venerdì 31 luglio 2015

The Keeper of Lost Causes (Kvinden i buret) - Mikkel Nørgaard

la coppia di investigatori è perfetta, almeno quanto quella di True detectives.
la storia non ti fa annoiate neanche un minuto, in un crescendo con pochi paragoni.
Assad, il poliziotto che non parla bene il danese, è il grandissimo protagonista di Jalla Jalla!.
vogliatevi bene, cercate questi poliziotti dei casi morti, in qualunque modo, non potrete che goderne, sono sicuro - Ismaele







…Il regista sfrutta tutti gli strumenti a sua disposizione per confezionare un gran bel thriller che mi fa dimenticare le prove non superate da suoi colleghi nord-europei durante la scorsa stagione cinematografica. Qui l’oscurità è preponderante, a un cupo presente si contrappongono eterei e luminosi ricordi ma, nonostante siamo nella fredda Scandinavia, la luce diviene sempre più calda e avvolgente ogniqualvolta ci si trova in interni, quasi a contrastare il livido paesaggio esterno e a far dimenticare le buie scene forti.
Interessante come la tensione riesca a crescere nonostante gli appassionati del genere possano intuire come volgerà la storia. A questo punto, poco importa, l’intrattenimento ha funzionato e il pubblico appare soddisfatto. La sottoscritta di sicuro lo è, e lo promuove a pieni voti nonostante sia tratto dall’ennesimo best seller, ma forse proprio perché mai letto.

…Il personaggio di Carl e quello di Assad ci sono spiattellati in faccia così, brutalmente, senza troppe spiegazioni e presto prevale questa atmosfera tendente al tetro mutuata dal trauma pregresso che si porta dietro Carl, la tenebra che si porta nel cuore come un macigno è la sua caratteristica principale a cui fa da contrappeso la solarità e la razionalità di Assad che lo guida quando Carl tende a deragliare pericolosamente.
E gli succede piuttosto spesso.
L'altro contrappeso fondamentale di tutta la narrazione è la storia di Merete Lynggard .
Sto sorvolando sul caso di cui si occupano per non rovinare il piacere della visione: in realtà non è un vero e proprio spoiler perché viene tutto mostrato quasi all'inizio del film ma per me è stato un grosso shock e per questo non voglio anticipare nulla

Il caso di Merete Lynggaard, giovane donna scomparsa cinque anni prima, durante una traversata a bordo di un traghetto in compagnia del fratello disturbato, archiviato sbrigativamente come suicidio, non convince Carl, per tutta una serie di piccoli particolari, che porteranno lui ed Assad ad indagare - spesso senza l'autorizzazione dei superiori - per cercare di far luce su quel vecchio caso di cui a nessuno sembra importare più nulla.
Il risultato è un film senza troppi fronzoli (del resto è una co-produzione danese-svedese-tedesca, mica hanno tempo da perdere da quelle parti) che funziona, a partire dalla strana coppia formata da Carl e Assad, di cui sentiremo ancora parlare. Probabilmente non in Italia…

Nikolaj Lie Kaas y Fares Fares ofrecen unas excelentes interpretaciones en sus encarnaciones de la pareja de detectives que, aunque en un principio no comienzan su relación laboral con buen pie, finalmente se apoyan el uno en el otro para sacar adelante el caso. El carácter introvertido y arisco de Mørck contrasta con la positividad de un Assad mucho más receptivo a acoger a su nuevo compañero de investigaciones, por lo que ambos terminan complementándose a la perfección en su trabajo para el polvoriento departamento Q. No puedo evitar que esta pareja protagonista, su choque frontal inicial y la paulatina relación de respeto y cierta camaradería que se establece entre los dos hombres, me recuerde a la de la serie revelación de la HBO en 2014 True Detective. El tono sombrío de la narración y sus ambientes, la necesidad de desenterrar un crimen del pasado que aún tiene repercusión en el presente y la importancia de los tensos interrogatorios por encima de la acción más convencional, son otros elementos que ambas producciones comparten. Jussi Adler-Olsen puede respirar aliviado. La adaptación al cine del primero de los volúmenes de su serial ha sido un éxito, no solo de taquilla, sino también artístico. El filme, técnicamente impecable –fotografía y música brillan a gran altura–, contiene algún que otro momento, como la magnífica secuencia del accidente automovilístico, que se queda grabado fácilmente en la retina del espectador. Da gusto encontrar una muestra de cine negro europeo que ofrezca entretenimiento ágil y de calidad, sin que sobre ni falte nada. Personalmente, no pienso perderme la más que posible secuela.

…While heavily indebted to the new wave of Nordic noir overtaking screens, the tables have been turned ever so slightly in The Keeper of Lost Causes as the buddy cop odd couple seek the truth about their chosen case – not in details, but in focus. Two tweaks from the status quo set the film marginally apart from the masses, even as its narrative remains as perceptible and predictable as ever. Maintaining the structure of the source material, Arcel and Nørgaard reveal Merete’s life in tandem with Carl and Assad’s search, making the tale less a mystery and more an exercise in waiting for the police to catch up with the audience. Though robbing the feature of much of its tension despite obvious bait-and-switch tactics, the approach also serves the main thrust of the movie: establishing the main characters, their unlikely partnership and their against-the-odds area of inquiry…

ôté mise en scène, la construction ressemble à un premier épisode d’une série télé. On comprend vite que cette enquête ne sera pas la dernière. Mais cela ne nous empêche pas d’être totalement pris dans cette enquête. Afin de rajouter de la noirceur au film, les couleurs sont assez sombres et nous plongent totalement dans cette ambiance nordique. Le rythme du film nous emmène dans une tension quasi permanente afin de mieux s’immerger dans l’enquête, comme si nous étions le troisième partenaire. Enfin, la musique assez lugubre nous immergera complètement au sein de cette enquête.
Avec ce film, le réalisateur Mikkel Norgaard réussit à nous plonger dans un polar nordique sombre qui ne fait pas dans la dentelle. Grâce à celui-ci, nous serons comme un troisième homme au sein de cette enquête. Le casting est excellent et joue avec justesse. Tel un Cluedo, Miséricorde est le premier film d’une nouvelle saga portée par un duo original.

giovedì 30 luglio 2015

L’ascesa - Larisa Shepitko

nella neve dell'inverno dei primi anni quaranta, quando i nazisti volevano piegare i russi, Larisa Shepitko gira un film che è un classico, all'altezza di Bresson e di un Dreyer, per dare qualche riferimento, se serve.
una storia di eroismo e tradimento, di coraggio e viltà, quei temi eterni del grande cinema.
cercatelo e guardatelo, non è una passeggiata, i capolavori sono così - Ismaele

ps: Elem Klimov, il marito, gira nel 1985 "Va' e vedi", un capolavoro che sembra una "costola" de L’ascesa.









