venerdì 20 dicembre 2024

La stanza accanto - Pedro Almodóvar

a Venezia nel 2024 leone d'oro come miglior film.

non ricordo film di Almodóvar senza qualche sorriso, anche nei film più "seri".

nell'ultimo film non c'è niente da ridere, la Morte è la protagonista. 

e però, sia pure con "mestiere" e con attori davvero bravi, il film appare freddo, troppo serio e troppo tragico, per lo stile di Almodóvar. 

nel suo primo film in inglese (sia pure girato per metà vicino a Madrid, leggi qui) il regista perde quella virtù che spesso pratica, la leggerezza. 

se gli dessi un voto sarebbe la sufficienza, comunque è un film da vedere, ognuno si farà la sua opinione.

buona (mortale) visione - Ismaele

 

 

 

 

A mancare, rispetto al passato, è il calore tipico dei film di Almodóvar, il quale nelle sue incursioni più serie è sempre riuscito a trovare un giusto equilibrio tra la gravità del dramma e l’ironia del mondano. Ne La stanza accanto, invece, si percepisce spesso una certa disconnessione tra ciò che si vede a schermo e la materia trattata, un lirismo visivo poco ispirato, nonché dialoghi farraginosi, didascalici e spesso ridondanti, tanto che il personaggio interpretato da John Turturro – un ambientalista radicale – sembra inserito solamente per lanciare un tiepido monito extrafilmico. A tratti, sembra quasi di essere di fronte a una versione depotenziata di Julieta. Così, suggestioni di pura poesia, a partire dalla neve rosa sino ad arrivare allo splendido riferimento a I morti di James Joyce (con tanto di richiamo a The Dead di John Huston), si alternano a momenti di grande spessore attoriale che appaiono come eccessivamente autoreferenziali e fini a se stessi. Perché nemmeno le ottime prove di Tilda Swinton e di Julianne Moore possono compensare, a malincuore, il substrato emotivo carente di un film che colpisce solo in superficie, senza mai spingere fino in fondo.

da qui

 

La stanza accanto non è soltanto un’altra variazione sulla morte ma anche sui sentimenti – la passione, il rancore – e sul tempo perduto. È un’altra dichiarazione d’amore alla ‘magnifica ossessione’ di un cinema che guarda, in modo ancora più evidente che in passato, Fassbinder e Sirk in cui Julianne Moore e Tilda Swinton possono essere le sue reincarnazioni, soprattutto l’attrice londinese, che incarna la morte e la rinascità e dimostra, dopo Suspiria di Guadagnino, che può duplicarsi o, in quel caso, addirittura moltiplicarsi in tre personaggi. Nei fitti dialoghi tra le due protagoniste però qualcosa si blocca, non arriva, resta a metà strada. Certo c’è tutto: abbracci, lacrime, rimpianti. La stanza accanto poteva avere quegli slanci del vertiginoso Zinnemann di Giulia nella sintonia che si era instaurata tra Jane Fonda e Vanessa Redgrave. Il film di Almodóvar si blocca invece al primo livello, quello della rappresentazione dove delle due protagoniste, in cui il metodo, la tecnica, diventano tra gli elementi principali per far apparire questo film struggente quando invece non lo è al contrario del grandissimo film precedente, Madres paralelas. Le cicatrici della ‘storia privata’ restano otturate invece da una ‘personale autocelebrativa’ del proprio cinema. La stanza accanto è come una mostra sul cineasta spagnolo dove in una stanza ci sono i suoi modelli di riferimento: Buster Keaton in tv, i dvd di Lettera da una sconosciuta e The Dead. Gente di Dublino, il poster di Ingrid Bergman per creare un parallelismo con il personaggio interpretato da Julianne Moore (ma no!).

La stanza accanto è funereo ma non come Wilder di Fedora. Quando l’opera del cineasta non è al meglio, si chiude in una forma elegante e artefatta, proprio come la neve rosa che cade su New York. Solo la deviazione dell’interrogatorio in polizia risveglia il film dal suo lungo e compiaciuto grande sonno. Ma forse lì c’è già, o ci poteva essere, un’altra storia…

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Almodovar al suo debutto in un lungometraggio in lingua inglese. Almodovar che prende di petto un tema fra i più spinosi e controversi, quello dell'eutanasia, con una netta presa di posizione politica che ha ispirato anche il suo toccante discorso di ringraziamento a Venezia per il Leone d'oro. Almodovar che dirige due fra le più talentuose ed esigenti attrici del panorama mondiale.

"La stanza accanto" è un melodramma raffreddato, che evita facili sottolineature emotive e tentazioni strappalacrime, è puro Almodovar ma è anche una ricognizione originale in un territorio diverso, un tentativo di raccontare sullo schermo un dolore così straziante da poter essere placato solo con il desiderio della morte…

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E qui Almodóvar compie il primo passo verso la sublimazione. Quando Martha lascia la clinica e torna a casa fermamente decisa a organizzare la propria dipartita, la messa in scena si fa infatti più sintetica e il melodramma viene silenziato, disinnescato. Il passato rocambolesco sparisce dalle immagini, niente più flashback, niente più storie, niente più tortuosità ma un lucido e metodico piano che prende forma circondato dei segni di quella vita dalla quale la donna sta per congedarsi.  Mobili, oggetti, libri, taccuini, film, fotografie, scatole, buste, fogli, tutto nella casa è traccia e sedimento, memoria senza mai nostalgia: la casa è li, accogliente, avvolgente come un abbraccio discreto. Ma non è li che Martha può morire. Ci vuole un’altra casa e una altro passaggio della messa in scena verso un’ulteriore asciuttezza, verso un’ulteriore svuotamento, verso un’ulteriore essenzialità. Così Martha e Ingrid possono abitare insieme solo un nuovo spazio, uno spazio altro dove non c’è memoria, minimale ma non asettico, elegantissimo, ricercatissimo, ma dove nulla è personale o familiare: solo superfici, linee, vetrate, pieni, vuoti, dove i colori possono essere solo pieni, dove non ci sono sfumature, dove le porte possono essere solo aperte o chiuse, definitive. E dove la morte può diventare un magnifico quadro composto con precisa meticolosità al momento giusto.

