Incroci, passaggi,
sovrapposizioni, viaggi, spostamenti. Tra cinema e altri luoghi, e altre arti.
Cinema, teatro, sofferenza, disagio e guerra. Un uomo di teatro come Pippo
Delbono mette in scena uno spettacolo che si chiama Guerra e
lo porta nei luoghi dove la guerra è di casa da decenni, In Palestina e in
Israele. Tra appunti di viaggio, emozioni, sguardi attenti a quanto lo
circonda, l'autore "fotografa" e racconta storie e drammi quotidiani,
di dolore e allegria, con semplicità e poesia. Cinema italiano che va a
guardare il mondo. Non sappiamo se Pippo Delbono continuerà a fare cinema. Se
insistesse, lui teatrante fisico e atroce, battagliero e umanissimo, potrebbe
inventarsi un suo percorso (un po' come ha fatto Martone) lungo il quale
mescolare palcoscenico e schermo, ante ed esistenza, innocenza e crudeltà. Noi
ci auguriamo che continui. Delbono: «Quando lo spettacolo c'è, quando è
compiuto, non significa che ho capito, che c'è una risposta. No, Io spettacolo,
in realtà, è come profonda domanda». Amiamo i registi che ci regalano buone
domande. Da Film Tv, 2003
il film si svolge tutto intorno a un tavolo, con 5 protagonisti, uno si deve sacrificare per tutti, e siccome non è un film western non si deve scegliere la pagliuzza e poi chi prende la più corta ha perso, qui no, i tempi sono moderni, e si chiama un professionista che aiuta nella scelta, condivisa il più possibile. ma è pur sempre un film western, con duelli ripetuti, senza armi, ma con le parole, vincono i più bravi nell'arte della retorica e della convinzione. e poi un colpo di scena finale, ma non vi dico altro. certo che fra i cowboy e gli evasori e riciclatori di soldi sporchi preferisco i primi, hanno più passione, qui il meno peggio ha la rogna, e puzza. il film ha un bel ritmo e si fa vedere bene - Ismaele
…Guardando a una lunga tradizione di drammi rivelatori,
girati in una sola stanza, 7 años poggia
interamente sulle spalle di un cast micidiale, che trascina in pochi minuti in
una realtà di cui si conoscono poche informazioni e sconvolge in continuazione
il punto di vista dello spettatore. È la situazione a far emergere il reale
carattere dei personaggi coinvolti, i rancori e i segreti a lungo sopiti. A
rivelare la fragilità di una società di quattro uomini, dapprima uniti dalla
convenienza e poi divisi dalla stessa. A far riflettere ancora una volta sulla
natura umana e su come il "dinero negro" possa alterare gli equilibri
più basilari fondati su amicizia e solidarietà.
…una película que se sostiene muy bien
gracias a la brevedad de lo que nos cuenta, el director no alarga en demasía
una trama que no da para mas y dura lo que tiene que durar, últimamente parece
que cuesta meter la tijera en la sala de montaje y en este caso no da lugar a
ello.
7 Años además es una película que da lugar a debate una vez finalizada, uno se
pregunta que haría si estuviera en esa situación, no es fácil saber cual es el
mejor remedio para curar las heridas y la cicatriz siempre estará ahí.
Es difícil obviar que una de las claves del éxito de una película como
esta recae en los actores, mantener la tensión en un lugar cerrado no
es tarea fácil pero los cinco actores están soberbios destacando al
gran Manuel Morón que todavía no nos explicamos como no trabaja mas en el
cine, es uno de los grandes de nuestro país y queremos verlo mas en
pantalla.
7 Años es un titulo que no hay que menospreciar por estrenarse en VOD
y no en salas, hay que ser realistas y saber que este es el camino para
muchas producciones. 7 Años es un titulo muy a tener en cuenta en la
producción española de este año y quien diga lo contrario es que no
quiere enterarse de como funciona el cine hoy en día.
Alyosha, un bambino di 12 anni, un peso per i genitori, è il non protagonista del film. il mondo va veloce, soldi, lavoro, lusso, non c'è posto per un bambino, è un ostacolo alla felicità. se il film non fosse in russo si potrebbe scambiare per un film Usa, o europeo, il mondo è diventato (quasi) tutto uguale. la polizia fa finta di cercarlo, ma in realtà chi lo cerca è un esercito di volontari (ah, i volontari, come da noi) che svolgono le funzioni che i poteri pubblici abbandonano (come da noi, che coincidenza) Andrey Zvyagintsev fa pochi film, e tutti fanno male, sono impietosi, l'occhio del regista è un po' il nostro specchio, non ci lascia tranquilli. fotografia e musica davvero potenti. naturalmente il film è in un pugno di sale, riemergerà solo se vincerà l'Oscar per il miglior film straniero. voi cercatelo, se potete, non vi farà stare bene - Ismaele
…Il Male è dappertutto, dentro e fuori le persone, ha
radici antiche ma si nutre del nuovo nichilisno di massa, del rifiuto di Dio,
del trionfo della società liquida anzi fusa. Zvyagintsev non si vergogna, come
invece succede nel cinema europeo e americano, a confezionare un film
profondamente etico, a mostrarci – indignandosi – quale possa essere il grado
di mostrificazione indotto dalla cultura della prevalenza dell’Io. Il suo film
è una Passione laica con molti carnefici e una vittima sacrificalea. Qui non ci
sono le concitazioni di tanto cinema giovane con uso e abuso di macchina a
mano, la camera è lenta quando non immobile, i personaggi dislocati con
sapienza all’interno dello spazio schermico. Cinema cerebrale e costruito, che
mostra orgogliosamente il proprio artificio, la propria progettualità. Non c’è
traccia di naturalismo e di ogni spontaneismo-immediatismo, e nemmeno del tanto
diffuso oggi neo-neorealismo. Zvyagintsev muove la macchina da presa (quando la
muove), in una liturgia che ci induce tutti a interrogarci sulla colpa e la
forse impossibile redenzione. E che sapienza, già vista in Leviathan, nell’usare i paesaggi per farne proiezione
e estensione delle anime, e sono desolati pezzi di Russia invernale congelata,
sono edifici abbandonati e ridotti a rovine della contempraneità, metafora
trasparentissima di un mondo in disfacimento. Film monumentale, titanico, che
usa i drammi personali non per un banale chiacchiericcio psicologistico, ma per
avvertirci della presenza di quella cosa che si chiama Male. E memorabile la
sequenza con la madre di lei disseccata dentro dalla vita, e forse anche dai
troppi anni di comunismo. Cinema etico che crede in se stesso e nella propria
missione di denunciare il male. Cinema con l’anima che si rivolge a un mondo, e
a uno spettatore, che l’ha persa da un pezzo.
