Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
domenica 31 agosto 2014
Classifica 2013-2014 (al cinema)
anche quest'anno faccio una specie di classifica dei film visti al cinema, non sono tantissimi (solo 49), ma qualcosa di buono c'è (cliccando su ogni titolo c'è il link alla piccola recensione che avevo scritto a suo tempo), altri comunque buoni si trovano nel blog - Ismaele
sabato 30 agosto 2014
Wrong cops – Quentin Dupieux
sembrano diversi episodi collegati per tirarne fuori un film, e comunque il risultato è positivo.
sembra una "scuola di polizia" aggiornata e cinica, dove non ci sono più le gag, ma humor nero e assurdo senza limiti, magari ripetitivo, ma spesso efficace.
il film si tiene e merita una visione, spesso si ride, la storia del talento è bellissima - Ismaele
sembra una "scuola di polizia" aggiornata e cinica, dove non ci sono più le gag, ma humor nero e assurdo senza limiti, magari ripetitivo, ma spesso efficace.
il film si tiene e merita una visione, spesso si ride, la storia del talento è bellissima - Ismaele
…Come e più dei precedenti exploit del francese, un'operazione destinata a
dividere, in cui la chiave è non prendersi sul serio e adattarsi a un
microcosmo in cui prevale lo shock dell'attimo sulla coesione dell'intreccio.
Gag talora irresistibili se prese singolarmente che in qualche modo faticano ad
adattarsi ai confini di un lungometraggio, ma che colpiscono, nel bene o nel
male, l'immaginario. Magari stordendolo fino all'esasperazione, gridando la
propria identità anziché limitandosi a suggerirla.
Ma oggi, nel 2013, anche (soprattutto?) questo è cinema, tanto da conferire a Dupieux uno status di autore che gli si confà almeno quanto l'intimo femminile su uno dei suoi sgradevoli e corpulenti poliziotti "sbagliati". Un minutaggio breve, 82 minuti, ma sufficiente per raggiungere lo scopo e poi chiudere con un'esaltante morale, lucida e crudele, pronunciata in un barlume di effimera saggezza da un poliziotto talmente strafatto da dimenticarla immediatamente. Marilyn Manson non appare per caso: perché siamo tutte star ora, nel dope show.
Ma oggi, nel 2013, anche (soprattutto?) questo è cinema, tanto da conferire a Dupieux uno status di autore che gli si confà almeno quanto l'intimo femminile su uno dei suoi sgradevoli e corpulenti poliziotti "sbagliati". Un minutaggio breve, 82 minuti, ma sufficiente per raggiungere lo scopo e poi chiudere con un'esaltante morale, lucida e crudele, pronunciata in un barlume di effimera saggezza da un poliziotto talmente strafatto da dimenticarla immediatamente. Marilyn Manson non appare per caso: perché siamo tutte star ora, nel dope show.
…"Worng Cops" lascia filtrare in controluce un
(velato) intento di critica alla società consumistica statunitense: Duke e
compagni agiscono esclusivamente per il proprio interesse personale, per
esaudire una sordida perversione o per un senso di famelica cupidigia,
incuranti delle conseguenze delle loro azioni, che si spingono sempre ben oltre
il grottesco. Quello che sembra interessare maggiormente Dupieux è impressionare
lo spettatore a colpi di eccessi e stravaganze, ma in questo senso il film
mostra presto i suoi limiti. Nella seconda parte della pellicola, infatti, il
regista si perde inseguendo i molteplici risvolti di una improbabile trama
gialla, mentre le gag continuano ad accumularsi inarrestabili l'una sull'altra,
in una sorta di altalena sterile e, alla lunga, ripetitiva.
Dupieux può comunque vantare uno stile eccentrico e coerente, che ammicca con consapevolezza al cinema di John Waters e alle produzioni Troma. E senza rinunciare mai al suo humour feroce e corrosivo, al limite della blasfemia, riesce a regalare qualche battuta ben assestata. Basti pensare al bizzarro interrogatorio di Marilyn Manson, struccato e pettinato nei panni di un ragazzino introverso, o al veloce dialogo con la donna sulla sedia a rotelle, assolutamente irriverente ma davvero fulminante.
Il colpo migliore, comunque, Dupieux lo mette a segno ricorrendo a una buona dose di autoironia quando, nella riuscitissima scena del colloquio con il capo di un'etichetta discografica, spiega che il segreto del successo è 95% marketing e 5% talento. Non male, per uno che è diventato famoso grazie alla pubblicità di un paio di jeans.
Dupieux può comunque vantare uno stile eccentrico e coerente, che ammicca con consapevolezza al cinema di John Waters e alle produzioni Troma. E senza rinunciare mai al suo humour feroce e corrosivo, al limite della blasfemia, riesce a regalare qualche battuta ben assestata. Basti pensare al bizzarro interrogatorio di Marilyn Manson, struccato e pettinato nei panni di un ragazzino introverso, o al veloce dialogo con la donna sulla sedia a rotelle, assolutamente irriverente ma davvero fulminante.
Il colpo migliore, comunque, Dupieux lo mette a segno ricorrendo a una buona dose di autoironia quando, nella riuscitissima scena del colloquio con il capo di un'etichetta discografica, spiega che il segreto del successo è 95% marketing e 5% talento. Non male, per uno che è diventato famoso grazie alla pubblicità di un paio di jeans.
…Wrong Cops è un film trash, un acido fumetto
compiaciuto delle proprie abiezioni, abitato dalle caricature idiote di una
sitcom gretta e allucinata. Ma non solo: è anche un grande film, perché
conduce, come oggi raramente accade, il demenziale alla sua espressione
pienamente politica, perché mostra la perversione della visione e della
comprensione del mondo, perché è un film su un ordine vizioso, un film
sull’opera dell’ideologia, sull’ideologia al lavoro.
… L'incipit è straordinario con quel
poliziotto che smercia droga dentro topi morti.
Ma le gag, le situazioni paradossali, i dialoghi assurdi si sprecano.
Il punto di forza del film, o uno dei punti di forza, è la caratterizzazione dei singoli personaggi.
I poliziotti sono straordinari, potrebbero anche non parlare per funzionare.
Più o meno tutti pervertiti (ah, l'omosessualità, latente o no, è dilagante nel film) hanno il loro top in Duke (un grandissimo Mark Burnham), un testa di cazzo incredibile, sempre strafatto, che si comporta da capo del mondo e non ha una minima moralità o inibizione. Lui non sa nemmeno cosa vuol dire parlare, strilla e basta.
Ma anche il pancione De Luca con la sua ossessione per i seni e la "calma" perversione del suo sguardo è straordinario. E non è da meno Rough, un poliziotto nero orbo di un occhio e con melone nella fronte, appassionato di musica disco e convinto di avere un talento pazzesco nel campo…
Ma le gag, le situazioni paradossali, i dialoghi assurdi si sprecano.
Il punto di forza del film, o uno dei punti di forza, è la caratterizzazione dei singoli personaggi.
I poliziotti sono straordinari, potrebbero anche non parlare per funzionare.
Più o meno tutti pervertiti (ah, l'omosessualità, latente o no, è dilagante nel film) hanno il loro top in Duke (un grandissimo Mark Burnham), un testa di cazzo incredibile, sempre strafatto, che si comporta da capo del mondo e non ha una minima moralità o inibizione. Lui non sa nemmeno cosa vuol dire parlare, strilla e basta.