 

In quegli spazi che mutano, in quella scena che si asciuga, in quelle parole che dicono tutto senza mai pesare, Almodóvar trova il compimento di un vero capolavoro, una lezione di cinema, di regia, di messa in scena, di scrittura. La grande lezione di un maestro per nulla senile, ma capace come nessuno di parlare con umanità e magnificenza della vita e della morte dicendo tanto del mondo strambo in cui viviamo, di dignità e di diritti, di minacce e di speranza, di sofferenza e di bellezza, di amicizia e di condivisone, di responsabilità e di empatia, di rispetto e di autodeterminazione.

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Insulso. Banale. Mortale. Si ma nella noia! Altro che eutanasia. Qui lo spettatore muore da solo. Senza aiuti esterni

Insulso. Banale. Mortale. Si ma nella noia! Altro che eutanasia. Qui lo spettatore muore da solo. Senza aiuti esterni

Alla prova americana non ha retto.

Ma chi glielo doveva dire al Pedro de noialtri di andare a crasharsi a 75 anni nelle produzioni, sistemi, visioni USA, quando il suo è sempre e solo stato un cinema europeo? MAH

I misteri della fede

Bastassero due eccelse attrici a far riflettere su un tema cosi delicato come quello della malattia, il cancro alla cervice e due amiche che non si vedono da trent'anni 

Ma voi davvero uccidereste una che non vedete da secoli?

O le stareste vicino con i problemi che comporta a livello legale, morale e spirituale l'eutanasia? 

Il film non regge, annoia ha in sostanza una brutta energia, non di vita, ma di bieca assoluta e devastante morte !

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"Se vuoi mandare un messaggio, spedisci un telegramma, non fare un film"

Non sembra neanche Almodóvar! Film a tesi pretenzioso e noioso, due ore di dialoghi privi d'interesse, situazioni statiche e una citazione letteraria ripetuta più e più volte nel vano tentativo di commuovere lo spettatore.

Julianne Moore e Tilda Swinton sono brave e ce la mettono tutta ma non riescono a salvare un film in cui le situazioni di potenziale conflitto e le occasioni per far emergere il dilemma etico (ad esempio la perdita e il ritrovamento della busta con la pillola) si risolvono da una scena all'altra come in uno sceneggiato televisivo. E mentre lo spettatore assonnato aspetta il guizzo di regia o di sceneggiatura che giustifichi la spesa del biglietto, Turturro pontifica sul disastro ecologico.

Tutto si svolge ineluttabilmente come da copione. L'unico momento in cui il film si rianima un po' è l'interrogatorio con la guardia bigotta, ma anche questa occasione cade nel vuoto con l'arrivo dell'algida avvocatessa. Quando infine si presenta la figlia della Swinton ci si aspetta una svolta, un sussulto, e invece anche questa possibilità cade nel vuoto e il film si spegne mestamente.

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mercoledì 18 dicembre 2024

Il giorno dell’incontro – Jack Huston

il titolo pare sia un omaggio a un corto di Kubrick da giovane, chissà.

tutto accade in un giorno, Mike chiude i conti con se stesso, cerca la moglie (quando canta Have You Ever Seen The Rain? chi non si emoziona dovrebbe farsi visitare da uno bravo), e la trova, ma non riesce a parlare con la figlia, scommette tutto quello che ha per la sua vittoria con un allibratore di fiducia, incontra il padre malato in una casa di riposo, va in cimitero a chiedere perdono a un bambino (guardando il film capirete perché).

in un bianco e nero d'altri tempi (è un complimento) Mike vive la sua personale via crucis, sotto l'ala protettiva del suo eccezionale allenatore, che la mattina dopo l'incontro passerà a vedere come sta il campione.

pochissime sale, grande film, da non perdere.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

Fotografato in un bianco e nero elegante che richiama capolavori come Toro scatenato, ma con un approccio registico e recitativo più simile al primo Rocky, Il giorno dell’incontro ci fa muovere per una Brooklin degli anni ’80 al fianco di un protagonista e dei suoi demoni. Un uomo che ha compiuto errori gravissimi e che è cresciuto attraverso di essi ci viene mostrato pronto a compiere il passo finale. Per il suo esordio, il regista si affida a un attore dal grande carisma come Michael Pitt, credibile sia nella struttura fisica che nella capacità di mettere in scena un uomo spezzato, che dopo avere “meritatamente” sofferto, prova a trovare la forza di “lasciare andare”. Straordinaria la sua capacità di trasmettere con lo sguardo una tenerezza a tratti insostenibile, che ben contrasta con la durezza dei suoi muscoli tirati e della sua mascella storta.

Al suo fianco un cast di attori semplicemente spettacolare. Insieme a un Ron Perlman che sembra essere nato per interpretare il ruolo dell’allenatore di boxe, troviamo i piccoli ma significativi ruoli di John Magaro, Steve Buscemi e, soprattutto, di un monumentale Joe Pesci. L’81enne attore premio Oscar è chiamato a interpretare il padre di Mike, evocato per tutto il film come il villain finale da sconfiggere e che poi appare senza quasi pronunciare parola, lasciandoci stupefatti.

