un piccolo film che fa ridere abbastanza, delle ragazzine che sembrano uscite dalla macchina del tempo, viste oggi, come quelle ragazzine degli stessi film degli anni '60 italiani, ragazze in collegio, con o senza suore, in un mondo che sta cambiando, con Ugo Tognazzi, Rita Pavone, Totò. non aspettarti un capolavoro da Guai con gli angeli, ma qualche sana risata, che non fa mai male, quella sì - Ismaele
Un film leggero leggero tutto al femminile, per ridere e
sorridere ma anche per cogliere un accenno garbato ai valori di vita e fede
delle comunità religiose.Guai
con gli angeliè uno di quei
piacevoli intrattenimenti che si vede una volta per caso, da bambini o ragazzi
e poi, stampatosi nella memoria, rimane un appuntamento piacevole ad ogni
passaggio televisivo (ahimè rarissimo). Ha tutto il piglio della commedia per
adolescenti, i toni distesi di una “simpaticheria” ambientata fra le mura,
benevolmente austere, di un collegio retto da una preside/madre superiora dal
viso severissimo (contesto ideale per un susseguirsi di marachelle ed appunto,
i “guai” del titolo). Mary Clancy (alias Kim Novak) e Rachel Devery (alias Fleur
De Lis) formano un duo affiatatissimo sin dal viaggio in treno che le condurrà
alla loro nuova scuola, l’edificio (addirittura neomedievale) sede del convento
di San Francesco. Forse i ragazzi di oggi lo troverebbero di scarso appeal, ma
vi assicuro che la formula “collegiale”, (ricordiamo solo l’emblema: L’attimo
fuggente, Peter Weir, 1989) un riuscito impasto di complicità studentesca,
desiderio di ribellione ed emancipazione, scontro generazionale, risulta
efficace anche qui, nonostante l’approccio deliberatamente scherzoso…
Mary e Rachel passano tre anni insieme in un collegio gestito
da suore combinando guai in continuazione, poi le loro strade divergono.
Commedia fresca e garbata, che si muove con elegante leggerezza in un ambiente
religioso: sfiora con delicatezza temi alti, schiva il devozionismo gretto e ha
qualche momento toccante; dà un po’ fastidio solo il manicheismo che emerge
quando si tratta di fare il confronto con i metodi del collegio laico
frequentato in precedenza da Rachel e con lo stile di vita dello zio di Mary.
Ma in fondo vuole essere soprattutto la storia dell’amicizia esclusiva fra due
ragazzine che maturano insieme e si preparano alla vita; e le loro marachelle,
che mezzo secolo fa potevano sembrare gravi, oggi fanno solo sorridere.
Rosalind Russell, col passare degli anni, è diventata inopinatamente credibile
come madre superiora. Molto carini i titoli di testa animati in stile Pantera
Rosa.
Ron
Fricke è stato direttore della fotografia di Koyaanisqatsi,diGodfrey
Reggio, e si vede.
il film è musica e immagine, musica bellissima, come pure le immagini, un giro del mondo stando seduti in salotto.
Ron Fricke non è solo il regista, ma anche l'uomo con la macchina da presa. qual è il messaggio, se c'è, ognuno se lo trovi da sé, ma intanto guardi questo film, toda joia toda beleza - Ismaele
ecco il film completo:
…Prendendo spunto
dall’innovativo Koyaanisqatsi, Fricke elabora l’idea di un cinema che non
preveda né l’uso della parola, né tantomeno della recitazione. La sua
intenzione non è quella alla Lars Von Trier di creare film documentaristici di
ciò che accade nella vita quotidiana nei rapporti interpersonali fra i membri
di una comunità, bensì è quello di creare un poema visivo e sonoro che indaghi
in maniera evocativa il rapporto fra uomo e natura. Anzi, forse converrebbe
dire fra spirito-uomo e spirito-natura, in quanto buona parte delle immagini è
dedicata a riti religiosi di varie religioni fra loro molto distanti. Questo
non per sostenere la forza della religione, ma per documentare la sacralità del
gesto che l’uomo compie durate le funzioni religiose. E’ un tracciare l’ombra
dello spirito dell’uomo che sfrutta la materia per mettersi in contatto con lo
spirito della natura.
Tutto ciò
contrasta e stride con le frenetiche immagini metropolitane che caratterizzano
la sezione centrale dell’opera, esattamente come avvenne nella parte centrale
di Koyaanisqatsi. Ma sé là il regista finisce con il creare un ibrido di
estrema ambizione filosofica, qui è una ben più umile immersione nei diversi
ambienti che aiuta Fricke a liberarsi da una certa presunzione in favore di una
semplice proposta di stili di vita differenti dal nostro…
…Time-lapse photography can be dismissed as a gimmick, but for me
it's something more than that. It's a visual demonstration of how fleeting life
is. Of how the decisions that seem momentous on our time scale are flickering
instants in the life of the planet, too small to be observed except on the
minute scale of human life.
Somehow the technique makes the earth and its inhabitants seem
touchingly fragile.
Against this fragility, man has raised the bulwark of religion, and
Frick's cameras show us man in the act of worship, from the Pope in St. Paul's
to rabbis at the Wailing Wall, from monks in ancient temples to an
extraordinary tribe of chanters who lean this way and that in time to their
prayer, waving their arms like trees tossed in a storm, led by a man who seems
immensely pleased to be in the center of such ecstasy…
BARAKA is the Sufi word
for "blessing". In 1992, director Ron Fricke tried to do something
that few filmmakers have ever done: produce a movie that generally has no
distinct plot, only a series of beautifully filmed sequences set across the
globe. Shown in 70mm large-format venues, the film's set of beautiful images
combined with the hypnotic score by Michael Stearns could have been sleep-inducing
if done wrong, but Fricke has really succeeded due to not only his
cinematography, but editing.