L’ascesa è un film fulgido e sconvolgente al contempo che vanta una regia perfetta (splendidi i primi piani, che raggiungono un’intensità emozionale ragguardevole). Un’opera meravigliosa, dalle ascendenze dostoevskijane, che rimane impressa in maniera indelebile nella memoria.

Dopo tanti sforzi e attese impazienti la mia curiosità è riuscita ad essere appagata e sono riuscito a registrare da Rai Movie il suo ultimo film L' Ascesa, che tra l'altro uscirà per la prima volta in dvd il 9 Febbraio in Italia di questo mese, prodotto e distribuito dalla General Vision (vedi qui). Film che acquisterò certamente, perchè è uno di quei film che difficilmente si dimenticano. Ho difficoltà anche a scriverne come mi capita spesso con qualcosa di estremamente importante, mi verrebbe di raccontarvi la trama ma non è la storia di questo film che colpisce, ma il modo con cui è raccontata:
I titoli di testa sovrapposti nelle scene d'azione già ci catapultano immediatamente dentro le vite tese di due partigiani russi inseguiti dall'esercito nazisti, ripresi spesso con la mdp a spalla e immersi tra la neve in atmosfere claustrofobiche. Il resto si sviluppa in un inquieto dramma umano: la cattura dei due partigiani russi, i nazisti che li corrompono e una forte resistenza espressa da Sotnikov, uno dei due partigiani, che non accetterà compromessi con la polizia tedesca e che tenterà il martirio, ma inutilmente, cercando di prendersi tutte le accuse degli altri prigionieri. In Sotnikov, si sviluppa una condizione di resistenza spirituale oltre che fisica, come lo evidenzia bene il suo sguardo penetrante e intenso, nella sequenza dell'interrogatorio con il comandante tedesco…

This is the fourth and last film from Russian writer-director Larisa Shepitko ("Heat"/"You and Me "/"Wings"), who died at age 40 in a traffic accident in 1979 while on location filming the ironically titled "Farewell." That film was completed by her acclaimed Russian director husband Elem Klimov. Ascent is based on the novel Sotnikov by Russian writer Vasili Bykov and cowritten with Yuri Klepikov, as they steep the film in heavy religious symbolism that's artistically presented without feeling didactic. Shepitko's chilling and emotionally gripping WWII psychological drama depicts cowards, betrayers, collaborators as well as heroes. The haunting allegorical tale of the Great Patriotic War won the Golden Bear at the 1977 Berlin Film Festival. Many critics consider it the best Soviet film of the decade…

… Given that The Ascent  is a product of the USSR, the decision to look back on the horrific experience of Belarusian citizens under German occupation in World War II makes sense. Such a setting for the narrative provided Shepitko a perfect opportunity to critique the similarly brutal oppression practiced by the Soviet regime over the decades following the Great Patriotic War (as it’s referred to in Russia).
By incorporating her back-handed swipes at the corrupted power structure of her own day in a heroic and historically unimpeachable demonstration of the suffering endured at the hands of a despised conquering army, Shepitko was able to present the story, along with its obvious infusion of Christian mysticism, without much interference from censors…

Shepitko only finished three feature-length films, one of which is still mostly unavailable, before she died in a car crash at age 41.  She is still mostly unknown in the west, but thanks to Criterion, we can at least appreciate the work that she did complete.  Certainly The Ascent is a film that absolutely worth watching.  Far more worth watching than most of the films that the Academy nominated instead of it.

…Survival and sacrifice are at the forefront of Larisa Shepitko’s harrowing World War II drama The Ascent – only fitting since the film, at once simple, at the next complex, is ultimately an allegorical portrait of Christ and Judas in a world turned topsy-turvy by the senseless strife and slaughter during the German invasion and occupation of Belarus. That notion of faith, extracted as it is from the New Testament and applied to such issues as love and betrayal of country are completely at home within the context and backdrop so vividly and evocatively portrayed…

mercoledì 29 luglio 2015

Air doll – Hirokazu Koreeda

inizi a vederlo un po' così, poi ogni minuto che passa non vorresti che finisse più, ti affezioni a quella bambola che prende vita, come le marionette di Pasolini, come Charlie (qui).
come parlare di un film così senza vederlo?
e che bello poi l'omaggio al cinema e ai grandi registi, alla vita, ah, straziante meravigliosa bellezza del creato, all'amicizia, e poi si muore, soli.
vogliatevi bene, conoscete Nozomi, conoscerete il soffio della vita. 
un film unico, a parte, come spesso sono i film di Koreeda, e questo è un piccolo capolavoro, cercatelo! - Ismaele