Fondamentale anche la scelta musicale, spesso diegetica e che ritorna a livello drammaturgico. Come a sfiorare le corde emotive dei suoi personaggi, archi soffusi e note di piano accompagnano il viaggio di Mike tra i bassifondi della sua New York e, in particolare, nel suo passato. Frequenti flashback, infatti, ricostruiranno la storia dell’uomo e del campione, ciò che ha subito, ciò che ha ottenuto e ciò che ha perso. Alla fine de Il giorno dell’incontro, il duro e fragile Irish Mike non avrà più segreti per noi.

Un film sul pugilato senza pugilato, si direbbe. Un po’ sì, se non fosse per l’ultima, attesissima, sequenza di combattimento, in cui la tensione emotiva accumulata per oltre un’ora si libera un cazzotto dopo l’altro, lasciandoci stesi senza più energie come pugili dopo 12 round. Esanimi, ma scossi nel profondo dall’umanità che ci è stata riversata addosso con tale, splendida, semplicità.

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Il giorno dell’incontro non è un’opera prima che cerca il nuovo – anzi cita il classico -, né un museo per i virtuosismi di Jack Huston, né una storia dalla potenza strabordante: ma è un film sincero e sentito, che si nutre di un immaginario (senza per questo sentirsi in dovere autoriale di reinventarlo) che ricalca in modo a tratti greve e che riabilita un enorme Michael Pitt per ricordarci che grande attore sia stato ed è ancora, anche se dopo un po’ di anni di buio.

Doveroso citare anche il massiccio Ron Perlman e i cameo eccezionali di Steve Buscemi e soprattutto Joe Pesci.

Ma soprattutto il film riesce, con semplicità e incoscienza, a restituire la New York degli anni Ottanta, sporca e disperata come non si vedeva da tempo, intensa come la disperazione silenziosa del protagonista del film.

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…Deve fare i conti con il suo doloroso passato fatto di violenze paterne e suicidi materni.

Jack Huston ci rappresenta tutto questo calvario pedinando con la sua cinepresa un Micheal Pitt da Oscar, una faccia e un corpo da macello che ricorda il Mickey Rourke di The Wrestler.

Usando quel bianco e nero tanto caro al mondo della boxe soprattutto da quel capolavoro che è stato Toro Scatenato qui degnamente rappresentata da un Joe Pesci (produttore esecutivo) che parla solo con gli occhi.

Ma è soprattutto la colonna sonora che ci racconta il viaggio all’interno del dolore di Mikey l’irlandese.

L’uso di The Book of Love di Peter Gabriel che accompagna l’incontro tra Micheal Pitt e Nicolette Robinson è di una poesia disarmante. Ci fa capire l’immensità di questo amore anche davanti a una pizza col doppio formaggio.

Anche se il meglio ce lo riserva Have You Ever Seen The Rain? cantata live sulle note di un pianoforte che gronda dolore e la voce di Nicolette Robinson strozzata dalle lacrime per un amore che è stato e che non ritornerà più.

Grazie Jack Huston che ci hai regalato una delle opere prime più belle degli ultimi 10 anni e uno dei personaggi che difficilmente ci toglieremo dalla nostra memoria.

Un personaggio che va incontro al suo destino con una dignità e una tenerezza dilaniante che ci devesta l’anima.

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domenica 15 dicembre 2024

Il generale dorme in piedi - Francesco Massaro

una satira della vita militare e dei militari.

Ugo Tognazzi è il colonnello che non riesce a diventare generale, è un veterinario che diventa il medico/chirurgo nell'esercito, innamorato della moglie (Mariangela Melato) e poi vedova di un generale.

la sua opera d'arte è un libro autobiografico con il quale "ricatta" i suoi superiori, e riesce a diventare generale.

non sarà un capolavoro, ma si vede bene.

buona (antimilitarista) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

Commedia militare in cui alcuni ottimi spunti satirici sono a tratti annacquati da un registro farsesco e da alcune dispersioni (i flashback, la sottotrama sentimentale). Tognazzi è comunque formidabile nei panni dell’ufficiale arrivista dal subconscio incontrollato, per di più assistito da un cast estremamente valido in cui emergono in particolare Scaccia (grandioso nella sua monoespressività) e Fabrizi (per una volta nei panni di un personaggio dignitoso). Tutt’altro che disprezzabile la Melato, per quanto relegata nelle scene meno interessanti. Tre stelle(tte).

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Commedia militare un po' grottesca che incrocia spesso la farsa e "promuove" il grande Tognazzi ai massimi gradi d'attore. Vicenda che tratta di guerra e di pace, prendendo in giro chi ama la guerra ma senza addentrarsi, saggiamente, in particolari o introspezioni che potrebbero appesantire lo spettacolo. Una critica attraverso l'ironia, con un impiego discreto di mezzi e di simboli, per un film piacevole da seguire e che non necessita di particolari predisposizioni per la visione.

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Umberto Leone è un colonnello ex veterinario che in guerra si è improvvisato medico per la necessità di operare i feriti. Per ricambiare la sua dedizione sul campo viene nominato direttore della Scuola Superiore di Sanità a Firenze, ma non rinuncia alla sua vera ambizione: diventare generale. Per ottenere la carica inizia a scrivere le sue memorie, raccontando episodi non proprio lusinghieri su alcuni esponenti delle alte gerarchie militari, con il proposito, in seguito, di ricattarli. Ma deve stare attento ad una sua bizzarra peculiarità: mentre dorme tende a raccontare verità scomode, e per questo è costretto a dormire in piedi...