Fricke is not only the director, but the
cinematographer. Traveling to places that are still wild and not overshadowed
by civilization, we are lead into the middle of tribes to watch their daily
lives or into the middle of mountainous areas to watch the beauty of the
scenery. Many will be frustrated by the film's lack of narration, as many are
likely used to the popular IMAX-style of filmmaking that offers a
near-consistent discussion of what we're seeing. Fricke's images flow smoothly
from one location to another, gradually heading towards busier sequences like
one where baby chicks are sorted as they roll down a conveyor belt, looking as
if they're not entirely pleased with their current situation. These sequences
are intercut with people trying to squeeze themselves into a subway train.
The obvious message behind "Baraka" is
not only that we must take care of our planet and that we are all humans;
rather than focusing on our differences, we should appreciate each other. The
film's lack of narration actually helps; with the film's masterful editing, the
images still manage to deliver the message in a delicate and effective way.
It's a gorgeous and visually stunning film which will hopefully enjoy a
re-release in large-format theaters sometime soon.
…Ce n’est pas parce qu’il est
« non-verbal » qu’un film ne raconte rien. Ce n’est pas parce que les
péripéties classiques ne surviennent jamais qu’il ne se passe rien.Ron Fricke, chef opérateur
surdoué, créa avecBarakaune sorte de pont entre le cinéma
expérimental contemplatif et un cinéma plus conventionnel. Ce n’est pas pour
rien queGeorge Lucasfit appel à ses services pour quelques
plans deStar Wars
épisode III.Barakapeut même être considéré comme un
grand film sur la foi en le cinéma. D’ailleurs, il s’ouvre sur toute une série
de plans de croyants. De tous horizons, leur ferveur religieuse dépasse le type
de divinité célébrée. Juifs, bouddhistes, animistes, tous, au fil des plans,
construisent une seule et même puissance introspective.Barakaparle avant tout de foi : celle
en l’Homme, en la nature, en la beauté du quotidien. Le silence est d’or, pas
la moindre parole ne sera échangée. Tout juste a-t-on droit au rituel Kecak où
le geste et la coordination des chants rappellent le ballet et l’opéra.
D’ailleurs, plus qu’un rituel, c’est une histoire de chasse au démon que
racontent ces habitants de Java. Si leurs chants nous demeurent
incompréhensibles, la puissance crescendo de la traque ne peut échapper à la
caméra deFrickequi fait de cette tradition hindouiste
un spectacle merveilleux…
la Gran Bretagna ha anticipato il Welfare (qui lo racconta Ken Loach), e anche la fine del Welfare il Welfare inizia come una grande primavera politica, lotte, unione, speranze, sol dell'avvenire, e termina per via burocratica, senza più lotte, in triste solitudine. nel film due solitudini s'incontrano e nasce una solidarietà. sono passati i tempi dei diritti, è arrivata l'epoca della carità, mala tempora currunt (si soffre per le pene dei ricchi, come cantano quiEnzo Jannacci e Dario Fo), Ken Loach racconta storie di gente in carne e ossa, non teoremi, poi ciascuno decide se fermarsi al caso e commuoversi o pensare anche che quello è un caso fra molti, e che quello è cinema politico (come i film degli altri, d'altronde, solo che non lo dicono), si scelga a piacere. non perdetevelo - Ismaele
…La regia di Ken Loach è eccezionale, perché lo
spettatore non la percepisce.Si
è dentro alle vite dei protagonisti di Io, Daniel Blake in punta di piedi; si ha l’impressione di essere con loro in ogni momento, in
bilico fra il volerne prendere la mano e la paura di disturbare Katie nel
lettone che rassicura la figlia Daisy o Daniel, che in silenzio guarda che cosa
poter mai vendere dei suoi ricordi di una vita, in attesa che il sussidio
arrivi. La delicatezza della macchina da presa del regista britannico si fa
spazio nelle anime di questi ultimi d’Occidente senza morbosità, senza rumore.
Nessun piagnisteo, nessuna lagna, solo la forza e la dignità di gente perbene
che continua a lottare a viso alto per un posto nel mondo, per i propri
sacrosanti diritti. Loach non cerca mai lo squallore, non c’è traccia
dell’usuale compiacimento nel contemplare “i poveri” che hanno alcuni registi.