… Andrey Zvyagintsev nous confronte à une société malade
dont ses personnages sont le reflet, une société où le dialogue est virtuel ou
sourd. Et si ses personnages sont détestables, il nous tient en haleine sans
jamais nous prendre au piège. Le thriller s’impose dès lors qu’il y a
disparition et recherche, mais la force du scénario (le quatrième écrit pour le
réalisateur par Oleg Negin) est de dresser un portrait à la fois singulier de
la société russe contemporaine et universel du devenir du monde. Avec en
arrière-fond la situation internationale envisagée sous l’angle des médias russes…
L’approche esthétique est à dessein glacée au point d’en
devenir glaçante. Optant pour une frontalité et une fixité littéralement
« impressionnantes », Andrey Zvyagintsev nous confronte à ses
personnages, nous invite à les observer tandis qu’il les scrute. Tantôt très
proche d’eux, tantôt distant, ils les appréhendent sans concession, laissant
parler leur environnement (à l’instar des lieux de « vie ») et
offrant à leur comportement toute leur expressivité. Habile metteur en scène,
il gomme toute idée de représentation parvenant à nous plonger au cœur d’un
théâtre pourtant dépourvu d’humanité ; au cœur du théâtre de l’inhumain. Il
attise habilement notre attention dès lors qu’il opte pour une ponctuelle
mobilité, toujours fluide, en recourant à quelques travellings et mouvements
vers l’avant qui se révèlent hypnotiques. Il s’agit alors de sensation.
Le montage est père de contrastes engendrant deux lignes
rythmiques (entre coupes rapides, hâchées, et sequentialité des scènes) qui
confèrent au film son intensité. Les compositions musicales d’Evgueni et Sacha
Galperine, employées avec parcimonie, ancrent un trouble – le nôtre – et
rendent le développement narratif, les interrogations soulevée et l’ouverture
finale absolument hypnotisants. Comme un pavé jeté dans une marre, elles
résonnent en nous, se dissipant peu à peu. C’est alors que les images
d’ouverture nous reviennent. La joie des écoliers et la peine d’Aliocha. La
nôtre.
…Il suo è uno
sguardo privo di qualsiasi pietà nei confronti di una nuova generazione
parentale che ha perso qualsiasi senso di appartenenza. Alyosha non
'appartiene' a nessuno. Non al padre che, non contento di avere un figlio di
cui non si è mai occupato, ha già messo incinta la propria giovane nuova
compagna con la quale ha intrecciato un legame che lo sta avviluppando mentre
lui crede possa aprirgli nuovi orizzonti di vitalità. Lo stesso accade alla
madre, Zhenya, la quale si è sposata per sfuggire al controllo oppressivo di
una madre amata/odiata e ha vissuto la gravidanza come un peso che tuttora si
trova davanti nell'aspetto di un bambino che non ama e da cui non si sente
amata.
…Zvyagintsev non ci va leggero nella sua accusa e
regala alla sua splendida protagonista Maryana
Spivak almeno un paio di
bellissimi, terrificanti monologhi in cui emerge tutta l'insoddisfazione di una
vita che ha alla base la nascita di un figlio mai veramente voluto. Ma questa
coppia di genitori orribili, che nemmeno davanti alla possibilità della
peggiore delle tragedie riesce a trovare la forza per riunirsi, siamo davvero tutti noi? Mentre questa domanda
aleggia nella testa di noi spettatori, il film procede implacabile in due direzioni differenti: quella del
"thriller" in cui, scena dopo scena - grazie all'abile uso di
un'efficace colonna sonora e di lunghi piani sequenza in cui la macchina da
presa sembra costantemente alla ricerca di un dettaglio che potrebbe essere
sfuggito ai protagonisti - siamo sempre più preoccupati per il destino del
bambino e meno interessati alla vita privata dei due genitori;
contemporaneamente il film comincia a svelare sempre di più le sue reali
intenzioni e in un crescendo finale, inserisce una nuova lettura politica
caricando di simbolismi i protagonisti e gli eventi finora raccontati in
maniera forse fin troppo evidente ma comunque efficace. Tanto che sul
bellissimo finale non si può che immediatamente pensare alla canzone di Sting (Russians) in cui il cantautore lanciava un
chiaro messaggio di pace con il verso "I hope the Russians love
their children too". Dopo questo film è quantomeno lecito
chiedersi se lo stesso valga anche per la Madre Russia.
…La trama è racchiusa in una struttura formale
potentissima, per cui questa è un’opera, come i film precedenti del regista
siberiano – Il ritorno, The Banishment, Elena, Leviathan -, in cui fabula e intreccio sono
legati indissolubilmente. Un prologo e un epilogo mostrano uno sguardo lirico
su una natura invernale cristallizzata in uno stato di immobilità e di
impossibilità di cambiamento che già anticipa il significato profondo della
vicenda. Alyosha, un ragazzino di dodici anni, esce da scuola e per tornare a
casa attraversa una porzione di natura che sembrerebbe un bosco selvaggio,
invece è adiacente alla periferia di Mosca dove vive. Lo spettatore è subito
proiettato nella drammaticità della vicenda: Zhenya e Boris, i genitori di
Alyosha, si stanno separando, hanno messo in vendita l’appartamento, e nessuno
dei due vuole tenere con sé il ragazzino, il quale ascolta un confronto
verbalmente violento tra i suoi, dove gli si prospetta un futuro in istituto, e
lui, nel buio della sua camera, piange, appiattito contro la parete, come se
volesse sparire…
… Il pregio della ricercatezza formale che è visibile in ogni
inquadratura e che si arresta sempre a un passo dall’estetismo fine a se
stesso; la ricerca di un senso dell’immagine cinematografica che faccia da
contrappunto al girare a vuoto delle vite dei personaggi; l’utilizzo del piano
sequenza che comunque nulla toglie alla tensione e all’implacabilità del
precipitare degli eventi; i movimenti della macchina da presa calcolati con
precisione maniacale; la capacità di sfruttare in senso narrativo e stilistico
la profondità di campo; tutti questi elementi fanno di questo film un’esperienza visiva di grande impatto e di assoluto valore.
A fronte di chi sostiene che questo sia un cinema all’insegna dello schematismo
e di un’eccessiva inclinazione per la metafora, politica o morale, giova
ricordare che la cinematografia russa è nata come quella formalista per
eccellenza, e che Zvyagintsev si colloca, con pieno merito, su un asse di
registi che parte da Ejzenštejn, passa per Tarkovskij e arriva fino a Sokurov.