Ma anche il pancione De Luca con la sua ossessione per i seni e la "calma" perversione del suo sguardo è straordinario. E non è da meno Rough, un poliziotto nero orbo di un occhio e con melone nella fronte, appassionato di musica disco e convinto di avere un talento pazzesco nel campo…
…El tramo final es de
lo mejor del metraje (junto al diálogo del policía y el herido con el productor
musical), y la reiterada burla que se hace de la industria discográfica, la
violencia, el porno, el cine, la institución familiar y por encima de todo, la
propia policía, es un motivo para invertir las normas de la realidad y del día
a día y provocar que el espectador alce las cejas y se desternille sin llegar a
reponerse de la extrañeza que evoca cada sketch. Desde Marilyn Manson como
evasivo y freak musical secundario, a una zanja cavada en el
jardín para un muerto todavía muy vivo, pasando por obscenos chantajes
económicos y el guiño, desde el televisor de una familia, a un film anterior
del director, cada elemento se rinde a la parodia. Una clase de humor agresivo,
deslenguado y locuaz no recomendado a todos los públicos ni propio de una
apacible velada familiar, pero dotado de una personalidad y un tinte
surrealista, capaces de hacer que rinda a sus pies sin dudarlo. Wrong
cops a veces agota, pero sus bizarradas hilarantes fascinan, nos
sumergen en la ilógica por excelencia y se alejan con acierto del 99% de
comedias convencionales. Y ya se sabe, en una noche de viernes, no hay nada
mejor que empacharse a patatas fritas, y reírse a carcajadas de las hipocresías
del mundo que nos rodea.
da quivenerdì 29 agosto 2014
Wise blood (La saggezza nel sangue) – John Huston (as Jhon Huston)
tratto
da un romanzo di Flannery O'Connor, il primo suo libro pubblicato
nel 1952 (che leggerò, è sicuro).
protagonista è Brad Dourif (che era Billy, qualche anno prima, in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”), appare in una piccola parte anche Harry Dean Stanton, come anche John Huston.
il film è straordinario e profondo, ricco di situazioni e pieno di sorprese.
ambientato in qualche stato del sud degli Usa, Hazel Motes, reduce di qualche guerra, molto confuso, ad essere generosi, di guarda in giro e fonda "la Chiesa della Verità senza Gesù Cristo Crocefisso".
impossibile da raccontare, non facile da trovare, ma indimenticabile.
guardatelo e godetene tutti - Ismaele
Alla fine degli anni '40, tornato al paese natio della Georgia, il reduce
di guerra Hazel Motes comincia a predicare un proprio vangelo, quello di una
chiesa della verità senza Cristo né redenzione. Ma c'è un suo
"doppio", un falso predicatore che lo contraffà. Tratto dal romanzo
(1952) di Flannery O'Connor, sceneggiato dai fratelli Benedict e Michael (anche
produttore con la moglie Kathy) Fitzgerald, comincia nelle cadenze ilari anche
se inquietanti di un'agra commedia di costume e sprofonda a poco a poco in una
drammaticità di dolorosa assurdità. In questo 2° film in terra americana della
sua vecchiezza Huston si tiene a distanza dai personaggi, assecondato dalla
fotografia livida, un po' spettrale quasi da acquario, di Gerry Fischer. C'è la
consueta sagacia nella galleria delle figure minori, lo humor, la navigata capacità
di controllare la materia narrativa, ma anche la rinuncia al pittoresco e al
folclore. Rari altri film hanno raccontato con altrettanta efficacia il
sentimentale sacro che alberga nell'homo americanus e i modi aberranti,
ossessivi, ridicoli con cui si manifesta. Fedele a F. O'Connor, Huston ha fatto
un film divertente e terribile. Forse terribile perché è divertente.
…Based on Flannery O'Connor's novel, the film is
incredibly odd, not merely in its collection of grotesques - par for the course
in a Southern Gothic allegory - but in its style and tone; it's based on a book
written in the 50's, clearly set in the 70's but with characters who act like
they are from the 30's. It's a mish-mash of styles that reminded me of Francis
Ford Coppola's Rumble Fish, which also combines different eras to create a
singular, dreamlike world. Wise Blood also shares with Rumble Fish a philosophical
tone as both films revolve, in one way or another, around young men trying to
make sense of the world who are confronted with differing existential ideas.
Tonally, the film feels more like a movie that would have been made 10 years
later than it was. It's matter-of-fact approach to its bizarre characters
reminded me of Jim Jarmusch's Dead Man and other mid-90's American Independent
films. The anachronistic combination of the very 70's visual style and the not
at all 70's tone was really disconcerting...
… John Huston filme un monde délabré d'handicapés mentaux
et sociaux. Les personnages sont déliquescents, les maisons s'effritent, les rues
pissent la misère, les voitures suintent et couinent. Un monde qui s'écroule où seule la religion est donnée
comme planche de salut. Or, il s'avère qu'elle est peut-être le moteur le plus
actif de cette dégénérescence, aussi éclatée que les frontières mentales de
cette pauvre engeance. Elle apparait aussi vieille et moisie que cette société
racornie, abandonnée aux mauvaises herbes. Huston filme une société américaine déchue,
aux rides aussi profondes qu'encrassées, où le sentiment religieux est perverti
par un cynisme marchand. In God we trust. C'est assez schématique comme
analyse, j'en conviens, ne m'en veuillez pas trop, je ne peux pas faire mieux…
Most film fans will have
a handful of titles in their collection that they cannot view with any degree
of objectivity. And so it should be. It signifies when the appreciation of a
work of art or entertainment is driven by an emotional response rather than an
intellectual one. You can work out why it's a great movie later, but for now
it's all about love, and rational analysis has no part of it.
But take the next step
and you'll quickly find yourself re-categorised from film buff to hopeless
obsessive. It's a move that prompts sensible people to shake their heads and
ask after the state of your sanity, and for those standing next to you at the
bus stop to take a discrete step backwards as you enthuse to a fellow devotee.
You have become in the eyes of the normal world a geek. It's a condition that
sees people every year dress up as characters from Star Trek and meet to exchange Klingon
greetings, or to meet at Portmeirion and re-enact scenes from The Prisoner. It's what prompted
those two fans of Withnail & I to visit locations used for the film for one of the extras of the film's
last DVD incarnation, and what inspired myself and my own personal Withnail to
trudge to the village of Turville in Oxfordshire to photograph each other at
the sites at which Went the Day Well was shot. And it's just such a relationship with the 1979 film Wise Blood that led to two evenings of outrageous
silliness at a local pub in which my friend, dressed as the film's lead
character and sporting a dodgy Tennessee accent, had the landlord on his knees
yelling evangelical Hallelujahs as tears of laughter poured down his face.
Now if you've never seen Wise Blood – and there's a fair chance you
haven't – then you'll probably be wondering just what it is about it that could
provoke such a response. Mind you, if you have seen it you'll probably be none the
wiser. This is no case of "just see it and you'll get it," as there's
a fair chance that you won't. It's a personal thing, one of those times when a
film and a character strike such a chord that the response resists rational
explanation. Such is the case with Hazel Motes, a name as burned onto my consciousness
as Dracula, Judah Ben-Hur or Hannibal Lector…
Etichette:
Brad Dourif,
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cinema Usa,
John Huston
mercoledì 27 agosto 2014
Castaway on the Moon - Hae-jun Lee
inizi a vederlo e ti sembra una mezza scemenza, poi passano i minuti, il film prende quota e non ti stacchi più, ti affezioni.un po' come era successo per "My sassy girl" (qui), i due film che hanno in comune molto.
il racconto è folle e allo stesso tempo essenziale, una storia sullo stato del mondo, sulla schiavitù e la libertà, sulla paura, sul coraggio, sull'amore.
ci si mette un po' a entrare dentro la storia, è un oggetto strano, ma basta avere fiducia e lasciarsi prendere per mano dal regista e poi i due Kim li senti tuoi amici e fratelli.
non perdetevelo, sarà una bellissima sorpresa - Ismaele
il racconto è folle e allo stesso tempo essenziale, una storia sullo stato del mondo, sulla schiavitù e la libertà, sulla paura, sul coraggio, sull'amore.
ci si mette un po' a entrare dentro la storia, è un oggetto strano, ma basta avere fiducia e lasciarsi prendere per mano dal regista e poi i due Kim li senti tuoi amici e fratelli.
non perdetevelo, sarà una bellissima sorpresa - Ismaele
Nella vita tutti possono sentirsi dei naufraghi.