Air Doll è un film che suscita un maelstrom di emozioni contrastanti: è tenero, buffo all'inizio, romantico, diventa un malinconico apologo sulla solitudine, fino ad un finale con accenti horror eppure commovente. Impossibile descrivere la ricchezza di sfumature della parte finale di questo film.
Il film è tratto da un manga eppure difficilmente si riescono a reperire altrove notazioni così puntuali sugli aspetti negativi della vita nella società alienante di oggi, in cui tutti o quasi cercano di prevaricare gli altri in una corsa senza freni. Un tema comune anche a molti altri film nipponici.
Da sottolineare anche i pregi formali del film: la macchina da presa di Koreeda si affida spesso a lunghi piani sequenza, a lunghe scene in cui domina il silenzio, a piccoli movimenti di macchina. Eccellente anche la fotografia che evidenzia i colori caldi quasi a voler contrastare con la metropoli disumanizzante in cui si muovono i protagonisti
Ritornando all'inizio possiamo quindi dire che Air Doll sia una favola? 
Non è così facile rispondere a questa domanda perchè le favole di solito contengono sia un lieto fine che una morale semplice semplice da poter essere compresa con facilità. Qui la morale sembra quella che ogni tanto bisogna guardare anche agli altri e non solo a se stessi, il lieto fine... beh quello non c'è, almeno non il classico "e vissero tutti felici e contenti".
Anche se c'è la sensazione che nel finale quando si passano velocemente in rassegna tutti i personaggi che hanno sfiorato la vita della bambola e che lei ha conosciuto, ebbene sembra quasi che la luce della speranza possa arrivare ad illuminare le loro vite.

…La película deja escenas para la memoria: los tres primeros planos que sitúan la historia certeramente, Nozomi sacando la mano por la ventana para sentir las gotas de lluvia, el chico insuflándole aire cuando se corta, la visita a su creador como si se tratara de una replicante de Blade Runner, el momento bergmaniano que pone su mano en la frente del viejo moribundo… Instantes captados con gran belleza, y con la ayuda excepcional del director de fotografía taiwanés Mark Ping-Bing Lee, a quien también se deben las estilizadas imágenes de Deseando amar. El cine de Kore-eda es un oasis en el degradado panorama del cinematógrafo actual, un fulgor de otros tiempos, cuando el cine era cine.
la película debe buena parte de su fortuna a su actriz principal que sabe flexibilizar la técnica del mimo para dar cuerpo a una muñeca. Su expresividad ajustada encaja en la sobriedad expositiva de Kore-eda y hay pequeños instantes donde la película se eleva del nivel del suelo (por ejemplo, la gota de agua que le da vida al inicio del film o esa idea de que necesitamos del otro para llenarnos de vida), celebrándose una primera mitad que consigue darnos esa sensación de liviandad, tal como si estuviésemos solo llenos de brisa, en símil comparación a Nozomi. Una cámara ligera que suele moverse de forma grácil, a través de panorámicas horizontales y travellings laterales, acompaña esa sensación que Nozomisintetiza mediante el poema que recita. Pero el efecto gaseoso se agota llegado a su segunda mitad y la glorificación poética se pierde. Una vez que la protagonista consigue su completa libertad, la película no mantiene su poder espumoso ya que se vuelve excesivamente errática, al tratar de cerrar trazos secundarios que posiblemente no lo necesitaban. De forma un tanto extraña, nos vamos desinflando antes de tiempo y es que, quizás, no había tanto oxígeno para demasiada extensión.

…La brillantezza delle immagini, i colori tenui, le luci soffuse, il volto dolcissimo e pietrificato di Bae Doona contrastano magnificamente con la cupezza della sceneggiatura, e la studiata, o meglio, perfettamente calibrata lentezza con cui si srotola davanti ai nostri occhi il circolare percorso di questa bambola innocentemente crudele e inconsapevolmente assassina è al tempo stesso ipnotica e perturbante.
Il vuoto di Koreeda è un vuoto prima di tutto corporeo, fisico (la bambola, oggetto inerte e passivo per eccellenza, fatta solo per soddisfare il desiderio sessuale). E’ poi un vuoto morale e esistenziale, il “marito”, preferisce la bambola senz’anima a quella viva e anche il giovane del videonoleggio, che dovrebbe amarla, la tortura. Infine è vuoto di una società, si intravedono ossessione, mania, violenza, anoressia, anche se in secondo piano. Per Nozomi, così la chiamano, una real doll con una vagina di plastica, all’inizio pura, lieve, che si sorprende di ogni piccola cosa, il mondo si trasformerà in un vero inferno. Meglio quindi sarebbe stato rimanere quella che era. Nessuna concessione all’ottimismo, dunque, ma analisi impietosa. L’ingenuità, la bellezza, la meraviglia del mondo e della vita che lei rappresenta, subiranno ben presto uno scadimento inesorabile nel confronto con la malvagità degli esseri che la circondano. Bae do-na è semplicemente splendida, nel suo ruolo forse più complesso e importante…

Una fantasía romántica que explora las complejidades del amor y de la pérdida, de la alegría y el dolor, de la fantasía y la realidad. El aclamado directo Hirokazu Kore-eda es el autor de una historia de amor agridulce que estudia las complejidades y debilidades de la existencia.

…Nella perfezione del gesto che schiude le palpebre di una bambola c’è tutto il senso della creazione. Il soffio donato all’altro dà la vita, la ferita che sanguina toglie il respiro; tutto ciò che si può dire è il frutto dell’esperienza della vista: «sembra che la vita sia fatta in modo tale da non poterla portare avanti da soli. Proprio come non è sufficiente per i fiori avere pistilli e stami. Un insetto o la brezza devono inserire un pistillo in uno stame. La vita, da sola, cerca di compensare a quelle carenze che solo un altro è in grado di colmare». Il bisbiglio della prima parola è identico all’ultimo sibilo: “bellissimo” è il mondo come quel corpo abbandonato negli scarti, testimone muto del meraviglioso nulla assoluto del cielo.
Fare cinema equivale a guardare il mondo per la prima volta, ascoltarlo respirare e regolarne i battiti secondo il lento afflato abissale che lo gonfia e lo amplifica. Come nel recente Cut di Naderi i corpi vivono del “folle amore” per il cinema, così in Air Doll essi si costituiscono nell’immagine rarefatta e la ripetizione di titoli e registi diventa l’espediente essenziale alla vita: Ferrara, Chaplin, Erice, Angelopoulos, Sokurov…, ogni nome un respiro invisibile, ogni film una vitale boccata d’aria…

