giovedì 10 luglio 2014

Arirang - Kim Ki-Duk

alla fine ti chiedi cos'è questo strano film, ci vuole davvero uno specialista per capirlo bene, forse.
o forse è insieme una serie di cose:
1 - sono stato male, ma mi sta passando, sto arrivando;
2 - grazie che vi preoccupate di me, ecco il mio video messaggio;
3 - è stata dura, ma sono sempre io;
4 - voi sì che mi siete amici, ho avuto delle delusioni terribili, dagli amici.

certo non è un film per tutti, se non avete mai visto niente di Kim Ki-Duk, "Arirang" non sia il primo - Ismaele







con l’inoltrarsi della visione, si insinua il dubbio che l’operazione abbia un intento commiserativo, eppure di fronte a frasi del tipo “non mi importa se parlano male di me, io voglio fare solo un film”, il sentimento che scaturisce non è certo di pietà perché la compassione difficilmente si rivolge ad una persona benestante, e non dico ricca perché volo basso, che vive apparentemente come un homeless, ed anche se viene accettata la condizione, quando lo si vede sbraitare contro chissacchi (contro di lui?), o cantare a squarciagola la nenia del titolo, subentra una tangibile indifferenza che non si smuove né di fronte all’apice del film, Kim che si riguarda nella scena conclusiva di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003), né nel finale in cui si compie il suicidio artistico: pistolettate sui set dei film precedenti. 
Se è vero che la speranza muore per ultima, ci auguriamo che Arirang, il cui significato è riconducibile anche all’orografia delle colline, rappresenti il punto più basso nella storia di Kim Ki-duk, così basso che una volta toccato il fondo resta solo che risalire…

Ci sono 4 Kim Ki-duk, come fossero a matrioska. 1) quello depresso, che parla di quanto è successo e di chi è diventato ora. 2) quello spontaneo che lo attacca e che gli fa un intervista dove lo esorta a tornare al lavoro 3) quello esterno che rivedendosi, nello sfogo con se stesso, ride, e quando rivede i suoi film piange 4) la sua ombra, più pacata del Ki-duk spontaneo. 
 Ci sono dei pro e dei contro in Arirang, come dicevo. Innazitutto è l'opera essenziale per capire e comprendere il regista, e allo stesso tempo è la più inutile. Poi ci arrivo.
 Il cinema è terapia. Ci aiuta a vivere meglio e a volte a stare meglio. L'urlo straziato di Ki-duk, Arirang Arirang Ariyo, chiede una cura e può trovarla solo nel suo mezzo espressivo. Si mette a nudo davanti alla sua arma, la cinepresa, e si fa un autoanalisi massacrante per potersi ricostruire piano piano. L'unico modo per tornare a fare cinema e diventare cinema. Kim Ki-duk diventa un film di Kim Ki-duk. Lontano dai suoi personaggi, per sua stessa ammissione, viene ingoiato dalle sue storie…
La cosa peggiore di Arirang è che è finto. Abbiamo un uomo che attraversa una crisi e ne vuole uscire. Sceglie il mezzo, il suo lavoro. Sceglie il modo, il documentario privato. Discutibili ma è quello che è, allora, però, sii fedele a quello che vuoi fare.
 Una confessione senza filtri e senza teatralità. Dici quello che devi, ne fai un film perchè qualcuno te lo produrrà o lo fai da solo, ma quello è quello che è. E invece Ki-duk deve metterla in maniera drammatica, e lo fa notare anche ("Si prima ho pianto, forse l'ho fatto per drammatizzare").
 Il montaggio, le riprese a camera ferma e a mano, gli inserti (Ki-duk sulla ruspa. Adesso posso morire contento), il duetto con se stesso (Tolleranza Zoro). Lo rendono totalmente finto. Prima dice che non c'è struttura, e non ci sono titoli-credits, e musiche, poi però tiri fuori queste cose, chiaramente pianificate. Un pò, sempre rimanendo in tema Von Trier, quello che dicono e poi fanno con il Dogma 95. Fai una cosa intimista e sperimentale, la accetto, poteva benissimo essere una intervista e basta, e però ci metti della finzione che mi isola da te, si frappone tra noi. C'è un filtro di mezzo, lo schermo e non dovrebbe, stavolta. Quando grida contro i fans e li chiama figli di puttana, è falso. Quando piange, è falso. Quando grida distrutto, è falso. Non è falso, ma lo è. E' falso perchè è cinematografico. C'è un idea, ci sono riprese fatte apposta, perchè c'è dietro un intenzione di piazzarle poi qui o là, all'interno del film/documentario. Dov'è quindi la spontaneità, la naturalezza, lo sfogo perde sincerità.
Occhio però. Non voglio bocciarlo. E' molto interessante, molto più di tantissimi esperimenti o cazzate spacciate per artistiche. Solo che sbaglia modo…