Sempre meglio naufraghi che alla deriva comunque, il naufragio è in qualche modo sempre un punto d'arrivo.
O di partenza.
Sempre meglio naufraghi che alla deriva comunque, il naufragio è in qualche modo sempre un punto d'arrivo.
O di partenza.
La vita è un mare così periglioso, così insidioso, così difficile, così
pieno di occasioni mancate e umiliazioni (vedere la strepitosa scena sul pelo
dell'acqua, un riassunto di come tutto, affetti, lavoro e amore sia andato a
rotoli) che a volte è una deriva insostenibile da reggere.
Allora
Lui decide di farla finita e si getta nel fiume Han.
Ma il piano fallisce, Kim si ritrova in un'isola deserta. Una piccola isola appena sotto il ponte dove si è gettato. Ma sempre un'isola è, se all'orizzonte invece del mare aperto ci sono i palazzi della tua città non cambia nulla, sei solo. Su un'isola. Questo naufragio è un punto di partenza nuovo per Kim.
E poi c'è Lei.
Si chiama Kim anche lei.
Anche a lei la vita fuori fa paura, così paura che vive da 3 anni reclusa in una camera nella quale non accetta nemmeno di ricevere la luce del sole. Perchè anche il Sole è un'insidia, uno sfregio alla nostra intimità. Lei fa foto alla Luna, quella sì placida, bella e misteriosa.
Il suo naufragio non è come quello di Lui, non è un nuovo punto di partenza, ma uno doloroso di arrivo.
Solo due giorni l'anno la città si ferma, all'arrivo della primavera e dell'autunno, solo due volte sembra deserta. Per via di una tradizione coreana. Allora lei quella volta prende la sua macchina
fotografica/telescopio per vedere la città anzichè la luna e per caso vede lui, laggiù, in quell'isola.
E' il suo alieno. Lo fotografa e sovrappone le foto di lui a quelle della luna attaccate al muro. Perchè solo in Korea sanno scrivere poesie facendo film.
Kim e Kim sono due alieni, due entità che col pianeta Terra c'entrano più nulla…
Ma il piano fallisce, Kim si ritrova in un'isola deserta. Una piccola isola appena sotto il ponte dove si è gettato. Ma sempre un'isola è, se all'orizzonte invece del mare aperto ci sono i palazzi della tua città non cambia nulla, sei solo. Su un'isola. Questo naufragio è un punto di partenza nuovo per Kim.
E poi c'è Lei.
Si chiama Kim anche lei.
Anche a lei la vita fuori fa paura, così paura che vive da 3 anni reclusa in una camera nella quale non accetta nemmeno di ricevere la luce del sole. Perchè anche il Sole è un'insidia, uno sfregio alla nostra intimità. Lei fa foto alla Luna, quella sì placida, bella e misteriosa.
Il suo naufragio non è come quello di Lui, non è un nuovo punto di partenza, ma uno doloroso di arrivo.
Solo due giorni l'anno la città si ferma, all'arrivo della primavera e dell'autunno, solo due volte sembra deserta. Per via di una tradizione coreana. Allora lei quella volta prende la sua macchina
fotografica/telescopio per vedere la città anzichè la luna e per caso vede lui, laggiù, in quell'isola.
E' il suo alieno. Lo fotografa e sovrappone le foto di lui a quelle della luna attaccate al muro. Perchè solo in Korea sanno scrivere poesie facendo film.
Kim e Kim sono due alieni, due entità che col pianeta Terra c'entrano più nulla…
…Che bello quando il Cinema ti riserva delle sorprese così grosse.
Chi l’avrebbe mai detto che un film con la locandina così brutta potesse
riuscire a farmi venire i lacrimoni agli occhi!...
…Castaway on the moon non è una
sòla, quanto più che altro un titolo che non esprime tutte le sue potenzialità
ma è in grado di lasciare a bocca aperta con alcune sequenze di profonda
sensibilità e ribaltare ogni possibile parere negativo grazie ad un crescendo
toccante e meraviglioso che vede i due protagonisti, vittime di solitudini ed
emarginazioni diverse ma ugualmente drammatiche trovare la forza di
reinventarsi l'uno grazie all'altra, riscoprendo il loro essere se stessi in
rapporto con un mondo che pare averli definitivamente rifiutati e dal quale
entrambi sono fuggiti, il primo con il tentato suicidio e l'isolamento in mezzo
alla Natura e la seconda ritagliandosi uno spazio oscuro e fittizio in cui
poter essere quello che lei - o il mondo stesso - crede di volere…
…Castaway on the moon oltre
a parlare di amore parla anche di solitudine (quelle dei due Kim, maschio e
femmina sono due solitudini ostinate e contrarie, una forzata per necessità
fisiche, l'altra puramente voluta), parla dell'indifferenza e della difficoltà
di comunicazione in una società sempre più tecnocratica (oltre che schiavizzata
dal denaro e dalla ricerca del profitto costi quel che costi applicando in modo
estremo il concetto di capitalismo), parla di alienazione, tema che sembra
essere molto comune a certo cinema orientale sia coreano che giapponese…
…Fallito il suicidio al fiume, Seung-keun Kim è spiaggiato su un atollo ai
margini della città, a cui però non riesce a tornare non sapendo nuotare.
Inizialmente privo di qualsiasi ragione di vita (indebitato, abbandonato dalla
compagna e licenziato), è nell’isolamento forzato che troverà un nuovo
equilibrio esistenziale e la rinnovata fiducia in sé e nelle proprie capacità,
cominciando così una nuova vita felice e lontana dal mondo. O quasi. È infatti
lo sguardo attento della curiosa Jung-yeon Kim – auto-segregata in camera nel
tentativo di costruirsi una vita virtuale il più possibile realistica – a
notare attraverso l’obiettivo fotografico l’“help” (presto cambiato in “hallo”)
tracciato sulla sabbia, spingendo la ragazza a superare le sue paure per uscire
di casa e inviare al naufrago un messaggio tramite bottiglia, iniziando così
una strampalata corrispondenza che porterà entrambi a ritrovare nell’altro un
proprio simile e allo stesso tempo una ragione per uscire dal proprio guscio…
…en cela que réside la grande magie de ce
film : partir d’un postulat totalement saugrenu et réussir à le développer en
une subtile comédie délicieusement drôle et attachante. Tout en finesse, le
film se construit méthodiquement en ne laissant rien au hasard. Chaque scène
révèle des trésors d’imagination pour permettre à ces deux héros d’évoluer dans
leur relation singulière. Il en va ainsi jusqu’au final, sublime, et totalement
inattendu. Un beau film qui ne ressemble à aucun autre, et où l’on vit de
grands moments à l’ombre d’un pédalo en forme de cygne blanc.
Lee Hae-jun, en su segundo
trabajo como director, sorprende a propios y extraños con una película
tremendamente original, en la que da una lección magistral -a Robert Zemeckis y
su “Naufrago” entre otros- de como desarrollar un argumento tan aparentemente
limitado: la vida del único habitante en una isla desierta, desde la que
se puede ver tierra al otro lado. Tan solo la mente de un cineasta
coreano es capaz de expresar de un modo tan sorprendente y metafórico -a parte
de grandes dosis de comicidad- la soledad y aislamiento que puede provocar la
sociedad capitalista en el ser humano. Un soplo de aire fresco.
…Il film sembra proporre un rifiuto della società
massificata e consumistica e dei finti bisogni che ci induce ad avere, per
sostituirla con una vita alternativa più essenziale e vicina alla natura.
Forse più che con
“Robinsoe Crusoe” di Defoe si può azzardare un paragone anche con il romanzo
“L’Isola di cemento” di James G. Ballard, il cui protagonista, in seguito ad un
incidente automobilistico, si ritrova intrappolato in un’isola spartitraffico.