L’immersione rarefatta e costante che lo spettatore vive grazie a questo film
non è mai un pugno nello stomaco, piuttosto è un attivatore di coscienza…
…Quando però il messaggio e l’ideologia li nasconde molto
bene, come sa fare lui, in microstorie di gente qualunque e ne fa narrazione
pura, allora giù il cappello, e massimo rispetto.Io, Daniel Blake è uno dei suoi esemplari racconti di
gente sconfitta che però mai deflette, mai si piega, mai rinuncia alla dignità
e a quello in cui crede. Sì, i famosi e oggi innominabili valori. Commovente,
anche. E ricordo a Cannes i molti kleenex usati, ed erano lacrime di destra e
di sinistra perché il vecchio Ken sa come arrivare dritto a cuore e alle
viscere di tutti. VeroIo, Daniel Blake è esemplarissimo, troppo esemplare, un film che
ci vuole istruire e coinvolgere nella triste sorte di un signore ultracinquantenne
che con fatica dopo un infarto cerca di risalire…
…Due
sconfitti, che tutto subiscono senza però mai perdere la dignità. Perché questo
è il miracolo del cinema di Ken Loach. Sarà veteroideologico, sarà un vecchio
socialista fuori tempo massimo, ma ha il dono di saper raccontare la gente con
rispetto, e di farcela amare. Un tocco che aveva Vittorio De Sica, che hanno
Ermanno Olmi e i Dardenne, e pochi, pochissimi altri. Cascan le braccia in
certi momenti diIo, Daniel Blake, sbuffi nel vedere come il poveretto sia
bersaglio di troppe sfighe, una via l’altra, in una via crucis che sta lì
didascalicamente a denunciare la malvagità del capitale. Ma, come di fronte al
pensionato Umberto D. che per vergogna manda il cane a chieder l’elemosina con
il cappello in bocca, poi ci si commuove e si piange anche per Daniel Blake. da qui
…Ken Loach e Daniel Blake,
con cui, se non tutto il suo corpus cinematografico possiamo identificare
l’idea di un cinema Ideologico , romantico e fuori dal tempo ( “Datemi un pezzo di terra e vi costruirò una casa, ma non sono
nemmeno com’è fatto un computer” dice Daniel con spirito naif
alle insensibili impiegate con la faccia da arpie che gli intimano di seguire
procedure on-line) rimangono imperturbabili, rocciosi baluardi di una visione
che denuncia come dovrebbero andare le cose invece di provare a comprendere
come stanno andando e magari suggerire, anche per contrasto o sottrazione, un
‘alternativa o una scelta differente: rimaniamo nella dicotomia tra
burocrati dotati in gran misura di anonima e indifferente crudeltà e martiri
del proletariato con cui simpatizzare, visto che qui c’è pure una madre sola
con due figli piccoli che vive in una catapecchia, ruba gli assorbenti al
supermarket e si prostituisce per comprare cibo e vestiario alla sua prole, e
nell’immancabile picco melo’ si prende il monito, pur compassionevole, di
Daniel che si finge un cliente per dissuaderla e restituirle la dignità perduta
di donna e di genitore.
Detto questo, non si riesce a provare un reale fastidio
davanti a Daniel/Ken , sarà pure per la scelta molto azzeccata della faccia
sbarazzina e furbetta di Dave Johns, non a caso un comico inglese, che, a
parte forse nel crescendo finale, evita il rischio del patetico o del ruffiano,
puntando maggiormente su un’umanissima e calda empatia.
E si esce dal cinema colmi di tenerezza e anche
gratitudine , di uno sguardo e di un sorriso per tanta nobiltà d’animo, prima
di immergersi nuovamente in una realtà frammentata e disgregante, dove si fa
molta più fatica a pronunciarequellaparola:
IO.
…MaI, Daniel Blake riesce pure a farci ridere, le
battute sono pungenti, sarcastiche, perfette e ci fanno riprendere fiato dopo
scene in cui anche solo uno sguardo, o un gesto, è in grado di metterci a
disagio. Perché la nuova fatica del cineasta britannico è un meraviglioso
calcio nello stomaco che manda in lacrime tutti, indistintamente dalla
nazionalità e dalle storie alle spalle. Impossibile rimanere insensibili
difronte a una persona (un magnificoDave
Johns) che fotogramma dopo fotogramma è destinata all’elisione; impossibile non
rendersi conto che la società in cui viviamo sta subendo una involuzione e
accetta con disinvoltura la propria disumanizzazione in nome di un fantomatico
“progresso”; impossibile non notare che sullo schermo ci sono persone non
troppo diverse dai nostri vicini di casa, ci sono i figli della crisi economica
degli ultimi anni, c’è il nostro scricchiolante e sempre più imperfetto mondo che
va a rotoli.
…Loach acentúa la gravedad de la ausencia de
respuestas colectivas y organizadas de los trabajadores frente a la avalancha
de injusticias lacerantes de la que somos testigos a diario por un régimen
despótico. El director no busca que empaticemos con sus personajes, sino que
nos apiademos de ellos, que simpaticemos con su causa y volvamos a unirnos,
como hemos demostrado que podemos hacerlo, para vencer a las grandes
adversidades de nuestros tiempos. Se trata de recuperar los derechos sociales y
laborales básicos, conseguidos a lo largo de décadas de lucha y decenas de
víctimas, mártires como los de Chicago a los que hoy sólo recordamos por tener
un día festivo más en el calendario. Es imprescindible que se elimine el
estigma del profeta solitario, del personaje aislado en busca de un fin
perdido; debemos evitar reír las gracias a quienes llaman a este tipo de
historias batallitas de viejo senil, o a quienes disfrazan de caricaturesco Don
Quijote a personas que se dejan la piel por una buena causa general, porque
haciendo esto, Ken Loach nos dice que estamos dando la razón al que sólo busca
el beneficio individualizado, la privatización y la supresión de la clase
media. Este filme está destinado al público desligado del problema, aquél que
tiene la última palabra y puede poner voz a los verdaderos héroes. Héroes que
ni tan siquiera se han enterado de que aparecen en una película, porque ellos
no van al cine. Así que volvamos al término inicial, el de resistencia, para
mantenernos unidos en una oposición ética y política que nos lleve a una
colectividad capaz de construir una defensa eficaz frente al avance neoliberal.
La perseverancia y la tenacidad de este director por encontrar justicia para el
pueblo sólo podía quedar recompensada con tres palabras: Palma de Oro.
…anche conIo,
Daniel Blake il
cinema di Loach fa meno danni di altri autori. Ma non significa che non ne
faccia. La colpa maggiore è avere privato Daniel Blake di quello spirito
autenticamente ribelle diIl
mio amico Erice
soprattuttoLa
parte degli angeli. Che si vede solo in uno slancio, la scritta sul
muro con lo spray.L’unico
sussulto di una disperazione che diventa visione-spettacolo. Quello di un
cinema politico che cerca il suo pubblico per essere applaudito. Il cineasta mostra la rivolta solo
come un teorema (come spesso ha fatto nei suoi film). Le pietre hanno al
momento smesso di piovere e gli angeli non volano più.