…Impossibile dare giudizi estetici su un’opera comeArirang, usare i metri della classica critica cinematografica, siamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso. Naturalmente non siamo così ingenui da non sapere che anche in un’opera simile non ci sia un’abile costruzione (Céline diceva che nonostante tutto l’uomo sta sempre in posa e anche Kim scherza su questo quando in una scena afferma ironicamente “probabilmente prima piangevo per drammatizzare un po’…”) ma alla fine quello che rimane è uno straordinario documento che fa luce sul percorso umano di uno degli autori più importanti del cinema contemporaneo. Speriamo che sia anche il momento della rinascita di Kim Ki Duk e di quel suo cinema che nel passato è riuscito ad emozionarci come pochi.

Scopriamo che lo shock dell'incidente, che per altro non ha avuto particolari conseguenze, non è il solo motivo delle sue turbe, è la delusione avuta dai suoi assistenti che ha caricato il tutto. 
L'occasione introspettiva si presta anche a riflessioni sul cinema. Impugnata una Canon Mark II Kim Ki-Duk medita sulla differenza di ripresa, di come illuminazione e diaframma abbelliscano troppo il mondo, mentre la videocamera no. Considera poi il recitare la parte dei cattivi come la più facile da fare: «Bastardi, non vantatevi di interpretare bene il ruolo dei cattivi dimostra solo che siete dei malvagi!».
Ovviamente l'eloquio porta all'esplicitare la sua filosofia, riscontrabile nei suoi film precedenti: il credere in un ordine di natura, il vedere il bianco e il nero come lo stesso colore, il vivere inteso come sadismo e masochismo... Ma poi c'è il tempo per tornare sugli "oggetti" con una carrellata sui premi vinti e rendere grazie ai festival internazionali senza i quali sarebbe sicuramente fallito in una Corea che non aveva riconosciuto la sua arte.
Il film diario si fa quindi film documento drammatico e funge da seduta psicoanalitica, per finire con la "ripresa" di Kim regista-attore diventa anche film "fantastico". Per realizzare il meccanismo di rimozione Kim lascia la dimora, prende la macchina e come un freddo killer procede con l'uccisione liberatoria di quelli che considerava amici e si sono rivelati opportunisti traditori…

Ed è proprio questo, la sincerità, l'unico dubbio legato a questa operazione apparentemente antinarcisista in cui Kim Ki Duk si fa inquadrare nella versione peggiore: sciatto, ma vestito, invecchiato, con i capelli e la barba lunga.
In certi momenti sembra di assistere a un videomessaggio lasciato prima di un suicidio sia dell'uomo che dell'artista.
Ma sappiamo fortunatamente che Arirang è la testimonianza di uan crisi umana e professionale ormai appartenente al passato: la luce che si intravede in fondo al tunnel si è tramutato in un ritorno al lavoro.  
E se questo one man show fosse solo una brilante trovata esibizionista, per tornare di nuovo sotto i riflettori?