…El cineasta
ruso construye una demoledora crítica a la activa clase media soviética, seres
sin escrúpulos que se esfuerzan por alimentar la única fuente de energía que
parece mantenerlos socialmente atareados: el odio. En concreto nos encontramos
con Zhenya y Boris, un matrimonio en proceso de separación cuya relación y la
escasa interacción comunicativa que se produce entre ambos nos impiden concebir
la idea de que, en un pasado no muy lejano, pudo existir entre ambos algo
parecido al amor. Sin embargo, el realizador no se centrará en la desgastada
situación marital, sino en los vínculos afectivos de cada uno de los cónyuges
por separado; encontrando como nexo inexcusable al hijo que tienen en común…
…En dépit d’une mise en scène assez virtuose, le
scénario trop corseté et académique de Zviaguintsev ne réussit pas à masquer
une certaine indigence dans le fond. Certes, il y a par moment quelque chose
d’assez jouissif lorsque le réalisateur tourne le regard vers ces employés de
bureau tous entassés en silence comme des zombies dans l’ascenseur - on pense
alors à l’ascenseur social dans La
Garçonnière, de Billy Wilder. La sexualité, traitée comme
un acte utilitariste et pas plus engageant qu’un selfie, trace aussi d’assez
belles lignes de force, non loin des effets nihilistes de Yorgos Lanthimos ou
de Nadav Lapid. Pour autant, Faute d’amour présente
ses enjeux avec tant d’application et de rigueur mathématique qu’il s’avère
trop facile d’en découdre les tenants. L’absence d’Aliocha digérée, le film ne
trouve en définitive pas plus d’arguments marquants qu’il en avait distillé dès
la scène d’ouverture. Le regard doit ainsi finalement composer avec ces arbres
morts et gelés, dont le reflet n’est que celui d’une Russie incapable
d’accepter ses faiblesses. Tandis que la mère trottine sur son tapis de course,
le père place son nouveau-né reclus dans son lit à barreaux. On a connu
conclusion plus percutante, de même que Zviaguintsev nettement plus caustique
et pénétrant.
in qualche periferia di una città australiana, fatta di little boxes anonime, si apre e si chiude il film. nell'Australia colonizzata e violentata da galeotti e dai loro discendenti sopravvivono gruppi di indigeni. una ragazzina e il suo fratellino ne incontrano uno che gli salverà la vita, misterioso, di una forza spirituale atavica, senza parole, né spiegazioni. un film senza tempo, girato come si deve, resterà per sempre nei ricordi, un film così, la vita e la morte sono vicinissime, poi sai quello che è giusto e sbagliato, naturale e innaturale. cercalo e guardalo, la maggior parte delle cose che faresti in quel centinaio di minuti che dura il film le puoi fare dopo, o forse sono inutili - Ismaele
…Plus que jamais, Walkabout demeure
une œuvre assez unique, porteuse d’un regard singulier et toujours énigmatique
(David Gulpilil lui-même a avoué ne pas posséder toutes les clés de son
personnage). Plus qu’une simple randonnée donc, une expérience envoûtante sur
des routes peu empruntées, entre anthropologie et mysticisme, qui, si elle peut
laisser sur le bord de ses chemins de traverse, ne risque pas de laisser son
spectateur indifférent.
…Film
decisamente psichedelico come solo negli anni '70 si poteva produrre.
Psichedelico è l'uso mostruoso che fa dell'obiettivo della camera Nicolas Roeg,
che prima di fare il regista ha curato la fotografia in altri film. Soprattutto
quando inizia il cammino nel deserto si vedono panorami da urlo distorti da
macro, che zoomano in primi piani insospettabili su persone o, più spesso,
animali invisibili prima, colori di fuoco e verdi smeraldo, persino qualche
piano-sequenza ubriacante ed alcuni ralenty con reverse direzionale.
Virtuosismo di ripresa e montaggio spiazzante che fa il paio con lo sviluppo
della storia (tratta da un romanzo) anche per i parallelismi narrativi che
propone: il Walkabout smembra un canguro e in sincopato si vede un macellaio
che fa la medesima cosa; il Walkabout comincia a prendersi una cotta per la
ragazza ed un gruppo di meteorologi bianchi sono più alle prese a fare il filo
all'unica donna del gruppo che a svolgere il loro lavoro; mentre il Walkabout è
a caccia compaiono all'improvviso cacciatori bianchi in jeep e fucile che fanno
massacri di bestie, cosa che lo sconvolge e lo porta ad odiare i bianchi e,
temporaneamente, anche la ragazza…
Is "Walkabout" only about what it seems to be
about? Is it a parable about noble savages and the crushed spirits of city
dwellers? That's what the film's surface seems to suggest, but I think it's
also about something deeper and more elusive: The mystery of communication. It
ends with lives that are destroyed, in one way or another, because two people
could not invent a way to make their needs and dreams clear…
…The movie is not the
heartwarming story of how the girl and her brother are lost in the outback and
survive because of the knowledge of the resourceful aborigine. It is about how
all three are still lost at the end of the film--more lost than before, because
now they are lost inside themselves instead of merely adrift in the world.
The film is deeply pessimistic. It suggests that we all develop
specific skills and talents in response to our environment, but cannot easily
function across a broader range. It is not that the girl cannot appreciate
nature or that the boy cannot function outside his training. It is that all of
us are the captives of environment and programming: That there is a wide range
of experiment and experience that remains forever invisible to us, because it
falls in a spectrum we simply cannot see.
…Una splendida ragazzina – Jenny Agutter, che
rivedremo giovane donna nell’indimenticato Un lupo mannaro americano a Londra
di John Landis e altrove – e il suo fratellino vagano nello sterminato bush
australiano dopo essere stati aggrediti a pistolettate dal papà impazzito che
si è poi suicidato. Un perfetto esempio di gentleman arrivato nello sterminato
spazio aperto dalla civiltà anglosassone, che ha perso il senno. Roeg parte da
qui e si prende un grande lusso che il cinema ha forse un po’ smarrito, quello
di non spiegare niente, di non stare a raccontarci i perché e i per come,
esplorando trascurabili ghost nel passato dell’uomo. È la prima libertà, al
limite del kitsch, forse l’accusa più spietata e calzante che sia stata mossa
aglia anni Settanta, quando la follia sembrava pronta a esplodere ogni volta
che gli uomini del mondo civile vedevano spalancarsi davanti la potenza
selvaggia della natura – da Un tranquillo weekend di paura fino a Non aprite
quella porta o Le colline hanno gli occhi. Poi i ragazzini, ormai dispersi, si
imbattono in un giovane aborigeno impegnato nel suo Walkabout, quell’Inizio del
cammino ripreso dal titolo italiano. È l’incontro con una frontiera mai
varcata, l’avvicinamento fra culture opposte che si scoprono simili al di là
delle differenze superficiali, ma irriducibili al di là delle somiglianze più
profonde. A far detonare tutto è l’amore, non ricambiato, fra il ragazzo
aborigeno e l’eterea adolescente bianca, che condurrà prima lui, poi forse
anche lei, verso un epilogo tragico. Perché anche la ragazza, in un finale
impregnato di quella malinconia di cui forse abbiamo dimenticato gli ingredienti
– ma che sappiamo ancora riconoscere con un po’ di attenzione – comprenderà di
aver speso i momenti migliori della sua vita nuotando nuda in un lago
australiano con uno sconosciuto selvaggio.
