domenica 7 gennaio 2024

Perfect days – Wim Wenders

non ci sono avventure epiche, scene di guerra, lotte di samurai, violenze di yakuza, solo leggerezza e gentilezza.

non sappiamo niente di Hirayama, vive in una mini-casetta, il bagno lo fa ai bagni pubblici, mangia sempre alloo stesso ristorantino, fa una vita regolare, gli piace fare il lavoro ben fatto, per quanto umile sia, libri e musica e le piante sono la sua compagnia necessaria.

se Jorge Luis Borges avesse conosciuto il pulitore di cessi Hirayama gli avrebbe dato un posto fra i giusti.

un film da non perdere, andate sul sicuro.

Kôji Yakusho ha vinto il premio come miglior attore al festival di Cannes.

buona visione - Ismaele

 

 

La capitale nipponica di Wenders è una location a misura d’uomo, fatta di edifici minuti e ordinati, strade sinuose, negozi e ristoranti di fiducia; un reticolato di non-luoghi (per dirla con Marc Augé) che divengono santuari di condivisione, templi sacri di una routine placida e rassicurante, bilanciata da un senso comunitario ineccepibile e invidiabile, a tratti inconcepibile.
Come può Hirayama trovare appagante un lavoro del genere? Il senso trascende l’apparenza, va oltre ciò che la società vede per farsi verbo di accudimento verso un prossimo ignoto e sempre diverso.
In una cornice in cui i luoghi non hanno proprietà specifica, anche il buon senso diviene un patrimonio pubblico da coltivare e la bontà umana acquisisce i contorni di un atto scontato e dovuto, così profondamente avviluppato nella nostra natura da essere imprescindibile.

Con un’inquadratura rigidamente in 4:3, Wim Wenders ci regala uno spaccato normalissimo di vita, lo fa soffermandosi a distanza ravvicinata sulle espressioni del volto, in una palette fredda che assimila tepore man mano che il minutaggio scorre. Prende poi le distanze, quanto basta a regalarci una visione totale della realtà in cui ci troviamo – la luce che filtra dagli alberi, le vetrate colorate delle toitet, un tizio strambo che si aggira nel parco, un bambino che saluta con la manica in senso di gratitudine, il caos di un pub -; si perde nei chiaroscuri al neon atti a circoscrivere un dettaglio, un piacere intimo come la lettura, quella dei libri di autori come William Faulkner, Aya Kōda, Patricia Highsmith, rigorosamente di seconda mano.
Perfect Days ci immerge in un gioco silenzioso e terapeutico, fatto di poche parole e molti gesti, piccoli e preziosi come le piantine annaffiate quotidianamente dal protagonista.
Parole, dicevamo, poche ma essenziali: restano rinchiuse dentro al petto emergendo solo quando davvero servono, distillate con cura per lenire un dolore o regalare un’illusione che abbia un retrogusto di infinito. Hirayama usa la voce quanto basta a gettare ponti verso l’altro da sé, lasciando spazio alla musica, tantissima e densa, coagulata in supporti analogici d’altri tempi, rari quanto la capacità di godere dell’essenziale, di rallentare, di fare del bene senza attendere in cambio null’altro che la bellezza di un sorriso…

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Tutto scorre, ma ogni momento è diverso, o può esserlo. E sembra esserci pace nell’accettazione che le sorprese della vita in fondo sono la vita stessa. Pace, ma non felicità, come scopriamo insieme a lui, quando a stravolgere la sua vita è una nipotina da troppo tempo trascurata, che lo riporta a un contesto familiare troppo doloroso da sopportare, o il riemergere di sentimenti che sotto quella routine erano stati messi a tacere.

L’amore, il senso di colpa, la paura, la gelosia, una fanciullesca voglia di vivere si affollano in una paurosa – quanto non esplicita – contemporaneità nell’ultima parte della storia, che pur restando fedele a un silenzio narrativo denso di significati e lezioni racconta di rispetto e consapevolezza. Un silenzio che non si rompe nemmeno nell’abbraccio con la sorella, né per raccontare la vergogna di aver scelto di fuggire il dolore della morte e dell’oblio. Un silenzio rotto solo dalla musica – bellissima – che Hirayama sceglie, a riempire i momenti nei quali non può restare in ascolto dei suoni della natura e della città in movimento. E che, alla fine, nella splendida Feeling Good di Nina Simone promette una “nuova alba, un nuovo giorno, una nuova vita”.