Il film è una lunga intervista con se stesso, a tratti sotto forma di seduta di autopsicanalisi, in altri momenti sotto forma di rimembranze, in cui Kim racconta come dopo Dream sia iniziata la sua crisi artistica e personale, mettendo come punto di inizio il trauma subito per l'incidente occorso durante le riprese del film in seguito al quale per poco non ci scappava il morto.
La doverosa premessa da fare in fase di commento del film è che se, come lui stesso dice, il girare questa confessione video è stata d'aiuto nel superare i problemi, ne siamo tutti ovviamente contenti, che però Kim ci voglia far credere che questa confessione con se stesso sia permeata di sincerità dolorosa e di genuinità, questo francamente risulta difficile da accettare…

Se, dunque, a tratti il tono appare effettivamente autocelebrativo - l'insistita inquadratura dei talloni segnati, il dialogo con l'ombra, le locandine dei film appese nella baita accanto ai premi ricevuti a Venezia e Berlino -, nel complesso questo tentativo risulta genuino ed interessante, specialmente nel momento in cui, fornendo un'interpretazione di quelle che sono le sue paure, esperienze e domande rispetto al futuro nel corso di un dialogo che mi ha riportato alla mente i deliri di Gollum e Smeagol - e anche qui, montaggio da fuoriclasse -, Kim Ki Duk indaga sul suo disagio cercando di portare alla luce tutto quello che, nel corso degli anni e della sua ascesa come icona del Cinema mondiale, pare essersi perduto lungo la strada.
I riferimenti ai collaboratori e produttori scomparsi di colpo - andati dove c'era garanzia di più denaro, con ammissione di avere, a volte, fatto lo stesso - o agli organi statali che conferiscono medaglie legate alla fama conquistata nel mondo senza neppure preoccuparsi di vedere film che criticano la società che loro stessi rappresentano appaiono assolutamente sinceri ed attuali, e se meno interessanti sono gli attimi di commozione del regista nel riscoprire proprio il già citato "Primavera, estate, autunno, inverno... 

…"Arirang" nella sua spudoratezza narcisista è un oggetto anomalo difficile da classificare, che merita una particolare attenzione anche solo per il rapporto che ha, e che avrà nel futuro, con la biografia del suo autore. Atto estremo di esorcizzare i demoni della crisi di ispirazione, costruendo un film dal niente e fagocitandolo/annullandolo con la propria sola presenza, il tormentato sedicesimo lungometraggio del regista sudcoreano mostra la fragilità umana e l'instabilità psicologica del personaggio, il quale con la sua solita ingenuità naïf cerca di esplorare un nuovo territorio, ovvero mettere al centro dell'occhio della videocamera se stesso. E anche se, soprattutto con l'ultima parte, si ha poi difficoltà a credere nella totale onestà di Kim, la strada battuta riesce a tratti a sorprendere e a dimostrare che dentro la gabbia di fisime psichiche e spirituali, c'è ancora l'anima di un regista.

Il film documenta progressivamente la sua discesa negli inferi della depressione più cupa.  In un susseguirsi di campi e controcampi  si alternano  lunghi e drammatici sfoghi del regista, il quale urla a se stesso, e dalla Croisette al mondo, l’urgenza di comprendere fino in fondo la vita. Di grande intensità emotiva la scena in cui Kim rivede se stesso nella sequenza finale di Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera, in cui il protagonista,  un monaco buddista legatasi alla vita una pesante macina di pietra, la trascina su un ripido pendio portando con sé una statua del Buddha in meditazione.  Lo sguardo di Kim che guarda se stesso, si piega al pianto, le lacrime scorrono copiose sul viso che emerge da una coperta lisa: il pubblico si sente direttamente coinvolto nel suo dolore e nella sua fatica, partecipa alla scalata dell’Olimpo che finalmente è raggiunto e il monaco può vedere dall’alto la sua casa/ monastero e raccogliersi in preghiera. Il lacerante conflitto tra corpo e spirito che ha percorso tutto il suo cinema, si rivela in questo sguardo carico di tristezza che rimanda consapevolmente al ripiegarsi in un dolore intimo e universale. Da cui, poi, (ri)nascere alla vita.