Un cinema dilatato e rarefatto, insomma, ma contenuto
nei tempi. L’esatto contrario dei pupazzi robot che si gonfiano di botte per
tre ore negli ultimi blockbuster estivi. Un cinema libero, che ha il coraggio
di mostrare ragazzini in un nudo integrale senza che nessuno gridi allo
scandalo, e animali selvatici che muoiono davvero, le cui arterie vengono
strappate a coltellate da cacciatori indifferenti finchè l’ultima goccia di
sangue nonsi rovesci a litri nella polvere. Come non prendere tutto
terribilmente sul serio, di fronte a tanta verità? Come non accorgersi che è la
libertà di messa in scena – oggi perduta da un cinema castigato eppure
violentissimo, casto ma subliminalmente pornografico – a garantire tanta
autenticità? Se la verità rende liberi, si può forse dire che la libertà renda
veri. E la ragazza protagonista, nel finale cresciuta e sposata, al cospetto
dell’insignificante civiltà a cui è voluta tornare, sa di averla perduta quasi
tutta.
il film è tratto da una storia di James Ballard, chi ci prova è uno con del coraggio molto grande. un racconto di un futuro prossimo venturo, in cui un grattacielo ospita e fa convivere persone di classi (un tempo non lontano si sarebbe detto così) diverse. un po' come in Snowpiercer, dove un treno, e non un grattacielo, raccoglie persone di classi molto diverse, in vagoni diversi. in High-Rise ai pieni alti ci sono i più abbienti e fanno la loro bella vita fino a che le cose cambiano, e molto. non sarà un film perfetto, ma merita di certo la visione - Ismaele
Correva il glorioso anno 1975 quando la fervida
immaginazione del visionario scrittore J. G. Ballard –
vate della fantascienza sociale grazie a opere seminali quali La
mostra delle atrocità e Crash – partorì High
Rise (in Italia conosciuto come Il condominio),
spietata e grottesca satira sulle pericolose e inquietanti derive di un
microcosmo abitativo i cui componenti si trovano a vivere una terribile involuzione
specchio di una società già allora vicina al collasso totale. Il grande
successo di pubblico e il profondo impatto culturale esercitato dal romanzo fin
dalla sua pubblicazione spinsero il produttore Jeremy Thomas a
progettarne un ambizioso adattamento cinematografico, segretamente e
disperatamente covato per oltre quarant’anni e sul quale si sono avvicendate
personalità di grande spessore, tra cui Stanley Kubrick, Nicolas Roeg e
Vincenzo Natali. Tuttavia è toccato a Ben Wheatley raccogliere
la sfida alle soglie del 2013, affidandosi alla collaborazione della compagna
sceneggiatrice Amy Jump per poter finalmente vedere
rappresentate sul grande schermo le vicissitudini del dottor Robert Laing (Tom
Hiddleston), fascinoso fisiologo inglese da poco trasferitosi in un
imponente grattacielo facente parte di un avveniristico complesso residenziale
progettato dall’architetto Anthony Royal (Jeremy Irons), con
l’intento di replicare strutturalmente le stratificazioni della piramide
sociale…
Affascinante solo l'idea di adattare il
bellissimo romanzo di Ballard, Il condominio, un'allegoria molto potente e
concettualmente molto attuale. Cronenberg in qualche modo lo aveva già in una
certa misura anticipato con Il demone sotto la pelle, con canoni più
indirizzati verso l'horror. Un complesso che teoricamente è un 'esperimento
sociale" secondo la volontà del suo stesso creatore, Royal. Grattacielo con
tutti i confort, quasi autosufficiente per non dire autoreferenziale, ma con
alla base tanti, troppi elementi che ne determinaranno la degenerazione e la
caduta. Una rigida divisione in classi sociali dal basso verso la cima di
questa moderna Torre di Babele con giardini pensili all'attico dei Dio creatore
Royal. Una torre che si deve "assestare" nei suoi sistemi, i cui
guasti sin da quelli di piccola entità non fanno altro che alimentare dissapori
fino a generare odio e violenza. Una convivnenza impossibile perchè troppo
imprigionata nella sua rigidità sociale, impedisce ogni scalata se non con
l'ausilio della violenza stessa. Un critica feroce ai sistemi capitalistici che
al loro interno, non esistendo concetti come solidarietà ed equilibrio sociale,
genera solo differenze sempre più marcate. Il Complesso/Torre è marcio fin
dalle sue fondamenta. E' un film affascinante, visivamente presenta dei
passaggi straordinari, ma a volte la seneggiatura è confusa e ridondante.
Bravissimi comunque il cast con un Hiddleston sicuro dei suoi mezzi e perfetto
nel ruolo di Laing. Un film che pur nelle sue imperfezioni, confermano il
talento di uno dei migliori registi d'oltremanica.