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Commedia non disprezzabile, con un buon Tognazzi ed una base critica - sebbene non molto incisiva - all'esercito e, più in generale, al potere, disposto a qualunque compromesso o bassezza pur di autoconservarsi. La regia è un po' assonnata, la trama ogni tanto sussulta con qualche scena godibile, ma in definitiva si riassume in ben poco. Poche pretese, ma mantenute.

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sabato 14 dicembre 2024

L'orchestra stonata - Emmanuel Courcol

il regista (già indimenticabile sceneggiatore per Philippe Lioret) riesce a girare un film convincente e commovente, che in alcuni momenti fa pensare a Ken Loach, a Stéphane Brizé, ai Dardenne.

Emmanuel Courcol è bravo a non fare un film patetico e strappalacrime, riesce a sfuggire le situazioni "a rischio" per la solidità della pellicola.

i due fratelli sono interpretati da Benjamin Lavernhe e Pierre Lottin, ottimi attori.

i temi della storia sono stati già visti al cinema, ma non c'è niente di ripetitivo, di copiato, il film è fresco e coinvolgente.

un film da non perdere, promesso.

buona (musicale) visione - Ismaele

e


 

L’orchestra stonata (dal 5 dicembre al cinema) è un bel film, ed è un bel film come soltanto i film francesi (e le dramedy francesi in particolare) sanno essere belli, larghi, pop, sorridenti e insieme commoventi, senza mai diventare scontati, melensi o troppo retorici. E soprattutto sanno tenere insieme generi diversissimi, come il cancer movie (che però qui diventa solo pretesto, innesco per la trama), il family drama e la commedia sociale con la massima spontaneità e semplicità, muovendosi naturalmente tra una certa delicata ironia e toni invece più seri (ma mai seriosi). Il tutto attraversato dalla musica (la classica, il jazz, ma anche brani meno scontati, come Emmenez-moi di Charles Aznavour), che è insostituibile punto d’incontro/scontro tra due fratelli e il modo di essere comunità, di diventare persino famiglia per una banda sgangherata della città di minatori di Walincourt, nel distretto di Lille, Francia del Nord…

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Uomo burbero ma di buon cuore che vive ancora con la mamma, che non è la sua vera mamma, lo ha solo adottato, Jimmy accetta di aiutare il fratello Thibault. Qualche tempo dopo, Thibault cercherà di sdebitarsi con lui proprio dando una mano all'orchestra scombinata del paese. In pochi minuti, lo avrete capito, c’è tutto. La città e la provincia. La solitudine dei ragazzi ricchi e la ricchezza dei ragazzi cresciuti nelle comunità operaie. Le due orchestre, La crisi economica. Il desiderio di ritrovare la propria vita…

…E due fratelli che dovranno volersi bene. Uno ricco e arrivato, benché malato, perché adottato da una famiglia altoborghese, la mamma è Ludmila Mikael, che ricordo esordì in un vecchissimo film di John Flynn, “Il sergente”, e l’altro provinciale, non ricco, confuso, con un matrimonio fallito alle spalle, una professione precaria, ma con l’orecchio assoluto. Se la mamma di Thibault avesse adottato anche lui, magari il direttore d’orchestra sarebbe stato proprio Jimmy e non Thibault. Se Thibault fosse stato adottato dalla mamma di Jimmy cosa sarebbe capitato? Mah… Me lo sono visto fino alla fine con piacere.

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…ha il merito di arrivare diretto e di affrontare in modo efficace la crisi economica accennando alla condizione dei lavoratori della fabbrica dove lavora Jimmy. In più è proprio la differenza di recitazione tra Lavernhe e Lottin che rende il film più autentico e che lo fa crescere alla distanza come nell’emozionante finale man mano che evolve il rapporto tra i due personaggi. Qui si sente l’eco del cinema di Lioret di cui Courcol è stato sceneggiatore, anche nei bellissimi Welcome e Tutti i nostri desideri. La malattia e la solitudine sono vengono mostrati in modo sobrio in grado di incidere in maniera forte. La vita e la sua messinscena diventano elementi coincidenti, come nel precedente film del regista, Un triomphe. Lì il teatro, qui la musica. Entrambi si portano dietro tracce di storie vere. È poi il cinema ad esaltarle senza tradirle e a darci l’illusione di prolungarle e a renderle dei passaggi che ci porteremo dietro per sempre.

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martedì 10 dicembre 2024

La Bestia (La bête) - Bertrand Bonello

mentre il titolo del film francese è La bête (in italiano La bestia), sui manifesti si legge che il titolo è The beast (maledetta lingua inglese imperialista anche al cinema!).

La bête è un film distribuito poco e male, forse dipende dal fatto che non c'è una fine consolatoria e ottimistica, o perché ci sono dei salti temporali che costringono lo spettatore a un'attenzione al di sopra di quella necessaria nella media dei film (e delle serie tv), come nel film Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind), con Jim Carrey.

un amore impossibile, quello di Gabrielle e Louis, che si rincorrono nel tempo, senza riuscire a concretizzare l'unione, anche l'intelligenza artificiale delle macchine è contro quest'unione.

c'è anche una bambola, sembra arrivare direttamente da Annette, di Leos Carax.

e poi c'e la Bestia, una presenza minacciosa.

se riuscite a trovare il film, ormai in qualche nascondiglio in qualche tv, provate a vederlo, anche solo per combattere una forma di censura, mai morta.

buona (sorprendente) visione - Ismaele



 

La Gabrielle del 2044, un 2044 molto simile al nostro presente ma con - ovviamente - tecnologie avanzatissime, molti automi al posto degli esseri umani e una straziante e quasi imposta solitudine (le persone girano per strada sempre sole e con un visore che gli preclude qualsiasi interazione con gli altri) sta cercando un lavoro, mi pare non specificato.
Viene richiesto un solo requisito, ovvero quello di non essere sopraffatti dalle emozioni, non provarne più, perchè solo il nostro distacco da quelle (potremmo azzardare una specie di Atarassia) ci può permettere di rendere al meglio, di compiere sempre le scelte giuste, di affrontare le cose con la perfetta serenità.