… Ken Loach et son scénariste, Paul Laverty, ont
déjà été plus (et mieux) inspirés. Plus fins aussi. Au film de son
développement, le film perd inexorabement sa propre énergie. Pourtant le
cinéaste nous fond d’emblée au désarroi de son protagoniste avec une note
d’humour délectable. D’abord au centre de son attention, le combat de Daniel
Blake est ensuite parasité par celui de Rachel nous donnant l’impression que le
réalisateur mélange sans y parvenir deux lignes narratives et autant de points
de vue. Les réalités de Daniel et de Rachel se répondent-elles en miroir que
leur rencontre, aussi humaine soit-elle, semble réécrite au fil d’un montage
dont la temporalité est trouble. La démonstration pêche par son caractère
didatique et épuise autant qu’elle s’épuise, malgré l’interprétation
vérisimilaire d’un casting séduisant.
inizia in classe e finisce in classe, in mezzo succedono cose terribili, in Bulgaria. Nadhzeda è una professoressa d'inglese in una scuola di un paesetto di campagna e deve combattere per insegnare l'inglese (e altre cosette come l'onestà ai suoi giovani studenti, e studentesse). i casi della vita, un marito non proprio perfetto, il capitalismo rampante, bancomat asciutti, strozzini di merda, come dappertutto, trasformano un film normale in un pericolosa discesa verso l'abisso, quasi in un film dell'orrore, con sorpresa finale. la protagonista, Margita Gosheva, è bravissima. nessuno si pentirà di averlo visto, promesso - Ismaele
…“La lección”
posee una estructura argumental y un ritmo magistrales. El orden de los
acontecimientos está minuciosamente articulado. La primera escena expone la
moral social de la protagonista en su máxima expresión: han robado la cartera
de una alumna suya y trata de averiguar quién ha sido el ladrón. Esa pequeña
historia, que abre y cierra la película, sirve para trazar la evolución del
personaje principal y al mismo tiempo para darle un sentido completo a“La lección”. La
trama principal consiste en la búsqueda de dinero para poder pagar las deudas
con el banco; de lo contrario perderá su casa, donde vive con su marido y su
hija. Esa búsqueda se convierte en frenética ya que Nadhzeda tiene que
encontrar, prácticamente céntimo a céntimo y en un corto periodo de tiempo
(tres días) , la cifra que le librará de la subasta de su casa. Hay un momento
de la película donde la angustia que siente el personaje se transmite a las mil
maravillas al espectador, debido a las barreras que tiene que ir sorteando el
personaje y también, en mayor medida, a la impotencia y a la desesperación que
produce su firme rigidez moral…
…La lecciónes un drama social que se
desarrolla a contrarreloj, siguiendo el esquema narrativo y el ritmo dethriller, de películas comoLa mujer del chatarrero, La
muerte del señor Lazarescu, Dos días, una noche, o de la también
moderna y fundacionalCleo
de 5 a 7(Agnès
Varda, 1962), y en la que el estilo se adapta a la transpiración de Nade a
través de la cámara al hombro, los planos cortos y un enfoque selectivo que
aísla al personaje del entorno, y también al espectador, y que luce
especialmente en los planos que se desarrollan dentro de la escuela, toda vez
que en el exterior predomina esa atmósfera de colores fríos e iluminación
difusa pergeñada por el director de foto Krum Rodríguez (DoP deViktoria, otra de las
películas representativas del nuevo cine búlgaro).
Aunque rehúye
del psicologismo y apuesta más por la fisicidad, no esLa lecciónuna película autista en lo
circunstancial. En la peripecia de Nade por salvaguardar la precaria morada en
la que habitan ella y su familia late una profunda crítica a la política
neoliberal, a esa Europa de dos velocidades en la que se impone la
sobreexplotación, el pluriempleo, lo especulativo y la corrupción. Personajes
como el del evasivo editor, el lujurioso y acomodado padre o el del usurero y
extorsionista dan fe de ello. Con hallazgos sorprendentes y algún que otro giro
precipitado también, el guión sigue a Nade en su atribulado descenso a las
cloacas morales de ese universo familiar y social. Más que la supervivencia de
su núcleo más próximo, entra en juego su orgullo y honestidad, por la misma
razón que Nade se niega a dar su brazo a torcer hasta descubrir al ladrón de la
clase, y poderle dar así una lección…
… . Es una cinta severa que busca incomodar
al público, sin edulcorar la aflicción ni la ternura de una madre que intenta
salvar a su hija de la miseria. No es cine para el esparcimiento (aunque hay
una tensión y una intriga nada desdeñables); pero tampoco es el de la
desventura gratuita. Sin duda, una oportunidad de oro para acercarse al
(castigado) cine de la sombría vertiente levantina del viejo continente en general
y al búlgaro en particular, que desde 2010 ha visto reducido el apoyo del
gobierno a siete largometrajes por ejercicio.
…Se a tratti il modello sembra essere un “cinéma vérité” alla maniera
dei fratelli Dardenne, l’applicazione di simili schemi concede troppo
all’ulteriore drammatizzazione di un quadro già piuttosto problematico, poco
all’esplorazione più coerente dei meccanismi che hanno creato tale problema.