…l’opera di Ballard
è brillante, originale, complessa e destabilizzante. Per questo motivo trarne
un film era di certo una sfida ardua e rischiosa. E’ molto frequente che una
rappresentazione cinematografica adotti mezzi narrativi diversi rispetto
all’opera da cui è tratta; il punto chiave per una buona trasposizione, però, è
il saper cogliere gli elementi fondamentali che danno al romanzo la sua
unicità. Nonostante alcune scene visivamente efficaci, come quella dell’immenso
giardino terrazza, quasi un paradiso terrestre, costruito sulla sommità del
grattacielo da Royal, il megalomane architetto
della costruzione, e un bel cast al suo servizio (Jeremy Irons, Tom
Hiddleston, Luke Evans), il
regista Ben Wheatley non riesce a
portare sulla scena l’anima del libro, né a coglierne il suo messaggio più
importante e profondo. Egli, infatti, concentra spesso la sua attenzione su
particolari a dir poco marginali delle storia (es. il figlio di Charlotte Melville o le notti brave dei protagonisti), trascurandone altri di fondamentale
importanza. E’ così che il film appare in molti casi slegato nel suo
sviluppo. Il difetto principale sta poi nel non saper
rappresentare appieno la "malata dipendenza" che gli abitanti del
grattacielo hanno per il condominio. Nel film sembra che essi siano più che
altro degli esaltati, viziati e dediti agli eccessi e che il caos da loro
generato sia giustificato da questi motivi o dalla noia, piuttosto che dal loro
autolesionistico bisogno di annichilimentoall’interno
del grattacielo. Ci si concentra sui loro comportamenti esteriori, invece che
sulle contorte e inquietanti motivazioni delle loro condotte. La macchina da
presa sfiora la superficie, mentre avrebbe dovuto immergersi a capofitto in
questi personaggi, per sviscerarne la psicologia e i disturbi. Ad esempio è
privata del suo spessore la “scalata” di Wilder verso
la sommità del grattacielo. Il regista la fa passare quasi in sordina,
ignorando uno dei motori fondamentali del romanzo: il desiderio di Wilder di
sovvertire le gerarchie del palazzo, animato prima da un ideale di libertà e di
ribellione verso i superbi abitanti dei piani superiori; poi da una crescente
spirale di violenza e brutalità che finiranno per renderlo simile ad una
bestia, interessata soltanto ai suoi bisogni primari. E’ un vero peccato,
perché Luke Evans era perfetto nel ruolo di Wilder. Lui e
il suo personaggio sono i più trascurati dalla sceneggiatura e dalla regia.
Anche gli altri due protagonisti, il dottor Laing (nel
romanzo alter-ego dello scrittore), e l’architetto Royale,
interpretati rispettivamente da Tom Hiddleston e Jeremy Irons, ben calati nel ruolo, alla fine vengono
ridimensionati e soprattutto appaiono privi di quell’intensità e quel pathos
che era necessario per trasmettere l’angoscia celata dietro la prigionia
autoindotta degli abitanti del grattacielo…
…Tutta la prima parte del film è
un’esplosione di stile, sfarzo, superfici lucide e splendenti, costumi da
capogiro, corpi perfetti. La vita nel condominio è scandita da party che durano
tutta la notte e poco importa se, al mattino dopo, la spazzatura ostruisce i
corridoi. Sono dettagli risibili mentre ogni cosa procede alla perfezione. Le
automobili luccicano nuove e pulite nel grande parcheggio riservato ai
condomini, gli appartamenti sono nuovi e senza un graffio. Persino i poveracci
ai piani inferiori sembrano avere diritto a una piccola fetta del benessere. Forse è qui che l’estetica di Wheatley funziona
meglio, quando deve introdurre un contesto che poggia su un equilibrio precario
ma all’apparenza rigidissimo, la simulazione di un’utopia verticale basata su
un severe regole gerarchiche. Tutto ciò è reso in maniera davvero esemplare da
una regia che rispecchia visivamente questo schema. Wheatley è geometrico,
seziona personaggi e, soprattutto, ambiente con una precisione chirurgica, ci
fa sentire, senza spiegarcelo, il peso della suddivisione in classi, così che,
al momento della deflagrazione, potrà sbizzarrirsi a forzare e, finalmente, a
rompere lo schema…
una sceneggiatura a orologeria e un gruppo di attori ben scelti sono sufficienti per fare un gran film, senza bisogno di effetti speciali. tutti sono bravi, qualcuno ancora di più. film così si facevano in Italia negli anni '60 e '70, poi sembrava essersi perso lo stampo. ma questo film dimostra che non è vero. dialoghi perfetti, tra l'altro, rendono il film imperdibile; piacerà a quelli, per esempio, a cui è piaciuto molto Perfetti sconosciuti. guardate e godetene tutti - Ismaele
… Gay demuestra que no hace falta valerse de excesos para
generar tensión cinematográfica y que construir a partir de la palabra no
necesariamente deviene en esterilidad discursiva.
… La esencia de Una
pistola en cada mano está en la escritura de los diálogos y en la
temporización de la secuencia, medida hasta las milésimas de segundo. Pero el
sabio manejo de la cámara para captar minuciosamente cada registro es lo que la
convierte en cine valioso y le distancia del escenario teatral. (Hay en esta
película una cierta similitud con algunos filmes de Ventura Pons). En este
sentido, Ricardo Darín y Luis Tosar protagonizan una magistral escena que
representa lo mejor de esta película. Más que interpretar, ambos –el marido
cornudo y el amante insospechado– viven el papel y traspasan la pantalla para
que el espectador pueda meterse en la piel de cualquiera de ellos. Igualmente
ocurre con el episodio que interpretan Eduardo Noriega y Candela Peña: la
maestría con la que están escritas las réplicas y contrarréplicas, la
delicadeza con que cada uno afronta la afrenta del otro y de la otra, la
intensidad con que la cámara recoge la estupefacción, la torpeza, la estupidez,
del personaje de Noriega (casado y padre reciente) que intenta ligar al final
de una fiesta en el trabajo con la compañera a la que habitualmente ha
despreciado, junto con la sencilla lección, sin aspavientos vengativos, que le
procura Mamen, es una muestra más de que Cesce Gay ha conseguido un destilado
de gran cine
El largo episodio, desdoblado en dos escenas, que protagonizan Leonor Watling y
Alberto San Juan, por un lado, y Cayetana Guillén y Jordi Mollá, por otro, –dos
parejas que intercambian a sus maridos para conocer las intimidades del otro–
es el más flojo de la película, el que tiene los diálogos más previsibles y que
redunda en ciertas obviedades, aunque no deja de tener igualmente aciertos
humorísticos. Sin embargo, no desmerece del conjunto del film en la intensidad
de la interpretación y en la elegancia de la puesta en escena. La misma
elegancia con la que está elegido el título (una frase con la que Mamen explica
el comportamiento del personaje encarnado por Noriega), y que tiene su
contrapunto en los abrazos que se dan los personajes para demostrarse que no
van armados.
En definitiva,
Cesc Gay ha conseguido una estupenda película sobre ocho figuras masculinas que
vienen a representar un todo, que tal vez –como dice la publicidad–
entusiasmará a las mujeres, pero lo que seguramente es más importante es que
trata con humor inteligente, sin insultar ni ofender, sino con absoluta y
reconocible complicidad las taras del hombre actual.