“Castaway on the
Moon” è insieme divertente e coinvolgente, riuscendo inoltre a sollevare
interessanti interrogativi sull’alienazione del mondo di oggi e sul nostro modo
di vivere, senza dimenticare che è un film girato molto bene e con due attori
efficaci. L’unico piccolo difetto è forse un po’ di retorica (la speranza…),
soprattutto nella seconda parte, ma nel complesso il film è un trionfo…
martedì 26 agosto 2014
I dannati di Varsavia (Kanal) - Andrzej Wajda
nell'estate del 1944 l'Armata Rossa era dall'altra parte della Vistola, a Varsavia, la sconfitta della Germania nazista era vicina.
l'esercito polacco prese l'iniziativa e ci fu, dal primo agosto al 2 ottobre del 1944, una sollevazione contro i nazisti che occupavano Varsavia.
per quei due mesi (e anche dopo) l'armata Rossa non venne in aiuto dei patrioti polacchi e Varsavia venne distrutta dai nazisti, fu una carneficina.
Andrzej Wajda racconta gli ultimi momenti della Resistenza, la prima metà del film è drammatica, i pochi partigiani sono assediati, non possono tenere nessuna posizione, la seconda parte, ancora più drammatica e claustrofobica, è quella del tentativo di fuga attraverso le fogne.
non puoi che essere dalla parte dei partigiani e soffrire con loro, eroi senza speranza.
dopo che si è saputo di Katyn (Andrzej Wajda ne ha tratto un film grandissimo, qui), oggi la spiegazione dell'immobilismo dell'Armata Rossa può essere interpretato come la seconda parte del lavoro fatto a Katyn da Stalin.
qualche anno fa è stato trasmesso da Fuoriorario, sempre sia lodata, e si può trovare qui.
guardatelo, è grande Cinema - Ismaele
PS: mi viene da pensare a come la Storia si ripete, come a Varsavia allora, oggi a Gaza c'è un assedio, i resistenti palestinesi vengono ammazzati nei tunnel, anziché nelle fogne, e una potenza di fuoco enorme distrugge la striscia di Gaza, e qui non c'è l'Armata Rossa dall'altra parte del fiume, a Gaza c'è il mondo intero che vede tutto e nessun esercito si muove, come ai nazisti allora oggi agli israeliani viene concesso tutto il tempo necessario per la carneficina.
L'unica autentica novità rispetto ai film polacchi, scarsamente significativi, degli anni Cinquanta, che troviamo ne I dannati di Varsavia è nella scelta del soggetto del film, un episodio della rivolta antinazista di Varsavia: avvenimento storico, questo, ignorato e censurato dal regime filosovietico del dopoguerra. Nel 1944, quando già i soldati dell'Armata Rossa avevano raggiunto la sponda della Vistola prospiciente la capitale polacca, più di quarantamila militari e abitanti della città lottarono per due mesi, casa per casa, contro le preponderanti forze tedesche, e furono massacrati senza che i sovietici intervenissero per impedire la feroce repressione. Argomento del film è la tragica fine dell'insurrezione: la fuga attraverso le fogne di Varsavia, di un gruppo di partigiani polacchi ormai impotenti nel fronteggiare gli aerei e i carri nemici.
Solo in apparenza Wajda esprime le istanze popolari antisovietiche e l'«ansia di libertà» di quel momento storico, mentre nega in realtà ogni possibilità di liberazione e di cambiamento, mostrandoci una vicenda in cui i polacchi-patrioti-buoni-puri-altruisti-cattolici diventano martiri della ferocia nazista e del disinteresse sovietico. Nelle fogne di Varsavia muore la libera Polonia e inizia la schiavitù sotto la «dittatura». Il regista non vede prospettive di cambiamento della situazione presente e passata, non vede alternative alla dittatura, trova elementi degni di fiducia solo in dimensioni astratte: il coraggio, lo spirito di sacrificio, la fede dei singoli, ricompenseranno, in una vita futura, coloro che oggi sono sconfitti. Wajda approfitta della fine dello stalinismo non per proporre modelli di vita più avanzati, ma per dichiarare apertamente la propria individualità nazionale, religiosa e ideologica, e per piangere sulla «servitù» inevitabile del suo paese. Non vuole capire razionalmente le cause di un certo sviluppo storico, non si chiede quali fossero le divergenze ideologiche e strategiche che nel '44 dividevano profondamente i partigiani polacchi dallo Stato maggiore sovietico, non prende in considerazione, osservando un evento del passato, né i mutamenti sociali che, bene o male, il regime socialista introdusse in Polonia nel dopoguerra, né alcun altro elemento utile a un dibattito politico. La guerra è per lui una condizione esistenziale in cui trionfa il Male, i suoi personaggi sono situati fuori del tempo, fuori della storia: essi incarnano la situazione eterna e permanente dei «santi» martirizzati dalle dittature. In genere, i film dell'Europa dell'Est che negli anni Cinquanta affrontavano il tema della Resistenza si conformavano al rigido schema dell'esaltazione patriottica dei combattenti per la libertà, rappresentando con toni retorici soltanto gli aspetti «eroici» della lotta partigiana, lotta in cui le due parti avverse erano i termini antitetici d'una visione della storia moralistica e manichea. Wajda non rifiuta questi schematismi e non va al di là di una superficiale esaltazione dell'eroismo, in quanto i personaggi de I dannati di Varsavia, pur sofferenti, spaventati, sconfitti, destinati a morte sicura, sono pur sempre eroi, simboli di virtù degne di ammirazione incondizionata, archetipi dotati di scarsa credibilità (mentre combattono o fuggono il nemico, parlano sempre di «grandi temi» astratti - l'amore, la libertà, la dignità umana - mai dei problemi tattici o politici della loro lotta). Un individuo perde la ragione, uno tradisce, uno pensa solo a sé; dal confronto con costoro risultano maggiormente esaltati gli «eroi» che resistono fino alla morte, sacrificano la vita per la salvezza altrui, sublimano in un purissimo sentimento amoroso il proprio istinto di conservazione.
Questi temi vengono affrontati da Wajda con un linguaggio molto simile a quello dei film d'azione americani. La struttura narrativa e il ritmo del montaggio tentano di creare una forte suspence ponendo in rilievo le reazioni istintive e irrazionali d'un gruppo di persone immerse in una situazione angosciosa. Il fine di tale procedimento è quello di provocare negli spettatori ansia prima, commiserazione poi, senza fare minimamente appello alla partecipazione intellettuale del pubblico. L'indubbia capacità di Wajda nel dominare il mezzo tecnico non produce ricerche stilistiche originali, ma esercitazioni formalistiche fini a se stesse le quali denunciano da un lato le non poche incertezze di un regista quasi esordiente, e dall'altro la loro affinità ai procedimenti formali tipici del cinema di consumo hollywoodiano.
da qui
l'esercito polacco prese l'iniziativa e ci fu, dal primo agosto al 2 ottobre del 1944, una sollevazione contro i nazisti che occupavano Varsavia.
per quei due mesi (e anche dopo) l'armata Rossa non venne in aiuto dei patrioti polacchi e Varsavia venne distrutta dai nazisti, fu una carneficina.
Andrzej Wajda racconta gli ultimi momenti della Resistenza, la prima metà del film è drammatica, i pochi partigiani sono assediati, non possono tenere nessuna posizione, la seconda parte, ancora più drammatica e claustrofobica, è quella del tentativo di fuga attraverso le fogne.
non puoi che essere dalla parte dei partigiani e soffrire con loro, eroi senza speranza.
dopo che si è saputo di Katyn (Andrzej Wajda ne ha tratto un film grandissimo, qui), oggi la spiegazione dell'immobilismo dell'Armata Rossa può essere interpretato come la seconda parte del lavoro fatto a Katyn da Stalin.
qualche anno fa è stato trasmesso da Fuoriorario, sempre sia lodata, e si può trovare qui.
guardatelo, è grande Cinema - Ismaele
PS: mi viene da pensare a come la Storia si ripete, come a Varsavia allora, oggi a Gaza c'è un assedio, i resistenti palestinesi vengono ammazzati nei tunnel, anziché nelle fogne, e una potenza di fuoco enorme distrugge la striscia di Gaza, e qui non c'è l'Armata Rossa dall'altra parte del fiume, a Gaza c'è il mondo intero che vede tutto e nessun esercito si muove, come ai nazisti allora oggi agli israeliani viene concesso tutto il tempo necessario per la carneficina.
