tratto da un'opera di Giuseppe Fava, il film è ambientato in un'aula di tribunale, dove il dibattito processuale è vivissimo, sia per la materia che per i bravissimi attori.
Enrico Maria Salerno, Ciccio Ingrassia, Gastone Moschin, Riccardo Cucciolla, Mario Adorf e Mariangela Melato (unica donna del film) interpretano un film che non ti dimentichi.
musica di Ennio Morricone.
un piccolo capolavoro da non perdere - Ismaele
QUI il film completo
Florestano Vancini è stato un buon artigiano della macchina da presa ed ha
spesso saputo darci opere in equilibrio tra la denuncia sociale e la
spettacolarità cinematografica. Secondo alcuni in questo film ha prevalso il
secondo aspetto, ma, a parer mio, siamo nell'ambito di un discreto prodotto
d'impegno, realizzato grazie all'apporto di validissimi professionisti. Forse è
vero che il copione prevede, più che veri personaggi, semplici funzioni
narrative, affidate ad interpreti di valore affinché le riempissero di
contenuti "umani" ed è pur vero che la procedura penale italiana (soprattutto
prima della riforma entrata in vigore nel 1989) non si presta alla
spettacolarizzazione come quella americana, ma la messinscena è più che
decorosa, la narrazione serrata, gli assolo intonati e i fatti raccontati,
purtroppo, sono piuttosto credibili. Gli interpreti ci aggiungono del loro, dal
pubblico ministero appassionato di Enrico
Maria Salerno all'istrionico avvocato difensore Gastone Moschin,
dal boss sbruffone Mario
Adorf a quello gelido di Georges Wilson.
Ma tra gli attori si segnalano due comprimari della vicenda, cioè un Ciccio Ingrassia per
la prima volta e più che credibilmente in un ruolo drammatico e Guido Leontini,
uno che di questo genere cinematografico è stato un piccolo pilastro e che
forse avrebbe meritato più spazio: qui, in ogni caso è bravissimo a
tratteggiare il personaggio di una delle tante vittime/carnefici di cui è
costellata la storia infame della mafia.
Florestano Vancini, regista recentemente
scomparso, ha sempre dato una particolare attenzione all'impegno sociale. I
suoi migliori risultati li ha ottenuti nel genere storico: pensiamo a "La
lunga notte del 43", "Bronte" e "Il delitto
Matteotti". Qui siamo di fronte alla descrizione di un processo contro
uomini accusati di connivenza con il mondo mafiosi e che resteranno impuniti
grazie alla protezione loro offerta da alcuni "amici" importanti.
L'unico privo di protezione (peraltro poco sano di mente) sconterà le colpe
degli altri. Un altro poi verrà spinto al suicidio per evitare ritorsioni
contro la sua famiglia. Un film un po' plateale, reso agiografico grazie alla
performance di attori famosi o comunque molto conosciuti (Salerno, Moschin,
Adorf e addirittura un Ciccio Ingrassia in versione drammatica) ma che resterà
facilmente impresso nella mente dello spettatore.
All'interno dell'onorevole e suggestivo
filone del cinema 'civile', a fianco di nomi di registi e di titoli sicuramente
più blasonati o memorabili (il Cittadino sopra ogni sospetto di Petri o Le mani
sulla città di Rosi, per dire due dei lavori più rappresentativi), anche
Vancini ha un suo posto. E questo La violenza: quinto potere, tratto da
un'opera teatrale di Giuseppe Fava, è una delle pellicole che in definitiva
lancia il poliziesco - che poi degenererà in poliziottesco, assumendo in sè la
componente comica - nel cinema italiano degli anni '70. La struttura della
narrazione è molto semplice, ma tenuta insieme efficacemente dal regista
ferrarese; si tratta soltanto di un processo per mafia, raccontato attraverso
le deposizioni di tutti gli imputati. Per ciascuno di essi partono i debiti
flashback, che aiutano anche la visione allo spettatore, evitando di
rinchiudere il racconto nel claustrofobico ed immobile ambiente del salone del
tribunale. Di questo lavoro colpiscono essenzialmente due fattori: il primo è
formale, ovverosia la scelta di mostrare una giustizia gambizzata, annichilita,
sovrastata dal potere occulto della mafia (più volte accostata alla politica);
l'emblema sostanziale di tale caratteristica è tutto nell'intervento della
vedova (la Melato) di un uomo ucciso e fatto scomparire dalla mafia perchè
testimone di un altro omicidio: mentre lei urla la verità, nota a tutti i
presenti ('non ho nemmeno un cadavere su cui piangere', additando l'imputato
che si professa chiaramente innocente), le guardie sono costrette a portarla
fuori dall'aula. Sempre in linea con tale impostazione troviamo l'assassinio
finale del giudice, affiancato dalla nascita di un nuovo 'picciotto' che
perpetuerà il cancro della mafia nel tessuto politico, istituzionale,
economico, sociale. Secondo fattore, ma questa volta tecnico, di tutto risalto
è il cast: è soltanto da pazzi, lasciarsi sfuggire un film in cui gli avvocati
sono Enrico Maria Salerno (mostruoso) e Gastone Moschin, l'imputato principale
è Mario Adorf, il giudice è Turi Ferro e fra i testimoni sfilano Mariangela
Melato (che, per questioni di accento, è però la meno credibile della combriccola)
e Ciccio Ingrassia, qui chiamato - altro enorme merito di Vancini - per la
prima volta ad un ruolo drammatico (complice uno degli estemporanei litigi con
il partner artistico Franco). Un film importante. 7,5/10.
da qui