…L’abilità
di Cesc Gay è quella di portare sullo schermo situazioni reali, anche
drammatiche, ma in modo ironico ed incredibilmente comico. Alle volte ci si
ritrova a ridere di cuore di vere e proprie disgrazie per merito di un cast
coinvolgente e talentuoso e di una sceneggiatura intelligente e vivace che mai
risulta offensiva.
“Una
pistola en cada mano” dimostra come un film per essere più che riuscito non
necessita di grandi budget, scenografie straordinarie, effetti speciali da far
invidia a Hollywood, ma al contrario il centro dovrebbe sempre essere uno
scambio di battute ben scritte e ben interpretate: la semplicità e
l’essenzialità sono la forza di questa pellicola spagnola, che senza apparenti
sforzi attrae lo spettatore.
Consigliato
a chiunque abbia voglia di svagarsi senza perdere il contatto con quelle che
sono le problematiche sociali contemporanee: per 97 minuti non riuscirete a
distogliere lo sguardo dallo schermo!
Hay películas que son radiografías humanas. Y tú, querido
espectador, las ves con hambre de voyeur y ríes o lloras; y disfrutas
del arte cinematográfico usado como vehículo para retratar las miserias ajenas.
A veces es agradable y cómico pero otras veces es duro enfrentarse a tus
propios secretos y miedos o a esos fragmentos de personalidad que ceden a la
hipocresía gobernante o a la crueldad, también mayoritaria. Con En
la ciudad Cesc Gay ya desnudó a los personajes
mientras te los acercaba para que vieras, en forma de drama, la segunda piel de
unos tipos que realmente eráis tú y tus amigos. Y te encantó, querido
espectador. Te encantó ser testigo de cómo los amigos que dicen ser tan amigos
no se conocen tanto cómo creen. Aunque te asustó verte reflejado. Cesc
Gay te debía una película menos dura, igual de verdadera pero con
algo menos de mala leche. El director ha cumplido su promesa (aparentemente)
con su último film, Una pistola en cada mano. Tanto a ti como
a las mujeres de En la ciudad les debía un segundo
acto.
Y está claro que Una pistola en cada mano es
ese segundo acto de En la ciudad. Donde el director disecciona
varios encuentros entre conocidos, amigos, compañeros de trabajo o viejos
amantes con un ingenio envidiable y con mucha, mucha gracia. En
esta película de episodios las mujeres salen bien paradas, ellas han madurado,
son más inteligentes, saben lo que quieren pero ellos… ellos son perdedores. No
atractivos perdedores, sino más bien ridículos hombrecillos
incapacitados para comunicarse, para degustar la felicidad que da la
madurez. Sin embargo, todos son lo honestos que su hombría les permite ser… que
no es poco…
Jean Rochefort nell'ultimo film fa la
parte più difficile, quella di chi c'è e non c'è più con la testa.
chi ha conosciuto qualcuno malato di
Alzheimer può pensare che al tempo del film l'attore non stesse troppo
bene, e quel film sia una specie di biografia.
in realtà Jean Rochefort è
grandissimo, i pensieri si aggrovigliano, scompaiono, riappaiono chiaramente
confusi, lui sa che quello che pensa è tutto vero, nel suo mondo, però, non in
quello degli altri, e ritrovare la strada è sempre più difficile.
ridiventa bambino in un corpo da
vecchio, la memoria porta alla luce episodi drammatici di quando era ragazzino,
in testa girano tante storie, ognuna vera, da sola, lui lo sa, solo lui.
e non c'è più bisogno di fingere, di
essere politicamente corretti, i filtri saltano uno a uno.
gran film, se lo vedrai capirai -
Ismaele
…Philippe Le Guay rivolge il
proprio sguardo a quel momento difficile nella vita di molti in cui i figli si
trovano a divenire genitori dei propri genitori. Da una parte c'è la fortuna di
avere il padre (o la madre) ancora in vita ma dall'altra c'è il 'peso' di
gestirne le apparenti stravaganze che sono invece segni del progredire del
disagio psichico. Con un attore straordinario come Jean Rochefort
tutto questo diventa facile. Le sfumature, i sorrisi astuti e quelli che
esprimono disagio, i lampi nello sguardo che in un momento fanno percepire la
consapevolezza dell'agire e un istante dopo si spengono affogando nella più
totale distanza da quanto circonda il personaggio, sostanziano tutta la sua
interpretazione. Di fronte si trova una Sandrine Kiberlain che offre a Carole
tutta la disponibilità di una figlia consapevole di una situazione che rischia
però di mettere a repentaglio la sua vita di coppia adoperandosi per un
genitore che ha bisogno di lei ma la sente anche come un severo controllore.
Poi c'è la grande assente: Alice, l'altra figlia a cui Claude pensa
incessantemente e che vuole rivedere al punto da sentirsi pronto ad affrontare
un volo intercontinentale per raggiungere quella Florida con cui mantiene
comunque un contatto attraverso i succhi di frutta. Si ride grazie a questo film ma si tratta di una
risata carica di tristezza soprattutto per chi è consapevole che poco o nulla
degli atteggiamenti di Monsieur Claude è inventato. Il duo Rochefort/Kiberlain
riesce a prendere la giusta distanza dal rischio di trasformare lo script in
una farsa. Sotto l'attento controllo di Le Guay che conosce il senso della misura.
…Interpretato da un sempre immenso Jean Rochefort, Claude è
come un novello Don Chisciotte, ruolo che l’attore avrebbe dovuto
incarnare nel progetto di Terry Gilliam. Può essere vittima di un buio
improvviso mentre è in un bagno pubblico. È addirittura capace di tirar fuori
il membro e orinare sul parabrezza di un automobilista che lo ha infastidito.
Vive in una società che non riconosce più, uomo d’altri tempi, con i suoi
ricordi da ragazzo nel periodo della guerra. Capace di improvvisi sbalzi da uno
stato d’animo all’altro, mirabilmente resi dal grande attore mattatore. Ha
cancellato il trauma della morte della figlia, lo ha rimosso dalla sua memoria.
Basterebbe un Rochefort per buona parte dei
registi ed essere a posto. Il grosso del lavoro lo fa lui. E in effetti la sua
prestazione in Florida è superlativa. Ma Philippe Le Guay non si
adagia sugli allori. E costruisce il film con una sceneggiatura a incastro
degna di Atom Egoyan, costruita su piani temporali diversi, che si svelano nel
dipanarsi narrativo. Vediamo quasi all’inizio una scena di Claude in aereo che
sta volando a Miami, ma questa situazione si situa cronologicamente nella parte
finale del film: spetta allo spettatore, con la sua memoria, il rimettere a
posto tutti i fili della memoria di Claude… da qui
Una madre che affronta il suo giovane figlio portato via da un sistema militare.La sua impotenza nel prevenire il trattamento crudele e disumano che sa di provare è più di quanto possa sopportare qualsiasi madre.Questo succede a più di 700 bambini palestinesi all'anno.