Intendiamoci, la ricerca disperata di quel denaro che per Nadežda, la
protagonista, vuol dire esattamente questo, risolvere i problemi con la banca e
salvare la propria casa, possiede di suo una suspance che tiene sulle corde lo
spettatore fino alla fine. Ma questo bonus emozionale viene giocato in malo
modo. Contrariamente ai personaggi di certo cinema francese politicamente
impegnato (mettiamoci pure l’eccelso Guédiguian, a questo punto), la nostra
Nadežda non appare del tutto con le spalle al muro. Il suo rifiutare un aiuto
economico da figure che la potrebbero sostenere, ma che lei critica sul piano
della condotta personale, morale (essenzialmente il padre, messosi con una
donna molto più giovane), falsa e non di poco il discorso, lasciando che certi
dialoghi famigliari scadano al livello di un’insulsa sit-com. Davvero un
peccato. Perché procedendo in questo modo il film mantiene viva una certa
curiosità per l’esito finale della vicenda, ma riduce notevolmente il livello
dell’empatia, nei confronti di una protagonista le cui decisioni da un certo
punto in poi possono apparire eccessivamente brusche, nonché evitabili e in fin
dei conti poco motivate.
mi è venuto in mente Camino, in tutte le recensioni su Kreuzwegsi citano diversi film, mai Camino, o l'ho visto solo io, o il legame fra i due film non esiste; credo che l'abbiamo visto davvero in pochi. Kreuzweg è un film coraggioso, e rigoroso. non c'è niente da ridere, in un film e in una religione che richiede sacrifici umani, di bambini, tra l'altro. Maria è una ragazzina ostaggio di convinzioni del suo ambiente, famiglia e chiesa, il diavolo è fra noi, molta musica è diabolica, non si parla con i compagni, siamo soldati di Cristo, senza se e senza ma, con la pesantezza di un carro armato, magari anche la bicicletta è un'arma del diavolo. se questo film non ti colpisce, o sei lefevriano, o ti sei addormentato, o sei morto. meno male che quel dio della bibbia non esiste, esiste chi crede, e che di questa credenza fa business, di soldi e di anime. buona visione - Ismaele
…Il rigore della regia è assoluto e convincente, Brüggemann sa
quel che vuole e si rivela regista di alto valore, perché ogni regia dovrebbe
esser mossa da una scelta e dalla coerenza nell’applicarla e queste sono
qualità molto rare. A tratti fa pensare a Bresson e ai nordici più
“protestanti”. Sa costruire una storia quasi per atti unici drammaturgicamente
autosufficienti, e ciascuno di un’intensità e di una pregnanza inusitate, ha
un’idea di cinema non compiacente che invita insieme più alla riflessione che
all’identificazione. Sa comunicare allo spettatore la tensione intima di Maria,
che è spirituale più che sociale o culturale. Ma, come in un bel film di
qualche anno fa,Lourdesdell’austriaca
Jessica Hausner,Kreuzwegtermina
con il dubbio, nella giusta esigenza di rispettare chi ha la fede: è certo che
Maria muore perché vittima di un’educazione intransigente e crudele (il giovane
prete e sua madre sono figure antipatiche, anzi odiose), ma nel momento in cui
muore il fratellino parla. Il suo sacrificio ha prodotto un miracolo? Si resta
nel dubbio, e gli autori non scelgono fino in fondo la loro parte…
…Il cinema ci ha raccontato molto spesso percorsi di santità
laica, cioè donne (meno di frequente uomini) che senza alcun interesse o spunto
religioso decidono di intraprendere un percorso faticoso, immolandosi in
maniere non diverse da quelle tipiche dei martiri poi diventati santi, in una sorta
di purificazione laica del proprio animo che è sempre contigua in maniera
interessante a quella religiosa. Dietrich Brüggemann compie il percorso opposto
e mostra apertamente quel brandello di vita della protagonista di cui si occupa
il film come un vero e proprio percorso di santificazione religioso, con
l'obiettivo dichiarato fin dalla caratterizzazione bigotta della famiglia di
smontare tutto questo, salvo poi tirare un ultimo beffardo calcio nel finale. Station of the crossnon lascia nulla intentato e sembra voler spiazzare lo
spettatore ad ogni svolta (o ad ogni stazione) e, mentre lo conduce su un
percorso di deduzione dei valori in campo abbastanza semplice (lo capiamo
immediatamente, fin dalla prima stazione, chi è la vittima, chi il carnefice e
chi l'aiutante), non rinuncia ad instillare dubbi e complicare la questione.
Perchè se qualcosa ci dice sul cinema questo film colmo di insofferenza per la
religione, è che esso non deve essere come la fede, non deve vivere di dogmi e
non deve convincere nessuno delle proprie tesi; il regista non è un prete che
evangelizza le proprie tesi ma un uomo che racconta storie con l'obiettivo di
mettere in crisi (quindi far riflettere lo spettatore)…
…Deviata
da un’educazione bigotta cattolica la bambina al centro della storia desidera
essere rigorosa, ha interiorizzato i precetti e li vuole eseguire alla lettera
per aiutare il fratello malato. Tutta la forza d iKreuzwegsta nella maniera minimale, controllata
e molto precisa con la quale la situazione sfugge sempre più di mano.
Se vi siete mai chiesti a cosa serva e
che radici o motivazioni abbia lo stile rarefatto e lento delcinema più autorialeKreuzwegè la risposta. Controllando tuttoBruggemanrealizza
effettivamente dei quadri, delle immagini in cui la composizione è al limite
della perfezione tra estetica e funzionalità, tra montaggio interno (l’entrata
e uscita dei protagonisti e il loro movimento nell’inquadratura) e scelte
visive. Il tono dimesso della recitazione e il ritmo frenato sono la maniera
migliore per entrare in una storia che è difficile da comprendere e frustrante
da seguire. Quello raccontato infatti è un martirio che una persona infligge a
se stessa per instradarsi su un impossibile percorso di santità maBruggeman lo fa senza un odio eccessivo o un punto di
vista di condanna per la religione (tanto che inserisce anche personaggi dal
credo più morbido)…
…Kreuzweg – Le stazioni della fedeè un film dove il “credere” che fonda ogni religione e
ideologia genera uomini-mostri, i quali, convinti di intraprendere la più retta
delle vie, in realtà la smarriscono irrimediabilmente fino a toccare l’esatto
opposto della fede più sentita.