Concetti in realtà "pericolosi" ma anche inquietantemente giusti potremmo dire, senza emozioni, passioni, paure ed entusiasmi le nostre scelte, come un freddo calcolatore, saranno sempre quelle giuste.
Per arrivare a questo stato bisogna ripercorrere le nostre vite precedenti (ovviamente il film mette alla base di tutto l'esistenza e veridicità di questo concetto) e "ripulire" la nostra anima, eliminando tutte le cose che in tutto il suo percorso l'hanno resa "viva", fragile, "umana".
Non è un caso che la primissima scena che vediamo della vita di Gabrielle (nella Parigi del 1910 che, di lì a poco, verrà sommersa dalla storica alluvione della Senna), primissima scena che per tecnica (piano sequenza) e ambientazione (palazzo signorile e tutti in costume) non può non rimandarci ad 
Arca Russa, dicevo non è un caso che una delle prime frasi che dirà Gabrielle sia "Io tengo alla mia anima".
Come se, in qualche modo, la Gabrielle che si sta sottoponendo a quel trattamento fosse già in "protezione" e in conflitto con il procedimento stesso.
"Sto facendo questo processo ma tengo alla mia anima, non voglio che scompaia"
(e il film poi confermerà quanto quella frase fosse sentita e profonda).

Ma c'è subito un altro caposaldo del film che viene fuori sin dalle primissime battute, ovvero quello che dà titolo al film, La Bestia.
Gabrielle vive la propria vita con la costante sensazione che stia succedendo qualcosa di terribile, una tragedia, una sciagura, un qualcosa che può annientarla.
Questo qualcosa è reificato in questa Bestia che però, a sua volta, sempre astratta rimane, (alla faccia della reificazione...), reificazione che, in qualche modo, è quindi soltanto semantica…

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Bonello porta avanti questo discorso in The Beast attraverso una narrazione non cronologica e volutamente asimmetrica, rapsodica nella gestione delle tre storie; una narrazione tenuta insieme da rimandi interni a volte diretti, altre basati sulla suggestione, sul link nascosto (come nei videogiochi di qualche decennio fa) piuttosto che sul collegamento esplicito. In un’epoca in cui il concetto di multiverso sembra aver ormai invaso la narrazione audiovisiva, il regista francese ne adatta a suo modo la logica alla più archetipica delle love story: quella, cioè, di due amanti impossibilitati a trovarsi attraverso le epoche – e i mondi – bloccati qui non da una qualche divinità, ma dalle stesse logiche generate (inconsapevolmente?) dall’evoluzione tecnologica. Un’evoluzione forse nascosta dietro un glitch, evocata ai margini del campo visivo come un mostro informe, insidiosamente celata ma capace di azzerare del tutto l’umano. Capace, anche, di rovesciare un plasticoso happy ending in un inquietante suggello distopico, con qualche collegamento (ma forse è solo una nostra suggestione) col finale dell’indimenticato classico della sci-fi orrorifica Terrore dallo spazio profondo (1978). Una scelta confermata anche dai (non) titoli di coda con QR Code da scansionare, “gioco” metatestuale ardito quanto coerente con l’impostazione del film.

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Perno del film, tuttavia, è il setting futuristico e distopico rappresentato dal 2044. In un’epoca in cui le intelligenze artificiali hanno rimpiazzato quasi completamente l’umanità, ogni forma di socialità, di condivisione emotiva, di sfogo collettivo è ormai scomparsa. Ciò che è rimasto è l’individuo in una forma epurata dalla sua umanità, nonostante il processo di eliminazione delle emozioni al quale ci si può sottoporre venga definito proprio come purificatorio. Gabrielle, che a differenza della piega che ha preso l’umanità, è realmente intelligente, è in dubbio sulla validità del processo, convinta che la relazione che la lega a Louis tra le epoche sia più forte di ogni cosa…

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Anche stavolta, Bonello conferma il proprio amore per la contaminazione tra più generi: nelle quasi 2 ore e mezza del lungometraggio si alternano e si intrecciano almeno tre film differenti non soltanto per contenuti e tematiche, ma anche per regia, fotografia, montaggio e colonna sonora.
Un accostamento spavaldo, che alterna un racconto sci-fi minimalista chiaramente debitore degli incubi di Philip K. Dick, un lento e intenso melodramma in costume e un thriller-horror al cardiopalma, a loro volta attraversati trasversalmente da una marcata vena onirico-simbolica che a più riprese sembra voler strizzare l’occhio a Inland Empire, a Mulholland Drive e all’immaginario visivo di David Lynch.

Il risultato è un film molto lungo, volutamente disomogeneo e a tratti un po’ pretenzioso, che però ha il grande merito di proporre una narrazione ambiziosa e proteiforme. Con il suo folle viaggio psicologico, cronologico e genetico, il racconto di La Bête va molto al di là della mera sperimentazione formale, e scava a fondo nei sentimenti dello spettatore con una ricerca stilistica mai fine a se stessa.
Missione compiuta, quindi? A nostro avviso, assolutamente sì.
Bertrand Bonello, tuttavia, deve condividere il plauso con la memorabile Léa Seydoux e il convincente George MacKay: la sceneggiatura non è sempre così compatta, e senza il contributo di due interpreti così versatili e capaci di adattarsi a qualsiasi linguaggio cinematografico non sarebbe stato affatto semplice raggiungere il medesimo risultato…

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sabato 7 dicembre 2024

Grand Tour - Miguel Gomes

si alternano immagini ambientate due secoli fa e altre girate in questi anni, in un bianco e nero essenziale.

la fuga di un uomo dalla sua fidanzata attraverso diversi paesi orientali, e la testardaggine di lei nel cercarlo.