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Una vita semplice, una routine quotidiana molto strutturata da mane a sera, la passione per la musica (Otis Redding, Patti Smith, Van Morrison che ascoltiamo in musicassetta), i libri e gli alberi che fotografa, i gabinetti che meticolosamente – l’inizio senza guanti è temibile – rende immacolati. La nipote carinissima, la sorella estraniata, alcuni incontri ci rivelano un po’ di più del suo passato, ma il suo segreto è il presente, votato alla ricerca e alla cura della bellezza nel quotidiano.

Minimalista e trascendente, paratattico e iterato, i dialoghi ridotti e l’empatia amplificata, Wenders ripassa devoto la lezione di Ozu e si ritrova ai vertici della propria arte, levando la camera, innalzando lo sguardo dalla toilette agli alberi fino al cielo. E lo fa con un uomo apparentemente senza qualità, confinato in un impiego umile, ma quasi miracolosamente, perfino icasticamente destinato a incarnare servizio e bene pubblico, soddisfazione personale ed esternalità positive e, viceversa, soddisfazione pubblica e beneficio personale. Un’epifania poetica, un atto politico.

Sono i suoi - e sperabilmente possono essere i nostri - giorni perfetti, in cui ridere e piangere al volante, inseguire le ombre con un malato terminale, regalare un libro alla nipote, andare spedito e fiducioso verso il sole.

C’è conciliazione ma non rassicurazione, c’è contemplazione ma non decantazione, c’è in Perfect Days un retaggio che dice del qui e ora, e dunque forse dell’eterno: è un film di piccole cose e grandi speranze, è un film che pulisce i cessi ma che non smetteresti mai di guardare.

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Perfect days supone un punto y seguido en la carrera de Win Wenders, que sigue experimentando con secuencias donde algunas imágenes se van superponiendo unas encima de otras a modo de un cuadro en constante mutación, en el que podemos contemplar desde la distancia los sueños y la asombrosa imaginación del protagonista. Dentro de lo rutinario se esconde todo un mundo de posibilidades y de elementos bellos que podemos apreciar si nos acercamos lo suficiente.

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Ogni giorno una nuova canzone. Ogni giorno una nuova fotografia da scattare. Ogni giorno il sorriso di uno sconosciuto. Può bastare così poco per rendere ogni giorno perfetto? Secondo Wim Wenders sì, anche se mai, nemmeno per un attimo, ci fa pensare che tutto possa essere così semplice e così facile. Hirayama si sforza di affrontare la vita in questo modo, nonostante sia evidente come sotto la superficie, sotto quei sorrisi e quella gentilezza, soffra per un passato che non ci è dato sapere ma di sicuro è fatto di dolore e delusioni. Come per tutti noi…

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Cosa non funziona, quindi? Semplice: se escludiamo i momenti musicali, oggettivamente belli e che conquistano, si tratta di un prodotto che non riesce ad entrare dentro. Da cosa dipende, questo? Probabilmente da una certa leggerezza e semplicità che sono stati impostate nel prodotto, che lo rendono incapace di attrarre in modo profondo, e non gli conferiscono fascino se non in piccole, piccolissime dosi. Non possiamo dire, comunque, che sia un film brutto, ma possiamo invece dire che si tratta di un`occasione persa per dire qualcosa di importante, di profondo, e per dirlo bene. Ottima, invece, la rappresentazione di come si effettuano le pulizie dei bagni pubblici in Giappone: senza dubbio si tratta di un tema di nicchia estrema, ma chi aveva una curiosità del genere ne uscirà con molti punti di domanda in meno. Bella la colonna sonora citata precedentemente, che si affida a canzoni retro note al grande pubblico e di sicuro affidamento. Appena sufficiente per chi capisce di cinema, piacerà probabilmente a tutti gli altri.

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2 commenti:

  1. Anche il film è "perfetto", sorprendente nella sua grazia e nella sua essenzialità. Uno dei film dell' anno

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    1. il gioco delle ombre alla fine mi ha ricordato "quando il bambino era bambino" (https://www.youtube.com/watch?v=W8nKl6qtLMs&ab_channel=gabrielescuderi)

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