Pixels - Patrick Jean

lunedì 27 luglio 2015

La prigioniera - Henri-Georges Clouzot

tutti i film di Henri-Georges Clouzot sono bellissimi, non scontati, resti a bocca aperta.
La prigioniera è l'ultimo e sorprende per una storia "malata", un riccone fa delle foto artistiche, e il soggetto (o l'oggetto?) delle foto resta catturato, Josée resta affascinata, stregata, prigioniera.
sono foto che fissano, estraggono, ricercano sogni, desideri, tradimenti, sensi di colpa, liberazioni, il male e il bene, è anche un film psichedelico (siamo nel 1968), Clouzot esplora nuove strade, mai noioso, mai ripetitivo.
in certi momenti è difficile "sostenere" questo film, di sicuro è un film unico, un grande film, provare per credere - Ismaele





Raro. Adorato dai critici più di confine, che in Clouzot vedono un implacabile, mai conciliante e mai riconciliato, narratore-indagatore del Male. Da cui è attratto e sedotto neanche tanto oscuramente, comunicandone anche a noi spettatori il richiamo…


plus que le fond, c'est la forme de La prisonnière qui enthousiasme : tout semble parfait, reposant sur une grande rigueur de construction et montrant une approche très artistique. La soirée de vernissage et l'appartement du galeriste débordent de superbes exemples d'art cinétique et la scène finale du rêve est une merveille d'inventivité . La photographie est très belle et soignée, c'est particulièrement net lors de l'escapade bretonne, le perfectionnisme du réalisateur transparaît constamment. La prisonnière est un très beau film. C'est hélas le dernier film d'Henri-Georges Clouzot.
Commiato "hors categorie" per il regista più controverso del cinema francese. Fin dal titolo "proustiano" è un film in cui riecheggia il clima claustrofobico e morboso tipico dello stile di Clouzot, contrappuntato però dalla ricerca di opzioni tecniche altre, con cui raccontare patologie allora poco dicibili, ma alfine riconducibili alle dinamiche tra i sessi. Variazione originale sul tema del triangolo nel quale l'occhio e la visione hanno parte preponderante. Resta apppiccicato addosso e rimane in mente. Wiener e Terzieff emanano un fascino malato.


Ultima pellicola girata da un regista che raramente fu apprezzato e sostenuto dalla nouvelle vague. In questa storia a tre, con più che evidenti riferimenti al masochismo erotico ed al sadismo sentimentale, Clouzot conclude la propria carriera con un film di vera rottura ed avanguardia dell’immagine ottico-cinetica. A parte tutta la galleria di spettacoli visivi che la mostra raccoglie e rappresenta, l’ossessione per l’immagine e la necessità dello sguardo sono costantemente ripresentati attraverso gli occhi dei protagonisti, che spiano, si cercano, che tradiscono tensione, passione e relazioni che vanno oltre i gesti. Dotato di un ottimo montaggio (per esempio vedasi la prima sessione fotografica con Elizabet Wiener come ospite, in cui foto, scatti, occhio fotografico e corpi, raccontano un crescere d’eccitazione raffinato ma diretto), di un impianto narrativo impegnato principalmente ad indagare l’aspetto contraddittorio dell’amore (attrazione\dolore) attraverso l’immagine del doppio (Stan e Gilbert sono due lati della stessa medaglia) e di una fotografia sublime diretta da Andreas Winding (l’immagine di Stan e Josè sulla scogliera è l’apice della pellicola) La prigioniera è senz’altro uno dei film più forti del regista francese (a più riprese Stan e Josè si rivolgono direttamente alla spettatore, quasi sempre chiamato in causa da provocazioni dell’immagine oltre che dei temi). La prigioniera è anche uno sforzo maschile di indagare l’animo femminile, ma come dice la stessa sceneggiatura “La verità sa di sporco”. Impagabile Laurent Terzieff nel ruolo di Stan. Imperdibile, anche per gli amanti del cinema ridondante di sfarzose costruzioni pop. Tra gli invitati all’inaugurazione della mostra compaiono anche Michel Piccoli, Eddie Costantine e Charles Vanel.

Clouzot leaves behind his usual dark thriller territory and shoots for capturing how much the allure of sexual perversions now replaces love as a way for couples to connect.
It's a beautifully filmed picture and it features a wonderfully rendered final dream scene. It was unfairly passed over by critics at the time, who might have wrongly thought that the old man was merely trying to climb aboard the wave of counter-culture films being released when instead he was showing us the real pain in relationship

With the fragments of Henri-Georges Clouzot's never-completed L'enfer(1964) finally gathered together and released as part of the making-of/unmaking-of documentary Inferno (2009), now seems a good time to revisit Clouzot's last feature, the criminally neglected La prisonnière (1968).
Made at the urging of admirer François Truffaut, this perverse romance utilized many of the pop-art gimmicks and psychedelic visual tricks Clouzot had planned to use in the abortive L'enfer, but in the four years since that project had rolled over and died, nearly taking its director with it, times had changed, and Clouzot's experiments no longer looked as startling as they would have in '64. (Plus, L'enfer would have been a black and white film whose naturalistic style would have been violently ruptured by bursts of hallucinatory color.) In fact, it probably looked as if the old man was straining to be hip and counter-cultural. The film was passed over with a degree of embarrassment.
But what a fascinating film it is!..