·È tragico che anche adesso, anche
dopo tutto quello che hanno sopportato, è ancora necessario umanizzare i
palestinesi. Questo breve ma magistrale film fa molto di più.Dimostra che
siamo tutti palestinesi e loro sono noi. Non c'è "altro". C'è
solo una madre e il suo bambino, che ci implorano di entrare nelle loro vite e
capire il loro dolore, implorandoci a cercare e poi abbracciare ciò che unisce
e non ciò che ci separa.
Sara Roy (Senior Research Scholar, Centro per gli
studi del Medio Oriente, Università di Harvard)
·Sono profondamente commosso e
spostato oltre le parole! La familiarità del dolore ricorrente rende tutto
ciò solo più intollerabile. Il film di Farah mi ha fatto singhiozzare con
tutte le altre madri, nonne, bambini, esseri umani che sono sopraffatti dalla
casualità di un'orribile ingiustizia e dalla persistenza di una tale crudeltà
volontaria. La sua rivelazione della semplice storia palestinese è così
personale, così umana, così cruda che la sua intensità diventa insopportabile. L'estetica
dell'immersione mi ha lasciato senza fiato e silenzioso.
Dr Hanan Ashrawi
·Come palestinese, sono stato
imprigionato e torturato tre volte dall'occupazione israeliana quando avevo 14
anni e 15 anni. Today's Took My Son non solo richiamava ricordi delle mie
esperienze, ma mi ha aiutato a capire per la prima volta i sentimenti di mia
madre ogni volta che mi portavano via. Mi ha anche fatto riflettere sul
ruolo eroico che le donne palestinesi svolgono nella nostra lotta per la
libertà. I suoni del pianto e del pianto di mia madre mi danno un senso
completamente nuovo oggi. Grazie per la vostra empatia e coraggio per far
luce sul lato umano della nostra lotta per la libertà e la dignità.
·La poesia visiva e verbale del
cortometraggio di Farah Nabulsi trasmette con forza gli orrori subiti da
generazioni di bambini palestinesi e dalle loro famiglie, sotto belligerante
occupazione israeliana. I bambini palestinesi sono sequestrati dai soldati
israeliani, confinati in celle oscure in isolamento, interrogati e torturati,
privati dell'accesso a genitori e avvocati e mandati ai tribunali militari
dove i tassi di condanna sono superiori al 99%. Come il suo film mostra,
questi bambini sono certi di emergere dalle loro esperienze traumatizzate e
infrante, la loro infanzia a brandelli. Esorto chiunque cerchi di capire
le schiaccianti realtà della vita per i palestinesi sotto l'occupazione
israeliana per guardare questo film.
Jonathan Cook
·Incredibilmente potente e bello. Dovrebbe
essere visto da tutti.
Kirkland Newman Smulders (Fondatore ed editore,
MindHealth360)
·Non ci sono abbastanza pietre da
buttare, non abbastanza parole da esprimere o lacrime sufficienti a lavare via
i crimini commessi da Israele. Per sette decenni Israele ha praticato gli
imperdonabili e impenitevoli crimini di genocidio, pulizia etnica e apartheid. Ma
nessun crimine è così terribile come la campagna israeliana di rapimenti e
abusi sui bambini palestinesi. La crudeltà di Israele, il dolore e la
disperazione di una madre e il trauma di un bambino sono tutti fedelmente e
dolorosamente illustrati in Today They Took My Son.
Miko Peled (Autore, Il figlio del generale)
·La legge americana esclude gli aiuti
alle forze militari che praticano abusi sistematici di diritti. Questo
film straziante e la realtà brutale di cui è un campione minuscolo ci dicono
chiaramente e chiaramente che la legge dovrebbe essere applicata e l'aiuto
militare a Israele dovrebbe finire finché l'occupazione criminale viene
mantenuta.
Noam Chomsky (professore emerito dell'Istituto, Massachusetts
Institute of Technology)
·Today They Took My Son tratta un
tema molto importante e un'area che Human Rights Watch ha dedicato molto tempo
a documentare, quindi è bello vedere il problema affrontato in un modo a cui le
persone possono relazionarsi a livello personale. L'immaginario è
fantastico, in particolare contrastando le fotografie reali dei bambini
detenuti con la narrativa romanzata nel film, e anche i flashback tra il
filmato documentario e la narrativa ricreata sono efficaci.
Sarah Leah Whitson (Direttore esecutivo, Human Rights
Watch Medio Oriente e Africa)
·Oggi They Took My Son è davvero ben
girato! Il messaggio è potente e vero, e mostra l'estrema ingiustizia che
i palestinesi vivono attraverso.
Sawsan Asfari (produttore esecutivo, Cactus World
Films)
l'aula di
un tribunale come luogo di un duello fra due persone che hanno difficoltà a
piegare la testa e a chiedere scusa.
entrambi pensano di avere ragione, nessuno arretra.
il meccanismo di odio è quello che funziona quasi
sempre, nella realtà, se non ci sono giudici e/o avvocati e/o politici con dubbi e umanità e
saggezza che spengono i fuochi (appare anche un politico nazionalista che assomiglia
a Salvini, ma dev'essere una coincidenza; in Libano, per loro fortuna, non lo
conosce nessuno).
la storia è come quella di un legal thriller,
quello schema narrativo permette colpi di scena, argomentazioni e punti come in
un'avvincente partita di tennis.
la consapevolezza che tutti hanno un po' di
ragione e un po' di torto si trasforma nel compromesso per spegnere l'incendio
che stava iniziando.
bravissimi tutti gli attori, pedine di una
sceneggiatura che non lascia scampo.
ed è strano che si rischi la
galera per fare film così, buon segno, vuol dire che è un film che vale.
nei titoli di coda (per non eccedere nel
politicamente corretto) mancano le immagini nelle quali Tony diventerà il
meccanico di fiducia di Yasser, loro sanno che i tedeschi fanno le cose molto
meglio dei cinesi (mentre nelle vernici fanno un ottimo lavoro gli italiani,
veniamo a sapere, e anche che qualcuno si appella al boicottaggiodi questo film).