(il regista non spiega perche Edward fugge, ma non importa).

uno si chiederà cosa ci fanno tutti quegli europei e statiunitensi nell'Estremo Oriente. 

Miguel Gomes non approfondisce, ma tutta quella gente sono agenti del colonialismo, ladri di economie e territori, a diverso titolo.

la risata di Molly è davvero simpatica, non perdetevela.

un miracolo che un film come questo arrivi in sala, addirittura (!) in una cinquantina di sale.

buona visione - Ismaele



 

Grand Tour è la rappresentazione manieristica di un cinema in movimento, visionario nelle sue semplici aspirazioni. Un cinema che bacchetta la situazione sociale senza averne piena coscienza e senza volerlo fare. Miguel Gomes è tra i riferimenti contemporaneo della “finzione documentaristica”.

Grand Tour è estetica che attraversa l’urbanistica storica. Si! Anche. L’attenzione per i dettagli è la mappa di un film così complesso. Si lavora per geografie e mappature. Edward e Molly sono la rappresentazione di una condizione storico-fisica; sono, esattamente, il tipo di persone che immagineremmo nel ‘700, cappotti, cappelli, consumati dal freddo, intiepiditi dai lumi di bische, di chiese o dipartimenti. Tutto ridotto in una cartina che non sgrana oltre i 16mm ma si inserisce dentro.

Grand Tour è la gloria di Miguel Gomes, anche se il regista dichiara di non esserne particolarmente affezionato, di non esser realmente riuscito a catturare ciò che l’occhio/pensiero nudo ha visto, a riproporne la sua bellezza. Eppure… questo film è bellissimo!

Grand Tour: valutazione e conclusione

*Critica y analisi. Disturbiamo Gilles Deleuze, solo come punto di partenza nella parte più tecnica. “Il delirio è l’unica apparenza sensitiva che sia in grado di mostrarci la passionalità per qualcosa”. Nel caso del filosofo si esprime con la scrittura che traduce il pensiero, smascherando in sillabe pause e accenti il processo mentale. Nel caso di Gomes la sperimentazione visiva avviene attraverso la costruzione di una “storia” che non ha una sua soluzione ma che induce all’esplorazione degli altri in se stessa.

Grand Tour è quindi una storia di amore, un thriller, un drammatico ma è soprattutto il “soppalco immaginativo” di una ricerca mai fine a se stessa. Da bravi scolari la sceneggiatura è lievita di manifestazioni linguistiche complesse addolcite da una scenografia che, perché in bianco e nero, assolutizza la richiesta di non avere pretese e di non ricercare intenzioni… quanto meno registiche. Pretenderlo spezzerebbe l’incanto del cinema sperimentale, l’incanto dell’indipendenza artistica che rimembra una storia cinematografica possente ed eurocentrica. Dai vizi “viscontini”, i ribaltamenti parigini, le metafore sovietiche l’analisi si completa con un’affermazione precisa: Grand Tour è l’erede di filmografie divergenti, rivoluzionarie, acute; Miloš Forman nell’estetica, Alejandro Jodorowsky nei concetti, Miguel Gomes nella mente esecutiva.

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Il cineasta di Tabu e Le mille e una notte – Arabian Nights si è dovuto confrontare in questo caso con i limiti imposti alla produzione dalla pandemia, col Covid che ha bloccato la troupe in uno studio a Lisbona col set cinese del lungometraggio situato a 3500 km di distanza, fra Shanghai e la provincia del Sichuan (sono stati utilizzati anche i set di Cinecittà, coi teatri di posa aricreare soffusamente il passato in discontinuità con gli squarci più caotici del presente). La sensazione è che tale ostacolo sia stato risolto muovendosi ancora di più in direzione di un’ecletticità e di una frammentarietà che determinano le varie piste e tracce del racconto, scandendone tanto i momenti più strampalati e surreali quanto quelli più lirici e addirittura spirituali.

Quello di Grand Tour è dunque un altro esperimento di un autore ormai abituato a una metodica da rabdomante, che usa la narrazione come mosaico polifonico ma anche come infinito serbatoio di squarci preziosi attraverso i quali lasciare emergere la propria poetica. In questo caso, in un percorso che attraversa diversi paesi asiatici, dal Giappone alle Filippine passando per CinaThailandia e Vietnam, il respiro della riflessione sugli strascichi del colonialismo dell’Oriente è il convitato di pietra che tiene insieme tutto, come controcampo filosofico e morale delle immagini mostrate, ma è soprattutto il dispositivo narratologico e ciò che ne deriva a guidare lo sguardo di Gomes e le sue direzioni e bisettrici.

Grand Tour, a conti fatti, è un film in cui il senso si arrende al cospetto delle infinite possibilità che derivano dall’accettare l’impossibilità di comprensione umana – e occidentale in particolare – rispetto a certi misteri esoterici e insondabili che abitano la cultura orientale. In questa resa c’è una dichiarazione d’intenti liberatoria, che si abbandona a momenti di cinema purissimo (l’esecuzione di My Way di Frank Sinatra in un locale, tra le sequenze più belle, stranianti e magnetiche di tutta Cannes 77, ma anche il valzer Sul bel Danubio Blu di Johann Strauss piazzato tra le strade di Saigon) e a una zona d’ombra rigenerante tra la malinconia attonita e la vitalità comica e strampalata (la peculiarissima risata di Molly è decisamente indimenticabile).

