Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
sabato 21 dicembre 2024
venerdì 20 dicembre 2024
La stanza accanto - Pedro Almodóvar
a Venezia nel 2024 leone d'oro come miglior film.
non ricordo film di Almodóvar senza qualche sorriso, anche nei film più "seri".
nell'ultimo film non c'è niente da ridere, la Morte è la protagonista.
e però, sia pure con "mestiere" e con attori davvero bravi, il film appare freddo, troppo serio e troppo tragico, per lo stile di Almodóvar.
nel suo primo film in inglese (sia pure girato per metà vicino a Madrid, leggi qui) il regista perde quella virtù che spesso pratica, la leggerezza.
se gli dessi un voto sarebbe la sufficienza, comunque è un film da vedere, ognuno si farà la sua opinione.
buona (mortale) visione - Ismaele
… A mancare,
rispetto al passato, è il calore tipico dei film di Almodóvar, il quale nelle
sue incursioni più serie è sempre riuscito a trovare un giusto equilibrio tra
la gravità del dramma e l’ironia del mondano. Ne La stanza accanto, invece, si percepisce spesso una
certa disconnessione tra ciò che si vede a schermo e la materia trattata, un
lirismo visivo poco ispirato, nonché dialoghi farraginosi, didascalici e spesso
ridondanti, tanto che il personaggio interpretato da John Turturro –
un ambientalista radicale – sembra inserito solamente per lanciare un tiepido
monito extrafilmico. A tratti, sembra quasi di essere di fronte a una versione
depotenziata di Julieta. Così,
suggestioni di pura poesia, a partire dalla neve rosa sino ad arrivare allo
splendido riferimento a I morti di James
Joyce (con tanto di richiamo a The Dead di John Huston),
si alternano a momenti di grande spessore attoriale che appaiono come
eccessivamente autoreferenziali e fini a se stessi. Perché nemmeno le ottime
prove di Tilda Swinton e di Julianne Moore possono compensare, a malincuore, il
substrato emotivo carente di un film che colpisce solo in superficie, senza mai
spingere fino in fondo.
…La stanza accanto non
è soltanto un’altra variazione sulla morte ma anche sui sentimenti – la
passione, il rancore – e sul tempo perduto. È un’altra dichiarazione d’amore
alla ‘magnifica ossessione’ di un cinema che guarda, in modo ancora più
evidente che in passato, Fassbinder e Sirk in cui Julianne Moore e Tilda
Swinton possono essere le sue reincarnazioni, soprattutto l’attrice londinese,
che incarna la morte e la rinascità e dimostra, dopo Suspiria di
Guadagnino, che può duplicarsi o, in quel caso, addirittura moltiplicarsi in
tre personaggi. Nei fitti dialoghi tra le due protagoniste però qualcosa si
blocca, non arriva, resta a metà strada. Certo c’è tutto: abbracci, lacrime,
rimpianti. La stanza accanto poteva
avere quegli slanci del vertiginoso Zinnemann di Giulia nella sintonia che si era instaurata tra
Jane Fonda e Vanessa Redgrave. Il film di Almodóvar si blocca invece al primo
livello, quello della rappresentazione dove delle due protagoniste, in cui il
metodo, la tecnica, diventano tra gli elementi principali per far apparire
questo film struggente quando invece non lo è al contrario del grandissimo film
precedente, Madres paralelas.
Le cicatrici della ‘storia privata’ restano otturate invece da una ‘personale
autocelebrativa’ del proprio cinema. La stanza accanto è
come una mostra sul cineasta spagnolo dove in una stanza ci sono i suoi modelli
di riferimento: Buster Keaton in tv, i dvd di Lettera da una
sconosciuta e The Dead. Gente di Dublino, il poster di Ingrid
Bergman per creare un parallelismo con il personaggio interpretato da Julianne
Moore (ma no!).
La stanza accanto è funereo ma non come Wilder di Fedora. Quando l’opera del cineasta non è al meglio,
si chiude in una forma elegante e artefatta, proprio come la neve rosa che cade
su New York. Solo la deviazione dell’interrogatorio in polizia risveglia il
film dal suo lungo e compiaciuto grande sonno. Ma forse lì c’è già, o ci poteva
essere, un’altra storia…
Almodovar al suo debutto in un lungometraggio in lingua inglese.
Almodovar che prende di petto un tema fra i più spinosi e controversi, quello
dell'eutanasia, con una netta presa di posizione politica che ha ispirato anche
il suo toccante discorso di ringraziamento a Venezia per il Leone d'oro.
Almodovar che dirige due fra le più talentuose ed esigenti attrici del panorama
mondiale.