…E’ un film sulla resistenza al male ontologico della
guerra, in cui non esistono eroi vittoriosi, ma solo eroici perdenti, dannati
in un inferno costruito dall’uomo e per l’uomo, in cui non esiste luce né
speranza, ma solo uno stretto e melmoso labirinto di voci e di disperati umori,
i bassifondi della città, infernale rappresentazione d’un limbo ch’è condizione
umana d’una sfortunata quanto coraggiosa insurrezione e, forse, d’un popolo
intero, a cui la storia ha raramente sorriso.
…Repressa
la rivolta i tedeschi rasero al suolo, con cannonate ed esplosivi, ogni singolo
edificio di Varsavia. Cose che mettono i brividi. Non parliamo di un villaggio,
si tratta di una capitale, e i tedeschi, pure ormai consci della sconfitta che
li attendeva, ancora procedevano con quella determinazione distruttiva. Anche
questo ci verrà mostrato.
E' un film che, se anche non poté denunciare appieno tutte le ragioni storiche dell'accaduto, mostra con un notevolissimo realismo quella che fu l'esperienza di quei disperati. Le scene in esterni, che probabilmente hanno potuto godere (si fa per dire) dei molti luoghi ancora da ricostruire, trasmettono tutta la sensazione di apocalittico che quei giorni contenevano. Sopravvivere a vicende del genere può persino diventare una colpa, e il finale è un vero colpo al cuore. In questo senso la locandina originale, con quell'uomo che si "scioglie", una figura che ancora in piedi già si decompone, è tragicamente bella…
E' un film che, se anche non poté denunciare appieno tutte le ragioni storiche dell'accaduto, mostra con un notevolissimo realismo quella che fu l'esperienza di quei disperati. Le scene in esterni, che probabilmente hanno potuto godere (si fa per dire) dei molti luoghi ancora da ricostruire, trasmettono tutta la sensazione di apocalittico che quei giorni contenevano. Sopravvivere a vicende del genere può persino diventare una colpa, e il finale è un vero colpo al cuore. In questo senso la locandina originale, con quell'uomo che si "scioglie", una figura che ancora in piedi già si decompone, è tragicamente bella…
… Dal punto di vista artistico il film di Wajda è
stato valutato dalla maggior parte dei critici e degli spettatori in modo
positivo. Ne è prova il fatto che gli sia stato assegnato il Premio Speciale
della Giuria, la Palma d’Argento al decimo Festival Internazionale di Cannes
nel 1957. “Il film polacco ha svolto il ruolo dell’ambasciatore dei cambiamenti
della nostra cultura - scrive il corrispondente da Cannes Jerzy Plazewski
citando una serie di interessanti opinioni dei critici stranieri - André Bazin
dei “Cahiers du Cinema” ammira le scene sulle barricate, e soprattutto la
birbantesca gioia di Janczar dopo aver neutralizzato un Goliat, il carro armato
nazista. Edward de Laurot (“Film Culture”, New York) sottolineava la densità
alla Clouzot e la “mancanza d’aria” delle scene girate nelle fognature. Per
Doniol-Valcrose del “France Observateur” Wajda è un regista completamente
maturo. A sentire Lindsay Anderson (“Sight and Sound”, Londra) il nostro film
si merita il premio. Il più critico è Ugo Casiraghi (“L’Unità”): egli sostiene
che al film manchi uno sfondo più vasto e che il conflitto si svolge in maniera
troppo individuale. In compenso si dice conquistato dalla recitazione degli
attori”. Altrettanto positivi sono i pareri pubblicati sulla stampa. Secondo il
giornale francese “Nice Matin” “le sensazioni provocate dai più famosi film
“noir” non sono nulla al confronto con quelle emozioni sconvolgenti che ci
accompagnano, che ci torturano durante la proiezione del film di Wajda. Un film
fatto alla perfezione. Un film che colpisce e affascina”…
Polish director Andrei Wajda finds a
sobering metaphor for the dehumanizing nature of war inKanal, his
relentlessly bleak war drama set during the Warsaw uprising of 1944, by
following a large group of civilians and soldiers in the Polish Home Army
Resistance as they attempt to escape from certain death by retreating through
the watery labyrinth that is the sewer system. Made to run from imminent danger
like helpless sewer rats, they descend midway through the film into what is
nearly a literal hell, as the Nazis above use their booby traps and machine
guns to easily pick them off whenever they dare surface. The mood, which
steadily moves from desperate to fatalistic, makes Kanal difficult to watch, especially
since the second half of the film’s claustrophobic setting stands in stark
contrast to the wide open, if war-torn, spaces of the first, but the history
behind the hopeless situation would make feel-good or even sustained hopeful
moments inappropriate. Despair dominates here and once he gets down and dirty
in the sewers, Wajda makes no concessions toward his audience in lessening the
severity of his vision, for better or worse…
…Prix
spécial du Jury à Cannes en 1957, Kanal est composé de deux parties. La
première narre, avec une louable économie de moyens, les combats désespérés
menés par un groupe de résistants dans un Varsovie laminé par les bombardements
allemands. L’ennemi est rarement filmé, et le réalisateur excelle à dépeindre
ce mélange paradoxal de combativité, découragement, solidarité et peur, qui
atteint un microcosme représentatif de la résistance polonaise. La seconde partie, d’une noirceur totale, relate la fuite
dans les égouts. La tonalité tant naturaliste que surréaliste est saisissante,
et un superbe noir et blanc crée à merveille une sensation d’étouffement. Wajda
ne cherche pas les effets : si la partition musicale est d’un beau lyrisme
expressionniste, elle ne surligne jamais l’action ; si les drames
individuels rejoignent le malheur collectif, jamais la mise en scène ne verse
dans le misérabilisme et l’émotion facile. La plus belle séquence montre un jeune
couple apercevant la lumière au bout d’un tunnel. Leur étreinte de joie est de
courte durée car la sortie est impossible : les Allemands ont grillagé le
tunnel. L’homme étant invalide et
ne pouvant marcher, le couple ne pourra que rester assis en attendant la fin.
Wajda est également subtil dans ses métaphores politiques : la dislocation
des membres qui se perdent dans les égouts symbolise la déstabilisation de
l’unité nationale, et l’inactivité des Soviétiques, jamais évoquée
explicitement, n’en est que plus évidente…
With the Warsaw Uprising coming to a bloody
conclusion, an all but beaten company of resistance fighters is given the order
to retreat through the city’s sewers to its centre. Reluctant to do so, with
each member already seemingly resigned to their inevitable demise, the company
nevertheless follows its orders, descending into the hellish stink below, but
soon comes to find that its new environs are every bit as challenging as the
rubble-strewn, Nazi-infested streets it had just fled. Solidly crafted,
fascinatingly plotted, and well-acted, this influential war drama nevertheless
fails to deliver the nightmarish, visceral punch that it should have, with the
anxiety-ridden, claustrophobic horror of its situation never quite coming
across
La
critica di Guido Aristarco (Guida al film, Fabbri Editori) :
L'unica autentica novità rispetto ai film polacchi, scarsamente significativi, degli anni Cinquanta, che troviamo ne I dannati di Varsavia è nella scelta del soggetto del film, un episodio della rivolta antinazista di Varsavia: avvenimento storico, questo, ignorato e censurato dal regime filosovietico del dopoguerra. Nel 1944, quando già i soldati dell'Armata Rossa avevano raggiunto la sponda della Vistola prospiciente la capitale polacca, più di quarantamila militari e abitanti della città lottarono per due mesi, casa per casa, contro le preponderanti forze tedesche, e furono massacrati senza che i sovietici intervenissero per impedire la feroce repressione. Argomento del film è la tragica fine dell'insurrezione: la fuga attraverso le fogne di Varsavia, di un gruppo di partigiani polacchi ormai impotenti nel fronteggiare gli aerei e i carri nemici.
