primo, non è un film per bambini, se anche i grandi ne capiscono poco.
e però forse i bambini godranno di più vedendo il film, loro non si fanno domande su metafore e simbologie.
visivamente il film è una gioia per gli occhi, e le avventure di Mahito sono pari a quelle di Ercole e di Ulisse.
bisognerebbe vederlo almeno due volte, la prima per gli occhi e la storia, e le altre volte per cercare simbologie e mitologie.
almeno la prima volta godetene tutti.
buona (stupita) visione - Ismaele
…"Non avevo idea di cosa aspettarmi". Scrivo
spesso questa frase, ma raramente con la stessa pertinenza riservata a Il
ragazzo e l'airone, opera preceduta da una campagna di comunicazione tra le più
schive e contemporaneamente affascinanti degli ultimi anni. Campagna,
oltretutto, che il sottoscritto ha abbracciato in pieno, rimanendo
completamente sorpreso tanto dalla trama quanto dalla struttura di un film
misterioso solo all’apparenza, ma in realtà sorprendentemente chiaro, dritto,
persino premuroso nell’accompagnare lo spettatore un filo attento lungo il
percorso di crescita ed elaborazione del lutto compiuto dal protagonista
attraverso una vero e proprio rito iniziatico. Miyazaki elabora un’opera
sofisticata e allo stesso tempo accessibile, piena zeppa di simboli, esoterismo
e mistero, eppure "calda", concentrata com’è sui suoi protagonisti e
sulle emozioni che provano; in definitiva, uno dei migliori Ghibli degli ultimi
anni e, forse, di sempre.
…Agli appassionati che potrebbero forse
desiderare nuova idee-sorpresa, come alla visione di Laputa, Principessa Mononoke o La città incantata, vogliamo dire che a un maestro del
cinema dell’età di Hayao Miyazaki può essere concesso di creare echi tematici e
visivi con le sue opere precedenti, come gli uccelli cartacei di La città incantata, la malattia della madre delle protagoniste
di Il mio vicino Totoro, il piccolo tunnel, ancora
in Totoro, che diviene un grande tunnel dove si perdono i
genitori di Chihiro in La città incantata.
Ma questo compendio della sua filmografia,
in realtà, per taluni aspetti è il tessuto per creare del nuovo: nel suo
viaggio dello spirito e della mente Miyazaki raggiunge David Lynch, riuscendo
come lui a fare dell’inquietudine e dell’oscurità, bellezza e dolcezza; dei
percorsi qualcosa d’inconoscibile e chiuso (il finale qui non mette fine);
l’antro astrale del signore della torre è prossimo alla Loggia nera di Twin Peaks, stanza misteriosa e minuscola che tutto
collega e controlla e di confine tra la vita e la morte. E soprattutto i
personaggi sono forse doppi, (ir)reversibili e segretamente schizofrenici come
in Strade perdute e Mulholland
drive: madre e sorella sono forse la stessa persona, così come pure
la dolce Himi dai poteri magici e forse addirittura lo stesso Mahito, come
sembrano suggerire i nomi della madre morta e del figlio (Mahito-Nihilo).
Gli stati della mente e della psiche si
(con)fondono in maniera magistrale con il viaggio al confine tra vita e morte;
e inferno, limbo o ade (il non-luogo del dopo morte nel mito greco) trovano una
forma meravigliosa e paradisiaca. Aggregando e disgregando le forme dei corpi e
della materia, lo spazio e il tempo.
…Ma qual è il vero significato dietro Il
Ragazzo e l’Airone? La risposta a questa domanda sembra essere tutt’altro
che semplice.
Lo stesso Miyazaki, al termine della proiezione di anteprima ha lasciato un
messaggio che recitava pressapoco: “Forse non lo avete capito. Nemmeno io lo
capisco.”
Le chiavi di lettura per interpretare Il Ragazzo e l’Airone sono
molteplici e, indubbiamente, occorrono più visioni per poter comprendere
al meglio alcuni degli aspetti racchiusi al suo interno.
Già a una prima visione, emerge un approccio
autobiografico: l’incubo della guerra, l’azienda di famiglia che
costruisce componenti per aerei, il rapporto con la figura paterna, persino la visione di
un incendio di un ospedale, sono tutti elementi appartenenti
all’infanzia del regista. Il titolo originale del film “E
voi come vivrete?” è proprio il titolo del libro
che Miyazaki, come fa il
piccolo Mahito nel film, lesse da bambino durante
l’assenza della madre, costretta in ospedale per ben otto anni a causa di una
grave tubercolosi.
Facendosi carico di questa dimensione personale,
l’animatore giapponese sembra volersi identificare con il protagonista e con il
suo viaggio che, non a caso, inizia dopo un atto di autolesionismo.
La pietra con cui Mahito si ferisce alla testa rappresenta sotto quest’ottica
l’atto di Miyazaki di riaprirsi ancora una volta alla creatività e alla
produzione di nuova arte nonostante i suoi ripetuti tentativi di ritirarsi. Un
atto per lui doloroso ma, in fin dei conti, inevitabile e
necessario.