"La stanza accanto" è un melodramma raffreddato, che evita
facili sottolineature emotive e tentazioni strappalacrime, è puro Almodovar ma
è anche una ricognizione originale in un territorio diverso, un tentativo di
raccontare sullo schermo un dolore così straziante da poter essere placato solo
con il desiderio della morte…
…E qui Almodóvar compie il
primo passo verso la sublimazione. Quando Martha lascia la clinica e torna a
casa fermamente decisa a organizzare la propria dipartita, la messa in scena si
fa infatti più sintetica e il melodramma viene silenziato, disinnescato. Il
passato rocambolesco sparisce dalle immagini, niente più flashback, niente più
storie, niente più tortuosità ma un lucido e metodico piano che prende forma
circondato dei segni di quella vita dalla quale la donna sta per
congedarsi. Mobili, oggetti, libri, taccuini, film, fotografie,
scatole, buste, fogli, tutto nella casa è traccia e sedimento, memoria senza
mai nostalgia: la casa è li, accogliente, avvolgente come un abbraccio
discreto. Ma non è li che Martha può morire. Ci vuole un’altra casa e una altro
passaggio della messa in scena verso un’ulteriore asciuttezza, verso
un’ulteriore svuotamento, verso un’ulteriore essenzialità. Così Martha e Ingrid
possono abitare insieme solo un nuovo spazio, uno spazio altro dove non c’è
memoria, minimale ma non asettico, elegantissimo, ricercatissimo, ma dove nulla
è personale o familiare: solo superfici, linee, vetrate, pieni, vuoti, dove i
colori possono essere solo pieni, dove non ci sono sfumature, dove le porte
possono essere solo aperte o chiuse, definitive. E dove la morte può diventare
un magnifico quadro composto con precisa meticolosità al momento giusto.
In quegli spazi che mutano, in quella
scena che si asciuga, in quelle parole che dicono tutto senza mai pesare, Almodóvar trova
il compimento di un vero capolavoro, una lezione di cinema, di regia, di messa
in scena, di scrittura. La grande lezione di un maestro per nulla senile, ma
capace come nessuno di parlare con umanità e magnificenza della vita e della
morte dicendo tanto del mondo strambo in cui viviamo, di dignità e di
diritti, di minacce e di speranza, di sofferenza e di bellezza, di
amicizia e di condivisone, di responsabilità e di empatia, di rispetto e di
autodeterminazione.
Insulso. Banale. Mortale. Si ma nella noia! Altro che eutanasia.
Qui lo spettatore muore da solo. Senza aiuti esterni
Insulso.
Banale. Mortale. Si ma nella noia! Altro che eutanasia. Qui lo spettatore muore
da solo. Senza aiuti esterni
Alla prova
americana non ha retto.
Ma chi
glielo doveva dire al Pedro de noialtri di andare a crasharsi a 75 anni nelle
produzioni, sistemi, visioni USA, quando il suo è sempre e solo stato un cinema
europeo? MAH
I misteri
della fede
Bastassero
due eccelse attrici a far riflettere su un tema cosi delicato come quello della
malattia, il cancro alla cervice e due amiche che non si vedono da
trent'anni
Ma voi
davvero uccidereste una che non vedete da secoli?
O le
stareste vicino con i problemi che comporta a livello legale, morale e
spirituale l'eutanasia?
Il film non
regge, annoia ha in sostanza una brutta energia, non di vita, ma di bieca
assoluta e devastante morte !
"Se vuoi mandare un messaggio, spedisci un telegramma, non
fare un film"
Non sembra
neanche Almodóvar! Film a tesi pretenzioso e noioso, due ore di dialoghi
privi d'interesse, situazioni statiche e una citazione letteraria ripetuta più
e più volte nel vano tentativo di commuovere lo spettatore.
Julianne
Moore e Tilda Swinton sono brave e ce la mettono tutta ma non riescono a
salvare un film in cui le situazioni di potenziale conflitto e le
occasioni per far emergere il dilemma etico (ad esempio la perdita e il
ritrovamento della busta con la pillola) si risolvono da una scena all'altra
come in uno sceneggiato televisivo. E mentre lo spettatore assonnato aspetta il
guizzo di regia o di sceneggiatura che giustifichi la spesa del biglietto,
Turturro pontifica sul disastro ecologico.
Tutto si
svolge ineluttabilmente come da copione. L'unico momento in cui il film si
rianima un po' è l'interrogatorio con la guardia bigotta, ma anche questa
occasione cade nel vuoto con l'arrivo dell'algida avvocatessa. Quando infine si
presenta la figlia della Swinton ci si aspetta una svolta, un sussulto, e
invece anche questa possibilità cade nel vuoto e il film si spegne mestamente.
mercoledì 18 dicembre 2024
Il giorno dell’incontro – Jack Huston
il titolo pare sia un omaggio a un corto di Kubrick da giovane, chissà.
tutto accade in un giorno, Mike chiude i conti con se stesso, cerca la moglie (quando canta Have You Ever Seen The Rain? chi non si emoziona dovrebbe farsi visitare da uno bravo), e la trova, ma non riesce a parlare con la figlia, scommette tutto quello che ha per la sua vittoria con un allibratore di fiducia, incontra il padre malato in una casa di riposo, va in cimitero a chiedere perdono a un bambino (guardando il film capirete perché).