.. A sa sortie, "La prisonnière" a subi les foudres des caciques de la critique d’alors, qui n’y a vu que les derniers soubresauts d’un cinéaste aigri et conservateur, un film de vieux con en somme. Dénonçant ouvertement la place de plus en plus importante des médias, le milieu parisianiste de l’art, représentant la femme comme sous des traits fantasmatiques, la critique semble être complètement passée à côté de l’essentiel et s’est attardée sur un premier degré volontairement rentre dedans. 
On pu notamment lire ceci dans une des revues majeures de cinéma : "La Prisonnière" est l'oeuvre d'un metteur en scène bourgeois, horrifié par ce qu'il croît être le mal et tentant de nous assener une morale pontifiante (il y a même la punition finale de la méchante) tout en se donnant des allures de provocateur parce que c'était la mode.Pourtant, le temps faisant son oeuvre, le dernier long-métrage du réalisateur est un grand film, qui plus est purement « Clouzien », si l’on s’astreint à y regarder de plus près. 
Bassesses de l’être humain, ironie mordante, profondeur des personnages, machiavélisme de ses «héros», dénonciation d’un mode de pensée, inventivité dans la mise en scène, tout y est ou presque.
"La prisonnière" se rapprochant d’ailleurs de son «La vérité», autre histoire d’amour que la raison ne peut comprendre et que la société ne peut défendre...

domenica 26 luglio 2015

Il gusto del sakè - Yasujirô Ozu

la tradizione, una figlia femmina si deve sacrificare per il padre, e poi sarà troppo vecchia per sposarsi.
Ozu si interroga sulla vecchiaia (intanto non sapeva che, a 62 anni, era il suo ultimo film), e il protagonista si interroga, e lui e i suoi amici bevono così tanto che morranno alcolisti, se continueranno così.
si ride anche, rumorosamente, ma lo sfondo è triste, e come poteva essere diverso?
è un film geometrico, la cinepresa sta ferma, si muove il resto, sembra una cosa folle, è perfetta, nessuna smagliatura.
leggo qui che qualche pazzo (sempre sia lodato) porta al cinema i film di Ozu.
cercate Il gusto del sakè, è Cinema - Ismaele





Tre uomini di mezza età, Kawai, Horei e Hirayama, si ritrovano a una celebrazione a bere insieme a un loro anziano insegnante. Quest'ultimo, che vive in povertà, rivela la sua disperazione per aver impedito alla figlia di sposarsi e averla così condannata all'infelicità. Hirayama, che si trova in una situazione analoga, vedovo e accudito dalla figlia Michiko, comincia a pensare che sia tempo di trovare uno spasimante all'altezza di Michiko.
Ricordato dai più come l'ultimo film di Ozu, e di conseguenza come il suo testamento, Il gusto del saké non è mai stato pensato per essere tale, visto che il regista stava lavorando a un altro film quando il male ha avuto il sopravvento su di lui. Ma i fraintendimenti si spingono fino al titolo, visto che né quello italiano né quello internazionale - An Autumn Afternoon - si avvicinano all'originario Il sapore della costardella, dal nome di un pesce che in autunno si avvicina alle coste per riprodursi. Questioni di anagrafe cinematografica a parte, l'opera sviluppa coerentemente il discorso autoriale dei film dell'ultimo periodo del regista, quello a colori. Emancipazione femminile che lentamente guadagna conquiste, consumismo e tecnologia che crescono di pari passo, evoluzione di un'identità nazionale salvaguardata attraverso i punti fermi della società umana (matrimonio, aiuto reciproco tra genitori e figli).
Nei pochi minuti che seguono l'incipit sono condensate tutte le situazioni tipiche di Ozu. Tentativi di combinare matrimoni, anziani che indulgono in chiacchiere licenziose davanti a un bicchiere di saké, i tempi che cambiano. E le situazioni si ripetono in maniera duale: per un personaggio oggetto di un'azione ce n'è sempre un altro nella medesima situazione. Così, per il rifiuto di mogli e figlie di sbrigare faccende domestiche a comando, come per un padre vedovo con una figlia in età da matrimonio, guardare all'altro da sé aiuta a comprendere meglio la propria situazione individuale…

Il 1962 è l'anno di uscita de "Il gusto del sakè" e nessuno si sarebbe immaginato che quello sarebbe stato l'ultimo film della lunga carriera di Yasujiro Ozu, il regista giapponese più importante insieme ad Akira Kurosawa. Ancora il cinema di Ozu stupisce per la semplicità e la sintesi con cui riesce ad imprimere sul grande schermo i moti emotivi dell'anima, senza per questo dimenticarsi di gettare il suo sguardo sulla società giapponese di quegli anni. Nel raccontarci la storia di Shuhei Hirayama, Ozu compie un'importante riflessione sulla vecchiaia alla luce di un complesso rapporto tra padre e figlia. Il film non è altro che la lunga descrizione, a momenti con toni leggeri in altri momenti più gravi, della maturazione di un uomo che deve affrontare il proprio egoismo e la propria gelosia paterna per lasciar sposare la figlia. Il tutto è descritto con delicatezza e garbo, quasi come se la regia fossero un insieme di immagini sussurrate, come se ci trovassimo nel cervello ordinato del signor Hirayama…

Nel Giappone il pensiero confuciano ha creato una famiglia forte, con dei legami profondi e puri. La pietà filiale obbliga i figli a prendersi cura dei genitori fino alla loro morte. Devono ripagare il debito nei loro confronti. Shuhei Hirayama è vedovo. Ha due figli. Michiko, la maggiore, di venti quattro anni ed un figlio più giovane. La figlia ha superato l’età da matrimonio, ma non mostra interesse nello sposarsi in quanto il suo dovere è stare con il padre. Le riprese sono tutte a livello del pavimento, deliziose. Camera ferma. Le persone passano davanti in base al loro compito. I personaggi principali invece si siedono di fronte. Il film ha una tecnica molto bella. In un mondo di immagini agitate ma anche irregolari, in Ozu c’è una grande pulizia, di grande candore. Tutto è già deciso per linee geometriche, disegnate Questo linguaggio è la forza di un pensiero ordinato: quello del padre e della figlia. E’ un film di grande emotività, umano. Il padre si convincerà di dare sua figlia in moglie, a malincuore. Accondiscende perché quello è il suo dovere. La figlia accetterà: quello è il suo dovere. Sapere del futuro marito è insignificante. Ozu non lo mostra neppure. E neppure ci interessa. Siamo affascinato dall’amore filiale e dal dovere. Commovente è la scena finale. La figlia si è sposata ed è via di casa. Il padre torna dalla cerimonia. E’ felice e triste. Si sente solo. A casa c’è solo il figlio. Saranno le sue parole a riportare il giusto ordine delle cose: “Sarò io a prepararti la colazione domani.” Il figlio conosce i suoi obblighi e per la prima volta si pone al servizio del padre.