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Anche il protagonista di questa storia deve onorare un patto. Edward (Gonçalo Waddington), funzionario per conto dell’Impero britannico nella Rangoon d’inizio Novecento (ma parla in portoghese) deve sposare la fidanzata Molly (Crista Alfaiate). Quando però va ad accoglierla al porto, sotto un monsone e con un mazzo di gigli bianchi in mano, ci ripensa e scappa. E lì comincia il suo tour – culturale, esistenziale, spirituale – per il Sudest asiatico, che è anche il nostro attraverso il cinema di Gomes.

E poi ne comincia un altro. Quello di Molly, come in un Rashōmon versione Lonely Planet d’autore, in parte girato in un maestoso e mai autocompiaciuto bianco e nero (la fotografia è di Rui Poças, Gui Liange e del solito geniale Sayombhu Mukdeeprom), in parte nei colori del documentario antropologico, mischiando oltre alle lingue e agli stili anche i tempi, le mode, facendosi opera sincretica, meticcia, davvero globale. Mentre i diversi narratori ci raccontano la storia ora in indonesiano ora in cinese, squillano iPhone nell’Indochine coloniale e i nostri eroi di ieri si muovono nel traffico di oggi, si passa da Maugham (fra le ispirazioni dichiarate) e i resoconti alcolici di Lawrence Osborne (almeno son venuti in mente a me).

 

È un film parlato e viaggiato, Grand Tour, che segue le peregrinazioni dell’autore fra “i Paesi, i generi, i tempi, la realtà e l’immaginazione”, ma anche nella storia del suo stesso matrimonio, nella guerra tra i sessi (attraverso “stereotipi universali: la testardaggine delle donne che trionfa sulla codardia degli uomini”). E ovviamente nel cinema (le visibili ricostruzioni nei teatri di posa di Lisbona e Cinecittà, “le screwball comedies degli anni ’30”), e nella letteratura, perché quella è sempre la spina dorsale. Dopo il bellissimo Tabu, arrivato anche da noi ormai più di dieci anni fa, l’opera monstre di Gomes resta Le mille e una notte – Arabian Nights, il film-mondo in tre volumi (Inquieto, Desolato, Incantato) che partiva dai racconti di Shahrazād per mischiare, anche lì sincreticamente, la Storia reimmaginata di ieri con quella del Portogallo di oggi.

Pure Grand Tour e i suoi non-eroi sono inquieti, desolati, sempre incantati, alla ricerca di un posto nel mondo e soprattutto nel cinema, che se resta vivo è anche grazie a film come questo, che prendono e partono, all’avventura.

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L'operazione di Grand Tour è molto simile a quella di Tabu: il passato che collassa e trova senso nel presente, o viceversa; il mito effimero, sbiadito e sbriciolato dal tempo, del colonialismo e la sua revisione critica; l’amore vissuto come impossibilità, come miscela di melodramma e comicità paradossale; l'uso della voce narrante come veicolo primario della parola. Ma la trama che segue un funzionario britannico in fuga dalla fidanzata nell'Indocina coloniale è secondaria rispetto a come Miguel Gomes racconta, con le immagini, l'Asia del presente. Grand Tour è allora un viaggio visionario nel tempo e nello spazio, che esplora le potenzialità contemporanee del racconto per immagini e che è capace di sprazzi di grandissimo cinema: carico di spessore teorico ma anche, sempre, di felicissima ironia. (Federico Gironi - Comingsoon.it)

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La fuga come occasione di tentata salvezza sia da parte di chi fugge, sia da parte di chi insegue. Il viaggio di una coppia di promessi sposi motivata solo da un lato, diventa il motivo per entrambi utile a scoprire che qualcosa per cui vale la pena di vivere esiste ancora.

Qualcosa per cui vale la pena non solo di vivere, ma anche di rischiare pur di proseguire un viaggio avventuroso fino alla morte.

 

L'ultimo gioiello ammaliante del cineasta portoghese Miguel Gomes non arriva forse a toccare la magica alchimia del capolavoro Tabù (2012), ma certo completa in modo magistrale, per stile di regia e originalità di racconto, un cerchio esistenziale che si motiva tramite un viaggio di coppia spaiata nato da opposte motivazioni.

 

Quelle che faranno in modo che i due non si incontrino mai.

Un percorso circolare attorno al globo, come quello della ruota dei divertimenti che si vede attrarre pubblico presso un luna park ove viene fatta girare manualmente con destrezza e tecnica affinata da abili acrobati e ginnasti tutt'altro che improvvisati.

 

Un parco d'attrazioni ove spicca anche un teatro di marionette che ripercorre pure lui le tappe di un viaggio non dissimile alla disputa che oppone due promessi sposi divisi tra vigliaccheria e voglia di avventura.

Grand Tour è dunque un percorso raccontato più a parole, tramite io narranti in differenti linguaggi autoctoni, ma pure plasmato da immagini di una bellezza struggente e da ricostruzioni suadenti di una natura rigogliosa e superiore.

Gomes ci regala un film che esalta la magia del cinema contrapposto tra narrazione incalzante e immagine contemplativa, celebrando una umanità che dimostra stoicismo anche nella vigliaccheria più spudorata o nella pedanteria più immotivata. 

Questo più recente lavoro di Gomes si rivela come uno dei veri grandi film del 2024.