Ma non solo.Kreuzweg – Le stazioni della
fedeci interroga
anche su come nasce un santo, su chi può essere considerato tale e chi no. È
santo colui che sacrifica la propria vita anche se Dio non gliel’ha chiesto? È
santo chi, pensando di fare il volere di Dio, in realtà sta solo facendo il
proprio, verso una liberazione che non è salvezza? Ecco quindi che il
fondamentalismo, invece di innalzare, conduce al peccato, la fede non libera ma
incatena, succubi di un Dio che non è più Padre ma Padre padrone.
…Ovvio cheKreuzweg – Le stazioni della fede è
un film completamento permeato da uno spirito anticlericale, ma il trattamento
della questione non è mai solamente accusatorio, e, nonostante il funesto esito
della vicenda, che non sveliamo, non sono pochi i dubbi che sorgono nello
spettatore, che, se non viene mosso da un semplicistico spirito
laico-progressista, è convocato a fare i conti con degli argomenti su cui non
può non tornare ad interrogarsi, perché se è vero che non ci può immolare a un
Dio fantasmatico e spesso assente, altrettanto disdicevole è smarrirsi nella
vacua fluidità della società liquida contemporanea, inseguendo gli spettri
degli ultimi scampoli di benessere rimasti. Un film in controtendenza dunque,
che, pur denunciando l’eccesso religioso di una comunità, stimola non poche
riflessioni su come interpretare i nostri tempi, privati di quella inesauribile
riserva di senso che certe pratiche, pur erroneamente, paiono ripristinare,
fornendo un illusorio barlume di speranza a chi brancola da tempo nel buio. Nel
panorama dell’offerta cinematografica attuale, dunque, questo film si
distingue, diciamolo pure, come un raggio di sole nell’oscurità, e di questa
preziosa opportunità bisogna dare merito al distributore,Satine Film, che sta portando avanti una politica
culturale davvero degna di lode. Caldamente consigliata, ovviamente, la
visione…
…Lo
straordinario di questo film è che prende sul serio Maria e la sua aspirazione
a un personale calvario, non la liquida trivialmente come una matta da legare,
ce la racconta sospendendo ogni giudizio e standole invece vicino e facendocela
amare. E anche se il regista (pure autore della sceneggiatura insieme alla
sorella Anna, che pare abbia sperimentato un’educazione simile) ci mostra la
durezza iper rigorista del contesto familiare e soprattutto della madre, si
astiene da ogni rozza polemica antireligiosa…
…La fissità della narrazione
rimanda alla fissità della morte. Pochi i movimenti dei personaggi all’interno
dei quattordici quadri. Esternamente la macchina da presa si muove la prima
volta dopo un’ora e tredici minuti. Eppure l’intensità drammatica aumenta ad
ogni pagina che si gira e ad ogni quadro che si esaurisce.Cresce un po’ alla volta la “pietas” del regista e dello spettatore verso
questa quattordicenne indifesa, che, in preparazione alla Cresima, decide di
“immolare” la sua vita per raggiungere Nostro Signore in paradiso.
Quello che è davvero inquietante in questo film è che la causa della
morte è la fede cattolica. Una fede ossessionata dal peccato e dal demonio,
implacabile verso i sentimenti, insensibile alle fragilità, senza nessuna
misericordia, votata al sacrificio e all’autopunizione.Questa Chiesa è una specie di sètta giansenista,
anoressica all’amore e alla vita, che odia la musica moderna come fosse
il diavolo.
Dietrich Brüggemann traccia il ritratto di una Chiesa cattolica che non
esiste più, se non nella sua mente.Tira fuori della soffitta una Chiesa incartapecorita e
arteriosclerotica, che non ha riscontro nella realtà di oggi. Una Chiesa che
vive la sindrome dell’accerchiamento e che continua ad adoperare la lingua
latina come una barriera contro le ondate furibonde del male…
come a volte succede il titolo italiano è fedele a quello originale allo 0%. e però il film non è male, una storia di scuola dove i reietti emergono e riescono a fare qualcosa di inimmaginabile, per tutti. il film è in certi momenti retorico, ma ci sta. bravi gli attori studenti, e anche Ariane Ascaride, ma di lei si sapeva. non resterà nella storia del cinema, ma una visione ci sta tutta, senza rimpianti - Ismaele
…En la película hay muchos temas complejos y muchos
personajes que hablan de ellos con voces sinceras. Y, sin embargo, nada parece
escaso. En 105 minutos transcurre todo un curso académico, que en realidad
parece toda una vida (y que vuelve a empezar en la magnífica secuencia con la
que se cierra el filme), y han sucedido tantas cosas a tantos personajes
diferentes que da la impresión de haberles conocido más profundamente de lo que
en realidad hemos visto. Esa es la maravillosa labor que hacen su directora,
que con muy poco cuenta muchísimo. Eso hace que la película sea espléndida. Sus
mensajes, además, son inspiradores. Habla del trabajo en equipo, de la
integración, del respeto al diferente, de la empatía, de los sueños y de la
enorme capacidad que casi todos llevamos dentro para llegar lo más lejos
posible. Y sale triunfante por su sinceridad. Casi nada.
