domenica 8 giugno 2014

La talpa (Tinker Taylor Soldier Spy) – Tomas Alfredson

ottimo stile, quello di Alfredson, riflessivo, lento, senza troppe accelerazioni.
eccezionale Smiley (Oldman).
immagini bellissime, a volte sembrano dei quadri.
la storia non è lineare, per cui ci vuole molta attenzione, che viene ripagata con gli interessi.
due ore ben spese, promesso - Ismaele




Se Lasciami entrare (Let the Right One In) era una sinfonia di freddo, neve e bianco abbagliante, dove il movimento era verticale, qui Tomas Alfredson sceglie movimenti orizzontali, squadrature e colori grigio verdi, sempre un po’ polverosi, che ricreano non tanto l’atmosfera di una spy story delle più classiche, la caccia alla talpa, ma che riconducono in un’epoca, reale e cinematografica, l’Inghilterra degli anni 70, gli anni della Guerra Fredda. Mancano gli odori ma per ciò che resta i nostri sensi sono tutti colpiti e affondati dalla perfetta ricostruzione: scene, costumi, ambienti, musiche, pettinature, montature, luci, tessuti e quella fotografia quasi seppiata che tutto rabbuia e oscura. Perché non erano giorni di sole, quelli, erano giorni di silenzio e sospetto. Viene in mente il compianto Ulrich Mühe guardando Oldman: c’è la stessa solitudine, la stessa speranza soppressa, lo stesso esasperato numero di cose desiderate e mai osate, la stessa frustrazione, seppur un diverso grado di potere, in Smiley e nel Gerd Wiesler di Le vite degli altri…

Il fallimento di una missione in Ungheria obbliga Control, il capo dell’inteligence del servizio segreto britannico (il Circus, in codice), a lasciare il suo posto, assieme al luogotenente Smiley. Smiley viene successivamente riassunto dal governo perché scopra se tra gli agenti del Circus, come già sospettava Control, si annidi una talpa al servizio di Karla (nome in codice del capo del KGB). Il titolo originale prende lo spunto da una filastrocca (tinker, tailor, soldier, richman, poorman…) da cui Control trae gli pseudonimi da attribuire agli uomini del Circus, pezzi di una scacchiera (non solo metaforica) di sospetti ed ipotesi sulla quale si gioca una partita mortale. Control, da capo intransigente che non esclude alcuna ipotesi, vi ricomprende lo stesso Smiley e l'agente, scoprendolo durante le investigazioni (Control è oramai morto), ammira l'inflessibilità del suo capo, di cui la propria è il riflesso perfetto..

Il merito più evidente di Alfredson è quello di aver costruito un lungometraggio di genere che non cade negli stereotipi di questo tipo di cinematografia. Il racconto è sospeso, il ritmo disteso, le pause lunghe, i silenzi anche, le attese innumerevoli. Quasi inesistenti le scene di azione e di violenza. Diversi i flashback che servono a immettere nel racconto ulteriori elementi di “confusione”. Tutto è basato sulla tensione psicologica che scaturisce dall’impossibilità di capire chi tradisce chi.
Anche dal punto di vista formale, il regista ha cercato di evitare luoghi comuni legati al versante commerciale e di azione del genere in questione. Londra appare cupa esattamente come una città sovietica degli anni settanta, i funzionari dei servizi segreti squallidi e senza alcun fascino, gli uffici spogli e senza luce. Ogni accadimento è avvolto da una cappa di squallore e di cupezza che rimanda a un’epoca nella quale questa “guerra” clandestina si era fortunatamente sostituita a una possibile terza guerra mondiale.
Tomas Alfredson governa questo sofisticato meccanismo espressivo con assoluta professionalità, con l’evidente intenzione di rendere il racconto via via sempre più misterioso ed enigmatico. Lo spettatore spera così di rimanere fino alla fine in una condizione di indeterminatezza, nell’abisso del dubbio e del sospetto, appunto. Ma ciò non avviene. Un’inopportuna scena finale, decisamente banale, arriva a spiegare tutto. Si resta così con il sapore triste e inutile della verità invece che con il piacere sottile che può provocare in noi ciò che non riusciamo a comprendere…

Film non solo consigliato, ma addirittura necessario tanto per gli amanti del genere spionistico che per i cinefili tutti: Alfredson è magistrale nel montare e dipanare il complesso viluppo della storia da un lato, mentre dall'altro con un tono sommesso di sincero umanismo svela e empatizza per la solitudine e le debolezze delle sue spie; una piccola perla che illumina questo inizio d'anno cinematografico.

Visivamente impeccabile -elegante e vivido al punto che si sentono l'odore della polvere sui mobili, il leggero graffiare del tessuto dei cappotti, il fumo delle sigarette, l'umido, i sospiri-, il film ha una delicatezza che non si direbbe possibile sulla carta, parlato moltissimo com'è, da attori dal peso specifico enorme (dei quali il recentemente oscarizzato Colin Firth è in fondo il meno impressionante). 
Lo Smiley di Gary Oldman è il più leggero ed immenso, col passo felpato e il cuore gonfio, non si sa se più fragile o più terrorizzante, impossibile cioè da "catturare" in un'impressione univoca. Qualcuno che confonde: un virtuoso del proprio mestiere di segreto ambulante. 
Ma il vero valore aggiunto del film, il tocco che quasi riscrive il genere di appartenenza di questa pellicola, è il suo cuore sentimentale, addirittura romantico. Trattenuto, imploso, mostrato per piccoli indizi, quasi fossero distrazioni, il sentimento amoroso (tragico ma vitalissimo) è ciò che scalda il film di Alfredson da cima a fondo: il punto debole che fa la sua forza, il dettaglio che fa la sua grandezza.
da qui

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