Solo in apparenza Wajda esprime le istanze popolari antisovietiche e l'«ansia di libertà» di quel momento storico, mentre nega in realtà ogni possibilità di liberazione e di cambiamento, mostrandoci una vicenda in cui i polacchi-patrioti-buoni-puri-altruisti-cattolici diventano martiri della ferocia nazista e del disinteresse sovietico. Nelle fogne di Varsavia muore la libera Polonia e inizia la schiavitù sotto la «dittatura». Il regista non vede prospettive di cambiamento della situazione presente e passata, non vede alternative alla dittatura, trova elementi degni di fiducia solo in dimensioni astratte: il coraggio, lo spirito di sacrificio, la fede dei singoli, ricompenseranno, in una vita futura, coloro che oggi sono sconfitti. Wajda approfitta della fine dello stalinismo non per proporre modelli di vita più avanzati, ma per dichiarare apertamente la propria individualità nazionale, religiosa e ideologica, e per piangere sulla «servitù» inevitabile del suo paese. Non vuole capire razionalmente le cause di un certo sviluppo storico, non si chiede quali fossero le divergenze ideologiche e strategiche che nel '44 dividevano profondamente i partigiani polacchi dallo Stato maggiore sovietico, non prende in considerazione, osservando un evento del passato, né i mutamenti sociali che, bene o male, il regime socialista introdusse in Polonia nel dopoguerra, né alcun altro elemento utile a un dibattito politico. La guerra è per lui una condizione esistenziale in cui trionfa il Male, i suoi personaggi sono situati fuori del tempo, fuori della storia: essi incarnano la situazione eterna e permanente dei «santi» martirizzati dalle dittature. In genere, i film dell'Europa dell'Est che negli anni Cinquanta affrontavano il tema della Resistenza si conformavano al rigido schema dell'esaltazione patriottica dei combattenti per la libertà, rappresentando con toni retorici soltanto gli aspetti «eroici» della lotta partigiana, lotta in cui le due parti avverse erano i termini antitetici d'una visione della storia moralistica e manichea. Wajda non rifiuta questi schematismi e non va al di là di una superficiale esaltazione dell'eroismo, in quanto i personaggi de I dannati di Varsavia, pur sofferenti, spaventati, sconfitti, destinati a morte sicura, sono pur sempre eroi, simboli di virtù degne di ammirazione incondizionata, archetipi dotati di scarsa credibilità (mentre combattono o fuggono il nemico, parlano sempre di «grandi temi» astratti - l'amore, la libertà, la dignità umana - mai dei problemi tattici o politici della loro lotta). Un individuo perde la ragione, uno tradisce, uno pensa solo a sé; dal confronto con costoro risultano maggiormente esaltati gli «eroi» che resistono fino alla morte, sacrificano la vita per la salvezza altrui, sublimano in un purissimo sentimento amoroso il proprio istinto di conservazione.
Questi temi vengono affrontati da Wajda con un linguaggio molto simile a quello dei film d'azione americani. La struttura narrativa e il ritmo del montaggio tentano di creare una forte suspence ponendo in rilievo le reazioni istintive e irrazionali d'un gruppo di persone immerse in una situazione angosciosa. Il fine di tale procedimento è quello di provocare negli spettatori ansia prima, commiserazione poi, senza fare minimamente appello alla partecipazione intellettuale del pubblico. L'indubbia capacità di Wajda nel dominare il mezzo tecnico non produce ricerche stilistiche originali, ma esercitazioni formalistiche fini a se stesse le quali denunciano da un lato le non poche incertezze di un regista quasi esordiente, e dall'altro la loro affinità ai procedimenti formali tipici del cinema di consumo hollywoodiano.
lunedì 25 agosto 2014
El ultimo tren – Diego Arsuaga
un viaggio in treno che è una riscossa per degli amanti dei treni e delle ferrovie.
sapendo che una locomotiva "storica" verrà venduta a uno studio di Hollywood, alcuni vecchietti si mettono in moto per salvare il patrimonio nazionale.
sarà una corsa contro il tempo, e la gente, alla fine, sarà con loro.
attori in stato di grazia per un film epico.
vedetevelo, vi piacerà - Ismaele
da qui
sapendo che una locomotiva "storica" verrà venduta a uno studio di Hollywood, alcuni vecchietti si mettono in moto per salvare il patrimonio nazionale.
sarà una corsa contro il tempo, e la gente, alla fine, sarà con loro.
attori in stato di grazia per un film epico.
vedetevelo, vi piacerà - Ismaele
…El último tren es una
especie de westerncrepuscular
rodado casi en su totalidad en escenarios naturales (los campos y montes del
interior de Uruguay). La película narra con ternura y humor la odisea
subversiva que llevan a cabo tres viejos y un niño (símbolo esperanzador del
recambio generacional) contra la irrupción despótica de la lógica del Mercado
que arrasa con todo lo que se encuentra a su paso. Una lógica cruel y
avasalladora - que está saqueando con especial virulencia (y a veces, con
trágicas consecuencias) el patrimonio público de los países latinoamericanos -
encarnada en El último tren por la figura de un avezado
emprendedor (Gastons Pauls, el acompañante de Ricardo Darín en Nueve reinas) sin escrúpulos.
El itinerario suicida de los tres viejos luchadores acaba
metafóricamente en una vía muerta, en medio de un paisaje agreste y olvidado
(imagen ilustrativa de la periferia infinita y desconocida que rodea la lujosa
ciudad global). Pero eso en la película de Arsuaga (que ha contado con la
colaboración de Fernando León como co-guionista) no es motivo para el
desaliento, ya que es precisamente en esa vía muerta donde se produce el
contagio subversivo, el milagro de la rebelión de los pequeños y los desheredados
que espontáneamente se enfrentan y vencen al Golliat invisible que les atenaza y les
condena de antemano a una resignación escéptica. Una rebelión ingenua y pura,
más sentimental que intelectual, que enlaza el trabajo de Diego Arsuaga con
cintas como La estrategia del
caracol o Pan y rosas.
El último tren es un bello cuento épico narrado en clave de comedia pero
con textura de western y puesta en escena de road movie, cuyo desarrollo
narrativo, con moraleja política incluida, le convierte en una solida propuesta
fílmica apta para muchos tipos (no todos) de públicos. Diego Arsuaga ha
realizado una película llena de rabia y optimismo que logra mantener la tensión
gracias a un sólido guión y a un preciso trabajo de dirección de actores…
domenica 24 agosto 2014
Rosa Luxemburg - Margarethe von Trotta
Barbara Sukowa è Rosa, e per questo film ha vinto il premio come miglior attrice a Cannes nel 1986.