sabato 25 luglio 2015

Banana - Andrea Jublin

finalmente, dopo otto anni da due grandissimi corti (qui), di cui uno, “Il supplente”, è stato nella cinquina dell’Oscar, per il miglior cortometraggio, arriva in sala Andrea Jublin, con il suo primo lungometraggio.
il film è uscito a gennaio, addirittura in dieci copie.
ce n’è voluto, parlo da spettatore, per vederlo in sala.
e il risultato è davvero buono.
bravissimi tutti, e sopra tutti Giovanni, il bambino protagonista, e Anna Bonaiuto, la professoressa, (in un ruolo simile a quello di Roberto Herlitzka in “Il rosso e il blu”).
Andrea Jublin fa un film fresco, sincero, non banale, controcorrente, senza scegliere scorciatoie, che magari rendono di più alla cassa, ma rendono di meno alla bellezza del film.
ormai al cinema si può vedere in qualche arena estiva, ma per fortuna è già disponibile il dvd, vogliatevi bene, non perdetevelo - Ismaele




Chi non molla e resta se stesso, alla fine, riesce a cambiare un pochino anche gli altri. Un sacco di cose fanno schifo, ma se iniziamo noi a fare meno schifo, magari qualcun altro ci seguirà. E ci sarà qualche sconfitta in meno, un po’ di schifo in meno.
Andrea Jublin non ha mollato e alla fine ci ha dato un film pieno di sconfitte ma pieno di speranza. Un film che non rassicura, ma dà forza. Basta una maglietta del Brasile e la voglia di raccontarsi – e raccontare – meglio. Magari facendosi da solo la telecronaca, mentre un ragazzino bruttino e grassottello si toglie i guanti da portiere, esce dalla porta, scarta gli avversari uno dopo l’altro, entra in area, tira e…

Film come Banana in Italia, semplicemente, non se ne fanno. Vale a dire lungometraggi in cui i ragazzi sono protagonisti e vengono trattati con la medesima complessità e sfaccettatura degli adulti, non come figli ma come coetanei, non come esseri umani cretini ma come esseri umani diversi (un filo più idealisti e ingenui, ma solo di una sfumatura), non tutti per bene ma all’occorrenza anche bastardi, piccini e meschini senza salvezza come il resto dell’umanità. L’ultimo che si ricordi valevole una menzione è l’iperbolico L’uomo fiammifero, datato 2009.
Mentre all’estero questo tipo di cinema è abbastanza florido (lo sa solo chi frequenta il Festival di Giffoni o la sezione Alice nella città del Festival di Roma), da noi non ne esiste una vera tradizione, solo sporadiche incursioni che, anche nei casi migliori, non ricevono il credito che meritano. Banana però non è sorprendente solo per la sua natura ma soprattutto per la sua fattura. Scritto con una fluidità, una serietà e un rispetto della materia trattata che impressionano, vanta anche una consapevolezza della vera lingua parlata dai ragazzi (non i termini gergali e di moda ma l’atteggiamento, gli insulti, le insicurezze e le arroganze) che rischiara tutto il racconto di plausibilità…

…Il primo lungometraggio di Andrea Jublin è un film onesto, in cui il disincanto lascia spazio all’ottimismo di chi vive in una realtà che non lo merita, ma riesce a restare incontaminato. Non vincitore forse, ma più vicino alla felicità di quanto lo possano essere quelli che “sanno come va il mondo”, quelli che “io l’avevo detto”, quelli che “odio tutti”.
Il film di Jublin non è certo perfetto: ha una sceneggiatura che sembra sofferente quando il protagonista non è al centro di essa e una caratterizzazione dei personaggi eccessivamente caricaturali in più di un caso. Tuttavia è un film vincente, che con leggerezza ci offre un insegnamento indubbiamente positivo e l’invito a essere luminosi come il mondo che vorremmo.
Insomma, Banana non sarà un vincente, ma è di certo un “brasiliano”.

Quel che allontana Banana dal sospetto di "conventicola", come direbbe Virzì, è lo spirito profondamente e genuinamente anarchico di Jublin, già evidente ne Il supplente, che lo rende mina vagante e scheggia impazzita. Dunque anche certi dialoghi da corso di sceneggiatura rivelano sprazzi di genuina crudeltà, ai congiuntivi appiattiti "ad arte" si alternano espressioni colloquiali esilaranti, ai sermoni edificanti sui buoni sentimenti fanno da correttivo le acidissime viperate della Colonna, interpretata da una Anna Bonaiuto che giganteggia su un film in cui tutti gli interpreti sono capaci (e ben guidati dal regista): fra gli altri spiccano Beatrice Modica nel ruolo di Jessica, bella di periferia senza speranza e senza redenzione, e lo stesso Jublin nel ruolo di Gianni, il grande amore di Emma, deviante irriducibile dalla fisicità ingombrante che sarebbe piaciuta a Lucien Freud. 
"Ma tu ce la fai a continuare?" è la domanda che si pongono i personaggi di Banana. E intendono: a continuare in questa Italia qui, che ammazza le speranze e qualunque traccia di "filosofia brasiliana". Auguriamo a Jublin di continuare a sgomitare nel nostro cinema ristretto e autocensorio tirando fuori sempre di più la sua verve iconoclastica, e lasciandosi bacchettare, quando serve, da un produttore che lo tenga al di qua di qualsiasi tentazione di autocompiacimento.

venerdì 24 luglio 2015

La casa (Namai) - Sharunas Bartas

sono matti, sono idioti, sono liberi o rinchiusi, sono sogni, sono nobili decaduti, con i servitori, cosa fanno, aspettano, e che cosa?
e l’unico nero (Alex Descas) che viene ammazzato, e il cane sulla tavola, e i soldati, assediano o aspettano l’uscita, la resa?
i libri vengono bruciati, pagina dopo pagina, è un mondo che finisce?
mille domande, senza risposta, e senza parole.
musica bellissima, come pure le immagini.
buona visione, e buone domande - Ismaele

QUI il film completo con i sottotitoli in inglese




L'atmosfera è straniante e oscura, dominata da un silenzio che non è mai stato così disturbante. Ancora una volta la parola è assente, ad eccezion fatta per l'incipt e il finale; due minuti in tutto in cui la voce narrante del protagonista parla della madre, unico punto d'appiglio per una tentata chiarificazione degli eventi.