Simplement et sans aucune recherche d’esthétisme, il tend vers un cinéma réaliste et sincère. Il joue avec tout ce qu’il a sous la main : ombre et lumière, jour et nuit, bruits du quotidien… Sans aucune équipe technique, il se filme et s’invente des personnages. Avec rien, Kim Ki-duk fait un film où tout est là…

Espérons en tous cas que les silences de ses prochains films feront oublier, par leur profondeur, certains propos des plus basiques portés dans ce documentaire à part. Côté cinéma, ils apparaissent tantôt comme banales, concernant par exemple le fait que les spectateurs éprouvent des sentiments face aux films (sic), que le cinéma est une manière de communiquer (re-sic), qu'il raconte la vie… tantôt comme cyniques, lorsque l'auteur affirme que les autorités culturelles coréennes ne lui auraient jamais décerné de prix si elles avaient vu ses films, ou qu'il insulte face caméra les acteurs qui jouent les méchants (car cela est bien plus facile...). Côté personnel, les réflexions de Kim Ki-Duk sont tout bonnement navrantes, lorsqu'il affirme que « le blanc et le noir » sont identiques, que l'homme a en lui les deux (le sadisme et le masochisme), qu'il nous parle du stress des plantes et des animaux transmis au corps humain quand il les mange, ou du fait que les hommes vivent ainsi « de morts innombrables » laissés sur leur chemin. On préférera donc se rendre au café littéraire du coin plutôt que d'assister à cette longue agonie d'un cinéaste qu'on espère voir vite revenir à des considérations esthétiques et humaines de plus haut vol.

Una segheria/officina in mezzo alla neve, un’isola in un mare bianco. All’interno dell’edificio Kim Ki-duk vive solo, dormendo in una tenda montata in una stanza, come un clandestino in un’abitazione altrui, come in Ferro 3. Invecchiato, appesantito, parla a se stesso, ammette la sua crisi creativa. Passa in carrellata le locandine di tutti i suoi film, appese in una stanza, le sue sceneggiature, le statuette su uno scaffale che rappresentano i tanti riconoscimenti avuti in festival internazionali. Ammette a sé stesso di essere più apprezzato in queste manifestazioni cinematografiche, rispetto a quanto non lo abbia mai premiato il botteghino in patria. Un regista da festival, insomma. Piange vedendo la scena del monaco che porta il fardello, da Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, la sequenza più lunga di un suo film che viene mostrata in Arirang, in cui identifica la sua situazione attuale. Prende l’automobile e urla «Stop, Kim Ki-Duk, stop!» e con una rudimentale pistola, da lui stesso fabbricata nell’officina, si ferma a sparare nelle location dei suoi film. Fa quindi tabula rasa di tutto il suo cinema precedente.
Un film per dire di non essere più capace di fare film. Arirang è un lamento sincero e sentito - non come certi piagnistei ruffiani di Lars von Trier: non un’opera d’arte quanto un atto in sé.
da qui

4 commenti:

  1. a me era piaciuto, ma le recensioni in rete erano terribili... a giudicare da quel che è seguito, direi che la crisi non è affatto passata. Forse quella personale (lo spero!), di certo quello che ha girato dopo poteva anche risparmiarcelo...
    :-(
    comunque sia, non è mai detto che ritorni a fare cose buone

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  2. ne ho letto un po', di recensioni, controverse è dir poco.
    non sai se ci è o ci fa, ma tutto fa spettacolo.
    anch'io preferisco il prima prima di "Arigang"

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  3. Apprezzo molto Kim Ki-Duk, e come autore spesso e volentieri, rientra nelle mie visioni, questo film non lo conoscevo, recupererò :)

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