantevoli, come “Lu tempu di li pisci spata, Isole di
fuoco, Pasqua in Sicilia, Contadini del mare, Parabola d’oro”…
Avevo
sentito parlare dei documentari di De Seta come accade per i luoghi leggendari:
qualcuno doveva averli visti in un modo o nell’altro, ma nessuno si ricordava
chi, dove o quando.
De
Seta stesso era una figura leggendaria e misteriosa. Aveva realizzato solo tre
film negli anni Sessanta (il primo dei quali, “Banditi a Orgosolo”, un
capolavoro indiscusso) per poi scivolare, insieme ai suoi film, in una sorta di
oblio.
Ricordo
distintamente di aver assistito alla proiezione di “Banditi” al New York Film
Festival all’inizio degli anni Sessanta. Uno dei film più insoliti e
straordinari che avessi mai visto.
La
storia è semplice: un pastore, ingiustamente accusato di un crimine che non ha
commesso è braccato in un paesaggio arido e silenzioso. Il suo gregge muore di fame
e lui, ormai ridotto alla miseria, è costretto a diventare un bandito. Ma il
film è anche la storia di un’isola e della sua gente.
Ambientato
sulle montagne della Barbagia, in Sardegna, il film rivela un mondo arcaico,
incontaminato, dove la gente si esprime in un dialetto antico e vive secondo le
regole di una volta, considerando il mondo moderno estraneo e ostile. In loro,
De Seta riscopre le vestigia di una società antica attraverso la quale
risplende una nobiltà perduta.
Lo
stile del film mi colpì profondamente. Il neorealismo era stato condotto su un
altro livello, in cui il regista partecipava completamente alla narrazione, in
cui la linea di demarcazione tra forma e contenuto era stata annullata e in cui
erano gli eventi a dettare la forma. Il senso del ritmo di De Seta, il suo uso
della macchina da presa, la sua straordinaria abilità nel fondere i personaggi
con l’ambiente circostante, furono per me una completa rivelazione. De Seta era
un antropologo che si esprimeva con la voce di un poeta.
Da
dove veniva questa voce? Quarant’anni dopo essermi posto questa domanda ho
capito che forse i suoi documentari potevano darmi una risposta. Alla fine li
ho proiettati, e sono rimasto stupefatto.
L’inquietudine,
il senso di spiazzamento, mi hanno accolto dalle prime immagini, mi sentivo
impreparato di fronte a ciò che stavo vedendo.
Sono
stato sopraffatto da un’emozione intensa, come se avessi oltrepassato lo
schermo e mi fossi ritrovato in un mondo che non avevo mai conosciuto, ma che
improvvisamente riconoscevo.
Un
mondo crepuscolare. Quella che stavo guardando era la mia cultura ancestrale
che volgeva alla sua fine, a un passo dal suo ingresso nella sfera del mito. Mi
venne in mente una scena del film “Roma” di Fellini in cui un affresco scompare
al contatto con la luce durante la costruzione di una linea della metropolitana
– frammenti di una civiltà antica che hanno raggiunto l’epoca moderna
risuonando della loro epicità.
Ma
non mi ero limitato ad oltrepassare lo schermo, adesso stavo entrando nell’occhio
del regista, come se nell’atto di rimpossessarmi delle nostre radici comuni
avessi visto il mondo di De Seta. Stavo condividendo la
sua
curiosità e il suo stupore e realizzando con tristezza, come doveva aver fatto
anche lui, che quella era l’ultima volta che la vitalità di una cultura
incontaminata veniva filmata.
Era
la Sicilia sullo schermo, una Sicilia che nella mia famiglia i miei nonni
furono gli ultimi a conoscere, la Sicilia dimenticata. Un luogo in cui la luce
del giorno era preziosa e le notti completamente buie e misteriose.
Un
luogo rimasto inalterato per secoli, in cui lo stile di vita era sempre lo
stesso, dove le calamità naturali facevano parte dell’esistenza, minacciando
ogni momento morte e distruzione. Un luogo in cui la religione rivestiva
un’importanza primaria, dove le sofferenze della vita venivano rivolte alle
stazioni della Via Crucis. In fondo questa gente si identificava con la
liturgia della crocifissione.
Erano
i figli di Sisifo, che aveva imprigionato Thanatos per evitare il decesso dei
mortali, i figli di Prometeo, che aveva rubato il fuoco agli dei per donarlo ai
mortali, e per questo erano stati puniti per l’eternità. Gente che cercava la
redenzione attraverso il lavoro manuale: nelle viscere della terra (Surfarara),
in mare aperto (Contadini del mare), sulle colline (Parabola d’oro) – tirando
le reti, tagliando il grano, estraendo lo zolfo. Gente che sembrava pregare
attraverso la fatica delle mani.
Di
cosa era composta questa alchimia? Era il cinema nella sua essenza, in cui il
regista non registra la realtà, ma la vive in prima persona.
In
questi documentari ritrovai la stessa umile empatia di De Seta che avevo
conosciuto quarant’anni prima in “Banditi a Orgosolo”.
Non
era solo il mondo dei miei antenati che mi era apparso davanti agli occhi, ma
anche un cinema che non esisteva più. Un cinema che aveva il potere
dell’evocazione religiosa.
La
proiezione era durata meno di un’ora ma il tempo era passato lentamente, come
se avessi abitato ogni suo singolo fotogramma. Era il cinema nella sua
espressione migliore, capace di trasformare, che mi aveva permesso di capire
cose mai capite prima d’ora e di vivere emozioni a me sconosciute. Mi sembrava
di aver fatto un viaggio in un paradiso perduto.
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