- Madre, spesso avrei voluto parlare con te di tutto, ma non l'ho mai fatto... Ogni volta che vengo quì ad ascoltarti non posso più parlare con te e rimango in      silenzio... Nel futuro io sono libero, libero perchè ancora non esiste. Il presente è così sfuggente, non sono certo che esista.
- Madre, il tempo è passato e sono distante da te. Ciò che è importante per me, è credere che queste cose non svaniranno... Per noi non sono altro che anime morte. Anime malate, sfinite, semplicemente questo. E soprattutto, quasi prive di speranza, ma non stiamo per sparire...

…Sussulti, deboli, all’inizio e in particolar modo alla fine con la crocifissione del bambino che getta un barlume di significato sulla vicenda. Alcune opzioni visive hanno un discreto impatto sullo spettatore, prendere la sala piena di corpi nudi o il cane in controluce come esempi. E pure un paio di espedienti tecnici sono interessanti come la presentazione degli abitanti attorno al tavolo ben accompagnata dalla musica, o il sordo dialogo fra due sofferenti che esprime tutto il mutismo di The House.
Che immane fatica, però, cogliere queste sfumature sulla tela nera di Bartas…

This is tricky to write about.  It’s my first Sharunas Bartas film (I have others on my watchlist).  From what I’ve read, it’s something of a culmination of the work done in his prior years and not the best one to start with.  Kind of like trying to start Tsai with Visage.  The film opens with the image of a mansion, as voiceover reads a solemn letter to “Mother”.  As I understand it, “Mother” in this case represents Lithuania.  So does the mansion.  Apparently all (most?) of Bartas’s movies are about Lithuania and its relationship to the Soviet Union.
We see a man exploring the house.  We can only assume the man is the voice who read the letter.  There are no other spoken words (sort of… more on that in a minute) in the film, until the end when the letter continues.  He wanders from room to room, with a sadly nostalgic look on his face.  He sees things that strike us as odd, but don’t seem to faze him.  A man playing chess by himself.  A dog nursing her puppies.  A woman alone, performing a sorrowful show with hand puppets.  A fir growing in the middle of a room, with Christmas lights and people wearing animal heads marching around it.  A man (who happens to be Leos Carax) wearing a suit made of books, doing strange things with books.  A room full of naked children.  A room full of naked women who caress the man.  A naked woman who studies herself in the mirror.  A whole lot of naked going on.
There are three dining scenes.  In the first, the residents sit there barely acknowledging each other, tentative glances around the table.  The second is lively, with people strolling in and out, conversation buzzing (none of it is subtitled, so perhaps it’s gibberish, or just inconsequential).  In the third, they are all asleep in front of their plates.  Is it the cycle of a culture?
There are no answers forthcoming.  Although it took an outside source to tell me that there is something specifically Lithuanian about all this, it is clear that it is an exploration of a country or a culture or a history.  There are obvious connections to be made to other purveyors of “slow cinema”… Tarr and especially Tarkovsky come to mind.  But Bartas obliterates any notion of a narrative.  It is a series of bizarre tableaux that don’t appear to be connected, but may be thematically.
I have said recently that I can enjoy movies I don’t quite understand.  That is definitely the case here.  It appears that the film is swimming with symbolism, but a lot of it was lost on me.  However, you get the vibe of certain scenes quite readily.  Lost innocence, cultural isolation, censorship, military conflict.  More importantly, the images are fascinating.  Beautifully composed scenes with unexpected sights, studies of forlorn faces, crumbling interiors and stark iconography.  There are scores of intriguing screenshots I could have taken.  Every room contains something to chew on in your mind, and Bartas takes the time to let them sink in.  The soundscape is rich with heightened ambient noise or snatches of folk music… memories interweaving with reality.
I don’t know exactly what Bartas is getting at, but I get a very strong feeling from it.  It’s an entrancing world to spend time in.  And I also get the sense that one shouldn’t over-analyze it, that the symbolism is not as obscure as it seems (the ending is pretty clear, for sure).  I’m looking forward to more of his work

The House (1997) opens to the image of a mansion as the narrator reads a confessional letter written to his mother about their inability to communicate with each other. The house and mother are, of course, metaphors for the motherland that would be explored in the two hours that follow. It seems to me that The House is the film that Bartas finally comes to terms with the trauma dealt by the country’s recent past that he has consistently expressed in his work. Consequently, the film also seems like a summation of the director’s previous films (One could say that the characters from Bartas’ previous films reprise their roles here) and a melting pot of all the Tarkovsky influences that have characterized his work (especially the last four fictional works of the Russian). Shot almost entirely indoors, The House follows a young man carrying a pile of books as me moves from one room of the Marienbad-like mansion to the other, meeting various men and women, none of whom speak to each other and who might be real people of flesh and blood, shards of memory or figments of fantasy. The house itself might be an abstract space, as in The Corridor, representing the protagonist’s mind with its spatial configuration disoriented like the chessboard in the film. Furthermore, one also gets the feeling that Bartas is attempting to resolve the question of theory versus practice – cold cynicism versus warm optimism – with regards to his politics as we witness the protagonist finally burn the books, page by page, he had so far held tightly to his chest.