Barbara Sukowa è bravissima (da poco è Hannah Arendt, sempre con Margarethe von Trotta).
chissà se il film è mai arrivato al cinema in Italia e se è passato in tv.
a me è piaciuto molto, di lei e di quei tempi si sa sempre troppo poco, e poi l'incontro col bufalo è davvero straordinario (dopo l'assassinio di Rosa, Karl Kraus diffuse la lettera nella quale Rosa parlò di quell'incontro, e la lesse nelle sue conferenze, qui la lettera).
cercate il film, merita molto -Ismaele
Barbara Sukowa è bravissima (da poco è Hannah Arendt, sempre con Margarethe von Trotta).
chissà se il film è mai arrivato al cinema in Italia e se è passato in tv.
a me è piaciuto molto, di lei e di quei tempi si sa sempre troppo poco, e poi l'incontro col bufalo è davvero straordinario (dopo l'assassinio di Rosa, Karl Kraus diffuse la lettera nella quale Rosa parlò di quell'incontro, e la lesse nelle sue conferenze, qui la lettera).
cercate il film, merita molto -Ismaele
In this film, director
Margarethe Von Trotta presents an inspiring and impressionistic portrait of the
European socialist leader (1870 – 1919) who spent much time in prison as a
result of her unpopular political views. In a performance which won her the
Best Actress nod at the 1986 Cannes Film Festival, Barbara Sukowa reveals
Rosa’s multifaceted personality which encompassed a love of nature, a
sensitivity to suffering, an unflagging hatred of militarism, and a yearning
for peace. After viewing this screen biography, many will no doubt agree with
Helen Deutsch’s evaluation of Rosa Luxemburg: "She was too great to be
considered ‘only a woman,’ even by her enemies."
da quisabato 23 agosto 2014
Údolí vcel (Valley of the Bees) - Frantisek Vlácil
un classico poco conosciuto, nel quale ogni immagine rimanda a un quadro, come capita ai migliori (e Frantisek Vlácil lo è).
una storia medioevale, con signori padroni della plebe e monaci potentissimi.
Ondřej è un ragazzino che la Storia prende, diventa monaco, ridiventa signore, tornando a casa come un novello Ulisse, sposa la vedova del padre, non è una storia leggera.
è anche la storia di un'amicizia con Armin, ma il voto è più forte.
la colonna sonora è di Zdenek Liska, che ha firmato le musiche di tantissimi film di quegli anni.
cercate "Údolí vcel" e godetene tutti - Ismaele
una storia medioevale, con signori padroni della plebe e monaci potentissimi.
Ondřej è un ragazzino che la Storia prende, diventa monaco, ridiventa signore, tornando a casa come un novello Ulisse, sposa la vedova del padre, non è una storia leggera.
è anche la storia di un'amicizia con Armin, ma il voto è più forte.
la colonna sonora è di Zdenek Liska, che ha firmato le musiche di tantissimi film di quegli anni.
cercate "Údolí vcel" e godetene tutti - Ismaele
Unlike many of the
films grouped together under the Czech New Wave umbrella (including the
director's own more celebrated MARKETA
LAZAROVÁ), VALLEY OF THE
BEES is a conventional,
linear narrative; a tale told fairly straight-forwardly. However, it also may
well be one of the very best films of the movement, and amongst the finest
historical dramas ever made...
…This is a complicated
film. Not a happy film at all, and quite graphic in its violence. I enjoyed it
a lot, for its dramatic narrative, but have to confess to being a tad relieved
when it was over.
…It
doesn't have the same fully immersive mental and emotional impact or atmosphere
of his more well known and rightfully heralded masterpiece Marketa Lazarová, but it's equally
well acted, directed, and has a far more accessible story which makes it
perhaps a better starting point for anyone interested in exploring this Czech
master. A director with a vision unlike any of his contemporary peers. His
works are more in line with that of Bergman, Tarkovsky, or Bresson, and were it
not for the severe post Soviet-invasion restrictions, he would likely be just
as revered as they are today.
… If you
were to rank similar films along that light to dark scale, František Vláčil's Údolí včel/The Valley of the Bees would be perfect company for
Bergman's film, and indeed, Ondřej (Petr Čepek), just one of the repressed,
tortured souls that belong to to an order of Teutonic knights would find a
kindred spirit in Max von Sydenow's chess playing knight. Rather than fighting
this darkness, The Valley
of the Bees gives into
and immerses itself in it, producing a film that's brave, thought-provoking and
contentious. Aesthetically, it's breathtaking to look at, and emotionally, it's
hard to endure, which makes for an incredibly potent experience…
… Released just before
the Soviet invasion of Czechoslovakia in 1968, the film was read as an attack
on Communist values and banned by the authorities, thinking that Ondřej's
struggle after being forced into a hierarchical and puritanical order against
his will was a subversive one. In the wake of those turbulent years, this film
as lost none of its potency, and of course, if you look toward the film with a
political agenda you'll undoubtedly find those themes. Just like the comparisons
to the classical art house cinema of Eisenstein, Bergman, Kurosawa and Bresson
are easy to draw and even easier to see, to burden Bees with such
weighty labels is and political readings, in all honesty, rather unfair, since
obviously more than capable of standing up and speaking for itself. This
film is by no means your classic Middle Ages fable, and is most definitely a
nightmare rather than fairytale, since the dragons Ondřej and those around him
must face are far more fearsome than the one St. George ever had to slay.
da quivenerdì 22 agosto 2014
Macunaíma – Joaquim Pedro de Andrade
ispirato a "Macunaíma", un romanzo di Mario de Andrade del 1928, questo film è uno strano e gran bel film.
dentro c'è il Brasile del sertão e quello della metropoli, c'è la dittatura e la guerriglia, c'è mito e realtà, e anche surrealismo.
davvero un film che apre un mondo e che guardi a occhi aperti, come dice qualcuno (qui) è un film unico, che unisce Gabriel Garcia Marquez e Benny Hill, con lo sguardo satirico di Dusan Makavejev.
provare per credere - Ismaele
dentro c'è il Brasile del sertão e quello della metropoli, c'è la dittatura e la guerriglia, c'è mito e realtà, e anche surrealismo.
davvero un film che apre un mondo e che guardi a occhi aperti, come dice qualcuno (qui) è un film unico, che unisce Gabriel Garcia Marquez e Benny Hill, con lo sguardo satirico di Dusan Makavejev.
provare per credere - Ismaele
…Deals with racism, a black inferiority complex, lazy, repressive, corrupt or violent society, and many other things that probably only Brazilians are likely to get. Cartoonishly silly and absurd surrealism.
…Using cannibalism as a metaphor for the evolution of
Brazilian culture as a consequence of exploitation in the aftermath of
colonialism (of national resources and the subjugation of people), capitalism
(of workers in the pursuit of profit), and imperialism (of industrialized
countries in their economic domination over underdeveloped nations) - in
essence, the dynamic consumption and assimilation of other cultures into the
forming of an indigenous, often contradictory national character - de Andrade creates a droll and
absurdist tale on urban alienation, essential identity, and the
irrepressibility of the human spirit…
The spiritual traditions all have a
role for the prankster — Nasrudin in Sufism, Coyote in Native American
spirituality, the Holy Fool in Christianity. These minstrels of madness want to
drive us out of our minds, knowing that from there we will see things from a
different perspective. Maybe we will realize that we are not in charge and that
play is a way to relax a bit and let go of our habitual ways of being in the
world. In some Indian tribes, these crazy ones are called sacred clowns. They
take on animal forms, disrupting solemn proceedings with their bawdy antics of
wild sexuality.
It's good to keep such masters of
revelry in mind while watching this 1969 Brazilian movie written, directed, and
produced by Joaquim Pedro de Andrade. This robust comedy includes elements of
buffoonery, satire of studio movies, political commentary, and a quest motif.
The only way to make it through all the zany twists and turns and silly moments
is to let your inner child take over for a while. Put aside your critical
consciousness and go with the flow of the comic bits, the outrageous shifts,
and the Dionysian rhythms of the story.
…director Joachim Pedro de Andrade lacks filmmaking expertise, he slaps together a hodgepodge resembling Gabriel Garcia Marquez by way of Benny Hill, with loads of campy laughs, slapstick humor, and a plot as mind-bogglingly satiric as Dusan Makavejev (SWEET MOVIE)…
…Which is not to say
that the film, adapted from a 1928 novel by Mário de Andrade (no relation to
the director) is lacking in seriousness. Underneath it all is a meditation on
the riddles of Brazilian identity and the agonies of Brazilian politics. In
1969, Brazil was in the grip of a military dictatorship, and
"Macunaíma," one of whose minor characters is a sexy urban guerilla,
hums with a joyful and pointed anti-authoritarian spirit.