Immergendosi nei suoi ricordi, il regista cerca di fare i
conti con il proprio passato e con la sua interiorità, arrivando ad analizzare
varie tematiche a lui care e traendo ispirazione da molte opere legate alla
tradizione classica e non solo.
Il
viaggio per recuperare la zia/madre riporta
alla memoria la discesa di Orfeo negli inferi alla
ricerca di Euridice e, contemporaneamente, quella di Dante che
si addentra nelle profondità infernali (riferimento reso esplicito persino
dalla scritta “Fecemi la Divina Potestate” incisa sia sulla porta della torre
sia sulla porta dell’inferno dantesco). L’airone , che nella cultura
giapponese simboleggia il passaggio verso l’aldilà, rappresenterebbe il personale Virgilio designato per
scortare il protagonista lungo il suo percorso.
Un percorso districato tra varie dimensioni
temporali e simboliche in cui si mescolano morte e vita e che
porta infine alla scoperta della creazione, rappresentata dalla figura
misteriosa del prozio di Mahito, il demiurgo al quale è affidato
l’equilibrio dell’universo descritto ne Il Ragazzo e l’Airone.
L’uomo, stanco e affaticato e ormai costretto a costruire continuamente nuove
forme (definite da lui tredici elementi semplici) sulle quali fondare il
proprio mondo, vuole vedere in Mahito un nuovo erede, il
sostituto degno di prendere il suo posto.
E così ci troviamo inaspettatamente di fronte a un
bipolarismo interiore racchiuso nell’anima di Miyazaki stesso.
Entrambe le figure, sia il vecchio che il bambino, rappresentano la personalità
del regista giapponese, divisa in un dualismo in costante
conflitto. Se da un lato l’anziano vuole che il mondo si mantenga
e che la costruzione resti in equilibrio, il bambino desidera invece fuggire e
vivere in libertà, lontano dal peso che quel mondo sembra comportare.
La fuga finale nel mondo vero sembra apparentemente dar
forza alla componente più infantile del ragazzo, ma la realtà è forse
ben più complessa di quanto sembri. Mahito ha infatti
afferrato istintivamente uno dei tredici elementi per portarlo
con sé, nel suo mondo. Una mancata rinuncia, sottolineata inoltre dalla
cicatrice indelebile sulla sua tempia, simbolo dell’atto creativo violento ma
necessario al quale sembra impossibile sottrarsi.
De Il Ragazzo e l’Airone si potrebbe
discutere e scrivere molto, essendo questa un’opera stratificata
su vari livelli e che cela dentro di sé molti significati
nascosti, molti dei quali forse troppo difficili da spiegare.
Questo è forse uno degli aspetti più meravigliosi del lavoro
di Miyazaki e della sua magia. Quella particolare magia che non
si può né spiegare né raccontare, ma solamente imparare a vivere.
…Per comprendere la bellezza narrativa
dell’ultima fatica del maestro dell’animazione nipponica è necessario partire
da un presupposto essenziale: ogni singolo elemento
utilizzato e mostrato ha un valore altamente simbolico. Questo
vuol dire che ogni cosa è diversa da come sembra ma, soprattutto, ha il compito
di dare una forma riconoscibile alle problematiche interiori del
giovane Mahito. Il ragazzo, infatti, dopo aver perso la madre
in un tragico incendio durante i combattimenti della Seconda Guerra Mondiale,
si trova trasportato in un mondo che non conosce e rifiuta. Il padre ha
iniziato una nuova relazione proprio con la sorella della moglie. La
somiglianza tra le due donne colpisce intensamente Mahito ma, al tempo stesso,
lo allontana affettivamente ancora di più evidenziato la perdita della madre.
A questo, poi, si aggiunge anche
l’estraneità di un nuovo ambiente in cui è stato condotto per allontanarlo
dalla grande città in attesa che la guerra finisca. Tutti elementi disturbanti
che nell’animo di Mahito producono un distacco assoluto rispetto a ciò che
mostra e ciò che sente. Così, circondato da un mondo di adulti accudenti ma
comunque assenti, si trova a dover gestire da solo la complicata
elaborazione del lutto e la dolorosa ma inevitabile
accettazione della morte della madre.
Un percorso che Miyazaki ha scelto di
rappresentare attraverso la costruzione e l’utilizzo di un luogo misterioso
come una torre, all’interno della quale è custodito un universo parallelo
gestito dalla magia. Il confronto, dunque, tra il mondo magico e quello
naturale è evidente. Allo stesso tempo, però, si evidenzia anche un altro
rapporto speculare. La torre, infatti, altro non è che la rappresentazione simbolica del tormento emotivo di
Mahito. Un mondo interiore che cela a chiunque, forse
anche a se stesso, in cui l’unica ragione di vita è la ricerca della madre. Per
questo motivo, dunque, il solo modo per poter
accettare la realtà effettiva è immergersi completamente in quella emotiva,
sperando di trovare la motivazione giusta per tornare a vivere…
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