…il titolo
originale Les Héritierstiene proprio conto di questa funzione
di raccolta della memoria storica dei fatti in questione, tant’è che in
un’emozionante sequenza assistiamo all’intervento di un anziano signore che
testimonia della sua sventurata esperienza ad Auschwitz, provocando commozione
nei giovani ascoltatori, i quali per la prima volta dimostrano un sincero
interesse per quelle vicende, inondando di domande l’inatteso ospite. E poi,
torna la questione, molto spesso affrontata dal cinema francese contemporaneo,
della convivenza delle diversità culturali che abbondano nel tessuto sociale,
anzi il concorso che la professoressa propone ai suoi alunni diviene il
collante per tenere insieme armoniosamente quelle differenze che tanto spesso
degenerano in conflitto. Ma il tema del multiculturalismo meriterebbe una
trattazione a parte, nella misura in cui si rivela troppo spesso essere
un’invenzione nominalistica per promuovere, attraverso l’elogio della
differenza, uno sfruttamento indiscriminato dei soggetti interessati. Insomma
non basta la laicità dello stato per gestire una faccenda che culturale in
realtà non è, ma in ultima analisi ascrivibile alla sempre operativa legge dei
rapporti di produzione.
Una volta nella vitaè un buon film e, nonostante scivoli talvolta in qualche
patetismo per fare breccia sull’emotività dello spettatore, fornisce, per i
motivi sopra elencati, l’occasione per tornare a meditare sulla Storia e
soprattutto sul rapporto che intratteniamo con essa. Da vedere.
Una volta nella vita ha due compiti: da una parte è un film sugli orrori dell’Olocausto che deve “ricordare
e spaventare”, dall’altra è un film sullo statuto della scuola e quindi deve “raccontare
la società contemporanea”. Incredibilmente non riesce a portare a termine
nessuno dei due. Attraverso la metafora della classe e delle interazioni tra
ragazzi si racconta come di consueto cosa sia la nuova Francia, un’unità
multirazziale in cui a confliggere non sono più le etnie e i colori ma le
religioni (che da questi sono indipendenti). I ragazzi sono le antenne che
recepiscono e ripetono i segnali della società dei genitori, i conflitti delle
loro famiglie e quindi della nazione. Dalla loro situazione e dai loro problemi
poi si parte per andare a finire nel mondo dell’Olocausto.
I compiti di questo genere di film sono
di “non dimenticare” andando a ribadire ciò che gli altri film hanno già
spiegato, in questo caso lo si fa attraverso il racconto di alcuni ragazzi che
apprendono essi stessi i veri orrori nazisti per una ricerca finalizzata ad un
concorso nazionale, una che li unirà da che erano un gruppo allo sbando. Ma
come al solito è tutto troppo dolce, tutto troppo favolistico, edulcorato e
manicheo per poter essere anche duro e realista come si vorrebbe…
…Appesantito inizialmente da un
prologo a tesi sul muro contro muro tra la legge francese e l'identità
culturale in materia di velo sul capo delle donne, con il tramite tenero e
serio allo stesso tempo di una grande attrice, Ariane Ascaride,Una volta nella vitadiventa in corso d'opera un film più
che riuscito, anche perché perfettamente adeguato alle ambizioni di partenza.
C'è un momento preciso che decreta la vittoria del film sul rischio di
scivolare nel cliché, ed è il momento in cui l'ex deportato Léon Ziguel parla
al gruppo di attori e comparse, tutti studenti. In quel momento, girato per
forza di cose in un'unica ripresa, la finzione che struttura il film e la
realtà storica che lo sostanzia raggiungono la simbiosi e la classe si apre ad
annettere il pubblico tutto, in sala o altrove. La scuola, origine e destinatario ideale di
questo lavoro, è ritratta, con ottimismo e speranza, come il luogo possibile
della trasmissione, non solo del sapere, ma ancor più del saper imparare.
…Determinante per volgere in positivo l’iniziale
disinteresse degli studenti, oltre all’incontro con Ziguel, sicuramente la
volontà e il carisma della professoressa promotrice dell’iniziativa, che nel
film ha l’autorevolezza di un’interprete sensibile come Ariane Ascaride, capace
di dare fiducia ai suoi allievi ponendoli al centro del percorso didattico. Per
raggiungere il suo scopo la regista non abbandona quasi mai le aule
scolastiche, resta sui volti dei giovani interpreti e cerca di rendersi
trasparente. Facilmente attaccabile come buonista (ma è il soggetto stesso ad
esserlo), il film affronta tematiche universali con onestà: il conflitto tra la
libertà di espressione e il principio della laicità, la necessità di mantenere
viva la memoria della Storia in modo da comprendere il passato per vivere con
consapevolezza il presente e il bisogno dei giovanissimi di sentirsi percepiti
come individui. Se gli intenti sono quindi lodevoli e il punto di vista
prezioso, non mancano però eccessive sottolineature (quei palloncini colorati
in volo a illuminare il grigiore del paesaggio, la signora sull’autobus che non
accetta il posto offerto da una donna musulmana), alcuni stereotipi (la ragazza
più ritrosa che diventa una delle più partecipi, lo studente introverso ai
limiti del mutismo che trova poi modo di dare voce al proprio sentire, in
generale l’equità dei caratteri all’interno della classe) e semplificazioni.