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La prima parte di Grand Tour è tutta dedicata a Edward e al suo vagare da un paese all’altro, tra fiumi, mari, foreste, palazzi e tuguri. Una fuga che toccherà, dopo la Birmania, Singapore, Thailandia, Shanghai, la parte di Cina vicino al Tibet, poi le Filippine, il Giappne. Una geografia che è anche una mappatura della fascinazione esercitata dall’Oriente sull’Occidente. “Ce ne andremo dall’Asia senza averla mai capita”, dice un inglese insabbiato in un luogo remoto. Molly è invece la padrona della seconda parte, ripercorrendo i luoghi toccati da Edward, sfiorandolo più volte, spesso mancandolo. Di più è meglio non rivelare. Nei lunghi spostamenti dei due promessi sposi incontriamo ambigui padroni venuti dall’Europa, locali ora ostili ora (fin troppo) fedeli servi dei colonialisti, cortigiani di sovrani indocinesi, americani misteriosamente arricchiti, in una galleria che è la summa degli infiniti caratteri incontrati nel cinema coloniale della nostra vita. Con sequenze memorabili, il treno deragliato nella giungla o la risalita da parte di Molly di un fiume tra mille rischi che ricorda quella del protagonista del coppoliano Apocalypse Now (e di Cuore di tenebra di Conrad). Si esce dal cinema con più dubbi che certezze. Grand Tour è un film volutamente incerto e indefinito, molto libero, oscillante tra cinema del reale e il cinema più ostentatamente artificiale-artificioso e “finto”, aperto a infiniti rimandi e suggestioni, ma anche sfuggente, inconcluso. Anche troppo derivato dal precedente Tabu.

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venerdì 6 dicembre 2024

Il cavaliere Sole - Pasquale Scimeca

una storia siciliana, tratta da un romanzo di Italo Calvino, e poi da un'opera teatrale.

nella Sicilia, di campagna, alcuni attori devono recitare un'opera, il cavaliere Sole.

il film segue le loro avventure.

buona (poetica) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

Un film indubbiamente atipico, in quanto adattamento cinematografico dell'opera teatrale di Franco Scaldati, tratta dal romanzo di Calvino (che colpevolmente non ho letto). L'impianto del film è ovviamente teatrale, specialmente nella seconda parte, dove in pratica si assiste allo spettacolo come se fossimo in teatro. Molto belli gli scorci della Sicilia rurale e periferica, che ricordano i film di Ciprì e Maresco, così come gli strani personaggi del film, che spesso parlano dialetto siculo (sottotitolato). Poetico e malinconico; non per tutti.

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martedì 3 dicembre 2024

Bar Giuseppe – Giulio Base

Ivano Marescotti è un barista, vedovo con due figli.

è un tipo silenzioso e triste, fino a che inizia a ospitare una ragazza africana, che lavora al bar, e poi la sposa.

intanto la sposa aspetta un bambino, senza precedenti rapporti sessuali, una storia già letta, no?

non consigliato a chi ama il ritmo dei film di Tarantino o dei fratelli Safdie.

non è un capolavoro, ma merita...

buona (giuseppina) visione - Ismaele


 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

…Migrante da poco arrivata in Italia – i suoi genitori sono stati uccisi dal Governo ed è riuscita a compiere il “viaggio della speranza” grazie ai genitori adottivi – Bikira è una giovane con grande forza e grande bontà d’animo. Una ragazza di una bellezza pura, senza filtri, con un sorriso che nasconde un passato di difficoltà ed un presente ricco di speranza. Il primo incontro con Giuseppe è a dir poco intenso: nonostante il suo essere silenzioso, Bikira riesce a vedere in lui un mondo.

Nonostante l’apparente distanza, Giuseppe e Bikira si comprendono e si amano di un amore puro: loro dimostrano che con il sentimento più forte che esista è possibile superare tanti ostacoli è possibile mettere da parte diversità razziali, generazionali, di classe e quant’altro. Il fulcro di Bar Giuseppe è certamente l’accettazione dell’altro: il film è ambientato ai giorni nostri e si svolge in un momento particolare della storia dell’umanità, con il dramma dei migranti vissuto quotidianamente.

Negli ultimi anni la catastrofe umanitaria è degenerata esponenzialmente, con il Paese che sembra incapace di aprire le braccia a gente in difficoltà che fugge da stati di miseria. Bikira è una giovane africana sbarcata da poco, una profuga come lo sono stati Giuseppe e Maria. Cosa non ci consente di scavalcare i muri, fisici e non? Perché non riusciamo a mettere da parte le differenze razziali e generazionali così da abbracciare la fratellanza? Bar Giuseppe non vuole dare un giudizio politico, Giulio Base sembra piuttosto intenzionato a spingere lo spettatore a porsi delle domande.

La sceneggiatura di Bar Giuseppe rispecchia il suo protagonista, è semplice e volutamente scarna: il lavoro di sottrazione riesce infatti a far crescere esponenzialmente l’intensità del film. La regia è variegata, con un occhio di riguardo per droni e movimenti di macchina. E – ancora – Base dimostra una particolare attenzione per i campi lunghi, una sorta di sguardo divino, nonché per i dettagli particolari ed i tagli dell’immagine.

Bar Giuseppe è certamente un film ardimentoso, delicato e tremendamente attuale. Una storia che ha diverse possibilità di lettura e che non è “riservata” solo ai credenti: è un’opera dalla grande sensibilità umanistica – pregio raro.

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Base rivisita in chiave moderna e sconcertantemente verosimile la storia della Sacra Famiglia: di certo la giovane Bikira (che, non a caso, in lingua swahili significa "vergine") non si ritrova incinta per grazia divina, ma il fatto che neghi il tradimento lascia pensare a qualcosa di terrificante dietro (se davvero si vuol credere alla sua buona fede) e il finale sembra confermare questa teoria. Marescotti davvero bravo nel suo essere espressivo pur restandosene spesso in silenzio, stile narrativo instabile (procede ora lentamente, ora frettolosamente). Comunque, non male.

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