giovedì 23 luglio 2015

Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet - Kurt Gerron



...Visto il fermento internazionale, i nazisti decisero di trasformare il campo di concentramento di Theresienstadt in un "campo di rappresentanza", col quale mostrare l'immagine posticcia dei campi di concentramento come d'un luogo felice e confortevolmente organizzato. Oggetto di controllo anche da parte della Croce Rossa internazionale, per la quale venne architettata un'apposita messinscena, il campo contenne fino a 55.000 deportati.
Gerron fu obbligato a far da regista per un film di propaganda sul campo di concentramento di Theresienstadt, in cambio forse dell'implicita promessa d'aver salva la vita. Gerron realizzò quindi il documentario "Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet" (in italiano: Terezin: Un documentario sul reinsediamento degli ebrei), noto anche come "Il Führer regala una città agli ebrei".
Il film, girato nell'autunno del 1944, non venne mai proiettato integralmente e le bobine originali andarono perdute. Ne sono conservati solo pochi stralci inseriti in alcuni cinegiornali dell'epoca, per un totale di 23 minuti. Alla fine delle riprese Gerron venne trasferito ad Auschwitz dove fu subito ucciso con la moglie in una camera a gas, il giorno prima che Heinrich Himmler decretasse la chiusura degli impianti. Con lui vennero uccise anche tutte le comparse che avevano preso parte al documentario...

mercoledì 22 luglio 2015

Le sang d'un poète - Jean Cocteau

Green fish (Chorok mulkogi) - Chang-dong Lee

opera prima di Chang-dong Lee, e già un classico.
cinque film in 18 anni, e tutti indimenticabili.
appaiono la disabilità, l’amore, la critica sociale, lo sviluppo economico,
dentro il film ci sono mille cose, difficili da spiegare, come raccontare un quadro, se non lo si vede si perde tutto.
e se c’è un film che mi viene in mente è “Mona Lisa”, di Neil Jordan, col grandissimo Bob Hoskins.
non perdetevi questo primo, ruvido capolavoro di Chang-dong Lee, è un maestro, vedrete – Ismaele





Con una messinscena pulita, semplice e naturalistica, già potente, Lee ci racconta dello straniamento di Makdong, che, al ritorno nella nativa Ilsen, è alla ricerca della propria strada, dopo essersi lasciato indietro la divisa (che in Sud Corea obbligatoriamente si veste per 3 anni) e tutto ciò che comporta: nella scena iniziale, apprendiamo della sua perdita d’autorità quando 3 bulletti lo pestano sul treno che lo sta riportando a casa. Il sogno di Makdong è aprire un ristorante con l’aiuto della sua numerosa famiglia senza capo. È forse questa mancanza di un padre che porta il ragazzo a servire un boss malinconico e un po’ all’antica. Nello spiegarci il complicato rapporto tra i due, Lee sfugge ad ogni topos: il boss non insegna nulla al suo nuovo “fratello”, che dal canto suo non ha alcun interesse specifico per la malavita…

Although having noir elements, Green Fish is a slippery critter when it comes to classification. There is gangland violence here, but although some of it looks good, it never really becomes as central to the action as perhaps it should given the subject matter. Shifting from these moments to segments of family drama back at Makdong’s mums only serves to break the narrative, leaving everything feeling more episodic than it should. Chang-dong extracts a sterling performance from Suk-Kyu and finds plenty of depth in the film’s more contemplative moments, but the gangland segments never quite attain the same ring of truth. This is an assured debut, but ultimately the over-complex plot and rambling narrative threaten to sink the film’s more delicate aspects.

…Dal punto di vista strettamente formale stupisce la maturità nell'uso dello strumento espressivo, magari meno ellittico e raffinato di quello dei film successivi però di un livello sempre molto alto.
Green Fish sembra tutto fuorchè un film d'esordio di un autore passato al cinema dopo una carriera da scrittore.
Se la parabola di Makdong è qualcosa di già visto, quello che appare nuovo nel film coreano è la malinconia che lo caratterizza, il pessimismo cosmico che lo avvolge, la critica politica che esonda allorchè sembra che l'unica possibilità di emergere per un poveraccio è quella di darsi al crimine.
E quell'ultima sequenza in cui la placida rusticità anche un pò antica del ristorante dei familiari di Makdong è contrapposta ai mostri di ferro e cemento che fendono l'aria per arrivare a "grattare" il cielo simbolo del nuovo e dell'arricchimento impazzito vale più di qualsiasi critica al rinnovamento che avanza in Corea.
Così come letteralmente trafigge il pianto catartico della donna del gangster che di nascosto si accorge che quel ristorantino che serve zuppa di pollo freschissima, è dei familiari di Makdong.
Un brano di cinema destinato a rimanere parecchio nella memoria.

Most striking about Green Fish, as with Lee's subsequent features, is its emotional force, which is expressed while abstaining from conventional melodramatic techniques. He paints a gloomy view of Korean society and the turbulent nature of its development. This can be seen perhaps most clearly in the inner conflicts and problems faced by Makdong's family. A scene towards the end of the film, in which a family picnic disintegrates into chaos, shows how unstability has kept the family from growing close, or providing each other with any emotional support…

…Like I said earlier, Chorok Mulkogi is a flawed film. But, at the same time it is a unique experience. (At least it was for me, I was surprised to find out after I had written this that others felt it was a story told many times over. Maybe there are gangster films that cover the same territory and I have yet to get to them, but for the time being Chorok Mulkogi provided a unique take on the soldier becoming a gangster as far as I am concerned). Chorok Mulkogi isn’t a movie that will set your world on fire, even if that screenshot I grabbed is some piece of hot fire.Chorok Mulkogi is a competently made gangster tale, with some family drama and some comedy thrown into the mix. It doesn’t always work, but it often does, and those moments where it does work far outweigh the moments where it doesn’t work.

The film’s physical centre is Makdong (Han Suk-gyu), who has just been discharged from army service. On the train home, he leans precariously from the train only to see a beautiful woman doing the same a few cars ahead. The rushing wind blows her purple scarf away from her into Makdong’s face. As soon as he gathers it to catch another glimpse of the woman (Miae, played with a vicious sensuality by Shim Hye-jin), she has disappeared. She appears again and again, tempting, teasing but never fully satisfying Makdong, who follows her and opportunity into one dark, dangerous corner after another…