non lasciatevi sfuggire questo film, addirittura
in 60 sale (con uno dei migliori incassi per sala della settimana) - Ismaele
…Douieri e Joelle Touma, sua compagna
e cosceneggiatrice, sono partiti da un'occasione reale, un'uscita verbale
infelice del regista in un momento di nervosismo, per andare all'origine del
sentimento che sta sotto certe frasi, che non vengono mai pronunciate per caso
Un'opera di immersione in profondità,
dunque, tra lapsus e impulso, raccontata però in verticale, perché il
conflitto, come la rabbia, come l'umiliazione, è qualcosa che monta. Raccontata
in maniera diritta, appunto, attraverso tappe che si potrebbero dire
prevedibili, eppure, non solo l'avverarsi del prevedibile è parte integrante
del discorso, ma soprattutto è sfumato, colorato, drammatizzato da un ottimo
copione, che si muove abilmente tra la sfera pubblica (e il film processuale) e
il momento privato (dunque il dramma psicologico). Con il colpo di genio di
fare dei due avvocati rivali un padre e una figlia, che non possono non
portarsi in aula dell'altro: qualcosa che va al di là degli "atti",
esattamente come il confronto tra Toni e Yasser va al di là dell'insulto
pronunciato sul momento e affonda in una sofferenza, privata e collettiva, che
ancora tormenta e fomenta…
…Il regista, che aveva esordito nel 1998 a
Cannes con West Beyrouth e che qui è al
quarto lungometraggio, tornato da Venezia con il premio è stato
arrestato, processato e
prosciolto da un tribunale militare, accusato di collaborazionismo con il
nemico israeliano. Un chiaro segno che L’insulto tocca
un nervo scoperto, anche se il film non è manicheo e non traccia della politica
un ritratto totalmente negativo. Uno dei messaggi è anzi quello dei cambiamenti
che devono partire dal basso, da una volontà comune della popolazione di
venirsi incontro, anche nel rapportarsi nel quotidiano, nelle cose più banali,
e che non tutto dipende dalla sola politica…
… una
lezione di memoria e di storia che si profila gradualmente, sugli eccidi noti e
quelli dimenticati, che lasciamo scoprire allo spettatore, poiché questi sono
il momentum del film.
Il quale esce qui dallo psicodramma cinematografico per
assurgere con potenza e semplicità al dramma umano della storia. Non ci può
essere perdono e quindi riconciliazione senza assunzione di responsabilità
reciproca – perché tutti hanno colpe e giustificazioni – e senza conoscenza
storica e comprensione piena del dolore immenso che fa covare questa rabbia
insensata e perenne dell’orgoglio, della frustrazione.
Alla fine della guerra, l’amnistia diventò amnesia, dice il
regista, e qui sta il nodo da affrontare e sciogliere per uscire dall’eterna e
perenne grande faida, dal grande campo di prigionia interiore del passato, per
una nuova alba dei rapporti interrazziali, religiosi, politici e più
semplicemente umani. Non un insulto ma un messaggio di pace.
..Non hai l’impressione che il successo
del film nasca dal fatto che il mondo si sia… “libanesizzato”? L’accoglienza all’estero, in Occidente, è stata
sorprendente. Abbiamo vinto quattro premi del pubblico in vari festival: al
quarto mi sono chiesto,perché in tanti, non arabi né tantomeno libanesi, si
identificano? Perché il mondo sta vivendo cambiamenti complessi e forti che noi
forse abbiamo vissuto prima di altri. Quella rabbia, quel dolore è arrivato in
tutto il mondo, temo. Penso all’ultima rassegna in cui sono stato, al San
Francisco Film Festival. C’era un odio nei confronti di Trump, una rabbia così
grande e divisiva verso l’attuale governo e chi l’ha eletto che mi ha fatto
paura. Eravamo davanti a un caffè e mi dicevano tutti quanto si identificassero
con il mio film, quanto si sentissero in un paese diviso. Io volevo solo
raccontare una storia, in parte la mia storia. Solo dopo ho scoperto che era
universale, e non lo immaginavo. Non con questa forza…
… L’insulto è il classico caso in cui la forma cinema non si
presenta particolarmente sofisticata: qui di innovazioni linguistiche e
narrative non si vede traccia, ed è probabilmente il motivo per cui a Venezia
non è piaciuto alla critica più oltranzista e cinefila. Ma stavolta, signori,
sono i contenuti a dominare schiacciando tutto il resto, e cosa mai volete che
sia se confezione e modello narrativo sono dei più convenzionali (e però
nient’affatto disprezzabili, pure con gloriosi precedenti: The Insult è un perfetto courtrooom movie, genere
illustrissimo, tant’è che il regista Ziad Doueri ha dichiarato in conferenza
stampa al Lido la sua ammirazione per Il verdetto di
Sidney Lumet). Stavolta mi schiero dalla parte dei biechi contenutisti. La
materia trattata è talmente esplosiva da far passare il resto in secondo piano.
E fa niente se c’è qualche furbata che a un festival suona maleducata, un
attentato al bon ton autoriale (vedi il colpo di scena che ci fa scoprire come
l’avvocatessa della difesa sia la figlia dell’avvocato della controparte). Il
film ha struttura robusta, un andamento serrato e avvincente. Dosa benissimo le
sue rivelazioni alternando pause e climax. Ed e probabile che diventi un
successo arthouse internazionale se solo trova il vento giusto…
…Desde un punto de vista visual, aunque gran parte de la
película tiene lugar en los tribunales, el director adopta un estilo dinámico y
visualmente muy elaborado, con un uso intensivo de steadicams. El
ritmo de la narración es ágil, dinámico y constante, gracias a los numerosos
giros y vueltas de guion durante el metraje que consiguen mantener vivo el
interés del espectador.
…il punto forte del film, in fondo solido
ma classico dramma processuale (non a caso uno dei riferimenti di Doueiri è
stato Il
verdetto di
Sidney Lumet), quanto il contenuto. Cinema che può non piacere, perché
smaccatamente desideroso di mandare un messaggio e quindi a rischio didascalia,
invece apprezzabile proprio per il tentativo di sviscerare la complessità
rendendola comprensibile anche per un pubblico poco avvezzo con le questioni
medio orientali. Un’opera quindi importante proprio per quello che dice, in cui
il cinema viene utilizzato come strumento comunicativo per fare chiarezza
mantenendo la giusta distanza. In un equilibrio così precario, colpisce che al
Festival di Venezia, dove è stato presentato in Concorso, la Giuria abbia
deciso di sbilanciarsi a favore di uno dei due protagonisti premiando Kamel El
Basha, interprete della parte palestinese del conflitto.