Resta infatti piuttosto brusca, al di là della pacatezza dell’approccio, la
maturazione dei ragazzi, troppo rapidamente in grado di capire l’importanza del
progetto in cui sono coinvolti. Titolo italiano anonimo rispetto all’originaleLes héritiérs, cioè gli
eredi, che va invece dritto all’essenza.
il cinema di Nuri Bilge Ceylan è un po' come quello di Wes Anderson, riconoscibile e un po' a parte, diverso. Le tre scimmie è fatto di silenzi, attese, scelte, rinunce, viltà, prepotenze, convenienze, passività, rancori, privilegi, vendette, e anche dell'assenza di tutto questo. astenersi quelli che "il cinema di Nuri Bilge Ceylan è troppo lento, è noioso, non succede quasi niente, ecc. ecc." per me merita il tempo che gli si dedica - Ismaele
…Cosa colpisce in questo film?
Non la storia, quasi inesistente.
Ceylannon
ama raccontare, nessuno dei suoi film é appagante sotto questo profilo, un modo
coerente, peraltro, con la cifra di fondo del cinema del suo paese.
ConCeylané
facile usare parole sbagliate, parlare di lentezza, noia, banalità di trame.
Piccole eresie, i tempi diCeylansi misurano con il tempo reale, se colpo
di scena interviene a rimuovere il torpore consueto (incidente, adulterio,
omicidio) resta abilmente fuori campo, vediamo quello che vedremmo nella vita
vera, frammenti riflessi in uno specchio.
Eppure non parliamo di
naturalismo per questo cinema, anzi, é quanto di più costruito ci sia, con
quella tecnica di ripresa che punta l’obiettivo a fil di pelle, sudore e pianto
colano sullo schermo, gli occhi, una piega delle labbra, il linguaggio silenzioso
del corpo, tutto é scelta di un autonomo punto di vista e riconoscimento della
dimensione soggettiva, che é propria dell’esperienza personale.
E’performancelirica,
che mentre testimonia progetti, pensieri e tensioni dell’ambiente umano di cui
è partecipe, afferma la propria individuale percezione e interpretazione del
reale.
Il senso del bello é profondo.
Come Mahmut inUzak,Eyut viene lasciato a guardare i
battelli che sembrano immobili, in lunghe file sul Bosforo, mentre un tuono
lontano annuncia pioggia.
…Nessuno riesce a capire chi è, che cosa vuole
e chi ha davanti. Ma tutti -e qui risiede la grandezza sottovalutata da molta
critica- sono belli, luminosi. Perchè hanno un’anima. L’anima è data dalla
solitudine in cui i protagonisti con poca autonomia si interrogano; l’anima è
la connessione-sconnessione nei loro rapporti che il regista scolpisce nella
successione fenomenologica degli attimi in PPP alternati.
In fondo il vero protagonista -come succede ai
registi-autori- è forse Ceylan stesso, è, cioè, il suo stile. Da qui forse
l’accusa da parte di alcuna critica di estetismo. Non c’è estetismo. C’è invece
estetica e necessità. Ceylan compone una tragedia senza tragedia, perché la
prosciuga, la depura da ogni melodramma. Ceylan fa un film realistico ed insieme
simbolico, narrativo e insieme filosofico, un film di rapporti psicologici
senza psicologismi. Non inventa uno stile, è uno stile.
…I
personaggi, poi, appaiono ancor più vuoti del film: la madre, per esempio, fin
troppo arrendevole e pronta a farsi urlare in faccia da chiunque; o il
politico, talmente inetto e inconsistente da rendere non solo non credibile, ma
persino ridicola la scena del litigio con l'amante, esempio perfetto di come
confrontare la bellezza della forma (lo scenario mozzafiato di una scogliera
sotto un cielo burrascoso), con la sciatteria del contenuto (un dialogo
imbarazzante).
A proposito di forma, la fotografia "sporca" e i colori virati
"a seppia" non sono male, ma alla lunga confermano comunque l'idea
che si tratti di un manierismo abbastanza inutile.
Un consiglio: recuperatevi "Uzak", film migliore del regista e
lasciate perdere questa ennesima dimostrazione di chi, come Ceylan, crede che
bastino ancora i silenzi, le pause prolungate, le battute date con quel secondo
in più di ritardo o lo sguardo della macchina da presa buona solo a soffermarsi
troppo sui corpi plastici degli attori per fare cinema "d'autore".
E per favore, lasciamo stare Antonioni.
…como
si estuviésemos en un lienzo de Caspar David Fiedrich, destaca el
protagonismo esencial que dota a los fenómenos atmosféricos en un claro y
arrebatador aliento romántico.
La
película se abre y se cierra con una tormenta y la escena clave del reencuentro
del político y la madre en un espacio abierto, certifica las posibilidades
dramáticas que en él destilan los cielos fuertemente nubosos. Esa escena en la
que están filmados en la lejanía, donde casi solo podemos advertir sus
siluetas, ocupa gran parte del plano un cielo grisáceo y oscuro que se va
poblando de nubes lóbregas. A medida que la discusión va acrecentado en
intensidad, ese cielo que ocupa tres cuartas partes del cuadro, va adueñándose
de forma progresiva de un magma negro por la acumulación de nubes que avecinan
una gran tormenta. Como si estuviésemos ante un renovado Victor Sjöström,
quedamos subyugados por el cautivador poder expresivo que en este film tienen
los preludios de tormentas meteorológicas en consonancia con los estados
anímicos de sus personajes.
…It's a slow
moving and deliberate film with minimal dialogue that dares to try and
intelligently understand such human nature and what leads ordinary people to
deviate so far from the path of what's right. Fascinating stuff if one has the
patience to get into the film's intrigues and somber tragic moments that
sometimes seem too plotted and melodramatic. But when hitting on all cylinders,
it's a film that boils over with provocative cityscapes, subtle black humor,
the banality of evil and the complications that arise from an emotional
situation that can get out of hand.