In the first scene, the hero,
Macunaíma, drops fully grown from his mother's belly onto the dirt floor of a
hut in the Amazon. There he is raised alongside two brothers, one black and one
white. Eventually, Macunaíma, who is born black, turns white himself, a
transformation that, in keeping with Brazil's complicated racial ideology, is
at once enormously important and completely meaningless. The hero finds his way
to São Paolo, where he dresses in marvelously (or hideously) bright clothes and
takes up with the lovely guerilla before returning home to his mother. In the
course of his odyssey, he encounters witches and giants, episodes that turn
"Macunaíma" into a raucous and hallucinatory fairy tale. Its
infectious craziness stays in your mind like a novelty pop song that, after a
while, starts to sound like a classic.
da quimartedì 12 agosto 2014
Un lugar sin limites – Arturo Ripstein
tratta da un romanzo di Josè Donoso, è una storia di violenza, di machismo, di vendetta.
Manuela, il travestito, odiata e amata dagli uomini del paese, ha un bar-bordello, in un villaggio che verrà venduto a qualcuno, dal "padrone" del villaggio.
il clima di sopraffazione e di violenza, sempre sul punto di esplodere, si respirano per tutto il film.
all'inizio del film appare una frase (di Christopher Marlowe), che Mefistofele dice a Faust:
Manuela, il travestito, odiata e amata dagli uomini del paese, ha un bar-bordello, in un villaggio che verrà venduto a qualcuno, dal "padrone" del villaggio.
il clima di sopraffazione e di violenza, sempre sul punto di esplodere, si respirano per tutto il film.
all'inizio del film appare una frase (di Christopher Marlowe), che Mefistofele dice a Faust:
…lì dove noi siamo è inferno, e dove
è questo inferno, dobbiamo esser sempre:
e in breve, quando il mondo andrà dissolto
nell'ora in cui ciascuna creatura
è giudicata, allora quello spazio
che non è cielo, sarà tutto inferno (da qui)
è questo inferno, dobbiamo esser sempre:
e in breve, quando il mondo andrà dissolto
nell'ora in cui ciascuna creatura
è giudicata, allora quello spazio
che non è cielo, sarà tutto inferno (da qui)
alla fine capisci cosa vuol dire Mefistofele, non resti tranquillo, l'ansia prende anche chi guarda il film, non riesci a essere fuori, il luogo senza limiti ti cattura - Ismaele
…muchos
de los teóricos del cine que se refieren al cine de Ripstein y a sus recursos
temáticos, hacen referencia a dos tópicos fundamentales: la denuncia de la
intolerancia y al encierro físico en consonancia con la opresión psicológica de
los personajes. El lugar sin
límites se convierte en un
paradigma de estas preocupaciones. Es un filme que expone algunos problemas
sociales del México contemporáneo, posando su mirada enfáticamente sobre el
macho mexicano y sus problemas. Además, maneja la metáfora del infierno, el
macho como diablo, lo malo del pecado y la intención deliberadamente punitiva
del destino.
Basada en la novela homónima de José Donoso, la realización de la transposición de El lugar sin límites fue primero idea de Luis Buñuel, quien nunca se decidió a llevarla a cabo. Aunque no figure en los créditos de la película, el guión fue encomendado en primer término a Manuel Puig; pero éste rehusó poner su firma al trabajo, temeroso del tratamiento que Ripstein daría a la temática homosexual. Roberto Cobo, el joven marginal Jaibo de Los olvidados, es ahora La Manuela, el travesti del burdel, casi el único edificio en funcionamiento de todo El Olivo, un pueblo abandonado por las autoridades y por Dios.
La historia está ambientada en un pequeño pueblo por el que sólo pasa el tren una vez por semana. Allí viven La Manuela, el travesti al que todos conocen, la Japonesita, su hija –producto de una noche de alcohol y del más grande acto de omnipotencia del cacique del pueblo-, y algunas otras prostitutas ya viejas y cansadas como la Cloty y la Nelly. Todas viven al amparo de don Alejo Cruz, una suerte de señor feudal, que intenta vender como sea todas las casas del pueblo para que pueda ser destruido por un consorcio. A la angustiante paz del pueblo llega Pancho Vega después de un año a saldar dos deudas pendientes: con don Alejo, a quien debe el dinero de unos fletes, y con La Manuela, a quien se la tiene “sentenciada” desde entonces, a quien estuvo a punto de “hacerle quién sabe qué” si no hubiese sido por la intervención de don Alejo.
Aunque con alteraciones respecto del final de la novela, que es del año 1967, la adaptación fílmica es muy fiel al original. Las modificaciones en el final acentúan el tono cadavérico y trágico del ser mexicano donde confluyen pasiones, frustraciones y represiones, y donde se concentra el núcleo melodramático fuerte.
Basada en la novela homónima de José Donoso, la realización de la transposición de El lugar sin límites fue primero idea de Luis Buñuel, quien nunca se decidió a llevarla a cabo. Aunque no figure en los créditos de la película, el guión fue encomendado en primer término a Manuel Puig; pero éste rehusó poner su firma al trabajo, temeroso del tratamiento que Ripstein daría a la temática homosexual. Roberto Cobo, el joven marginal Jaibo de Los olvidados, es ahora La Manuela, el travesti del burdel, casi el único edificio en funcionamiento de todo El Olivo, un pueblo abandonado por las autoridades y por Dios.
La historia está ambientada en un pequeño pueblo por el que sólo pasa el tren una vez por semana. Allí viven La Manuela, el travesti al que todos conocen, la Japonesita, su hija –producto de una noche de alcohol y del más grande acto de omnipotencia del cacique del pueblo-, y algunas otras prostitutas ya viejas y cansadas como la Cloty y la Nelly. Todas viven al amparo de don Alejo Cruz, una suerte de señor feudal, que intenta vender como sea todas las casas del pueblo para que pueda ser destruido por un consorcio. A la angustiante paz del pueblo llega Pancho Vega después de un año a saldar dos deudas pendientes: con don Alejo, a quien debe el dinero de unos fletes, y con La Manuela, a quien se la tiene “sentenciada” desde entonces, a quien estuvo a punto de “hacerle quién sabe qué” si no hubiese sido por la intervención de don Alejo.
Aunque con alteraciones respecto del final de la novela, que es del año 1967, la adaptación fílmica es muy fiel al original. Las modificaciones en el final acentúan el tono cadavérico y trágico del ser mexicano donde confluyen pasiones, frustraciones y represiones, y donde se concentra el núcleo melodramático fuerte.
…La película se basa en el conflicto entre dos
personajes: Pancho y Manuela. Pancho ha llegado a El Olivo, el pueblo donde se
desarrolla la acción, y anuncia su llegada en la puerta del prostíbulo donde
está Manuela, quien al reconocer el sonido del camión de Pancho, recuerda la
amenaza hecha por él un año atrás y teme que la cumpla. La presentación de
estos dos personajes inaugura la extraña manera en que se da el proceso de
construcción del género. Mientras Pancho se presenta como un conductor de
camión, profesión asociada a la masculinidad, que llega a demostrar y hacer
valer su hombría cumpliendo lo prometido, Manuela se muestra de una manera más
particular. El primer acercamiento que tenemos a ella como espectadores es a
través de un primer plano de la mano. Inicialmente no sabemos quién es el dueño
de esa mano, pero reconocemos ciertas características corporales que nos
podrían dar una pista del género del portador. Las uñas están pintadas de rojo,
pero el antebrazo es velludo, es decir, un cuerpo de hombre con un atributo
supuestamente femenino. Cuando la cámara hace un plano general de la habitación
y luego un acercamiento a la cama donde duerme Manuela con su hija, reconocemos
que no es una mujer, que es un hombre; por lo menos eso dice su cuerpo, aunque
no sus palabras…
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