in un bianco e nero d'altri tempi (è un complimento) Mike vive la sua personale via crucis, sotto l'ala protettiva del suo eccezionale allenatore, che la mattina dopo l'incontro passerà a vedere come sta il campione.
pochissime sale, grande film, da non perdere.
buona visione - Ismaele
…Fotografato in un bianco e nero elegante che
richiama capolavori come Toro
scatenato, ma con un approccio registico e recitativo più simile al primo Rocky, Il giorno
dell’incontro ci fa muovere per una Brooklin degli anni ’80 al fianco
di un protagonista e dei suoi demoni. Un uomo che ha compiuto errori gravissimi
e che è cresciuto attraverso di essi ci viene mostrato pronto a compiere il
passo finale. Per il suo esordio, il regista si affida a un attore dal grande
carisma come Michael Pitt, credibile sia nella struttura fisica che nella
capacità di mettere in scena un uomo spezzato, che dopo avere “meritatamente”
sofferto, prova a trovare la forza di “lasciare andare”. Straordinaria la sua
capacità di trasmettere con lo sguardo una tenerezza a tratti
insostenibile, che ben contrasta con la durezza dei suoi
muscoli tirati e della sua mascella storta.
Al suo fianco un cast di attori semplicemente
spettacolare. Insieme a un Ron Perlman che
sembra essere nato per interpretare il ruolo dell’allenatore di boxe, troviamo
i piccoli ma significativi ruoli di John Magaro, Steve
Buscemi e, soprattutto, di un monumentale Joe
Pesci. L’81enne attore premio Oscar è chiamato a interpretare
il padre di Mike, evocato per tutto il film come il villain finale da
sconfiggere e che poi appare senza quasi pronunciare parola, lasciandoci
stupefatti.
Fondamentale anche la scelta musicale, spesso
diegetica e che ritorna a livello drammaturgico. Come a sfiorare le corde
emotive dei suoi personaggi, archi soffusi e note di piano accompagnano il
viaggio di Mike tra i bassifondi della sua New York e, in particolare, nel suo
passato. Frequenti flashback, infatti, ricostruiranno la storia dell’uomo e del
campione, ciò che ha subito, ciò che ha ottenuto e ciò che ha perso. Alla fine
de Il giorno
dell’incontro, il duro e fragile Irish Mike non avrà più
segreti per noi.
Un film sul pugilato senza pugilato, si direbbe.
Un po’ sì, se non fosse per l’ultima, attesissima, sequenza di combattimento,
in cui la tensione emotiva accumulata per oltre
un’ora si libera un cazzotto dopo l’altro, lasciandoci stesi
senza più energie come pugili dopo 12 round. Esanimi, ma scossi nel profondo
dall’umanità che ci è stata riversata addosso con tale, splendida, semplicità.
…Il giorno dell’incontro non è un’opera prima
che cerca il nuovo – anzi cita il classico -, né un museo per i virtuosismi di
Jack Huston, né una storia dalla potenza strabordante: ma è un film sincero e
sentito, che si nutre di un immaginario (senza per questo sentirsi in dovere
autoriale di reinventarlo) che ricalca in modo a tratti greve e che riabilita
un enorme Michael Pitt per ricordarci che grande attore sia
stato ed è ancora, anche se dopo un po’ di anni di buio.
Doveroso citare anche il
massiccio Ron Perlman e
i cameo eccezionali di Steve Buscemi e
soprattutto Joe Pesci.
Ma soprattutto il film riesce,
con semplicità e incoscienza, a restituire la New York degli anni Ottanta,
sporca e disperata come non si vedeva da tempo, intensa come la disperazione
silenziosa del protagonista del film.
…Deve fare i conti con il suo doloroso passato fatto di violenze
paterne e suicidi materni.
Jack Huston ci rappresenta tutto questo calvario pedinando con la sua
cinepresa un Micheal Pitt da Oscar, una faccia e un corpo da macello che
ricorda il Mickey Rourke di The Wrestler.
Usando quel bianco e nero tanto caro al mondo della boxe soprattutto da
quel capolavoro che è stato Toro Scatenato qui degnamente rappresentata da un
Joe Pesci (produttore esecutivo) che parla solo con gli occhi.
Ma è soprattutto la colonna sonora che ci racconta il viaggio all’interno
del dolore di Mikey l’irlandese.
L’uso di The Book of Love di Peter Gabriel che accompagna l’incontro tra
Micheal Pitt e Nicolette Robinson è di una poesia disarmante. Ci fa capire
l’immensità di questo amore anche davanti a una pizza col doppio formaggio.
Anche se il meglio ce lo riserva Have You Ever Seen The Rain? cantata live
sulle note di un pianoforte che gronda dolore e la voce di Nicolette Robinson
strozzata dalle lacrime per un amore che è stato e che non ritornerà più.
Grazie Jack Huston che ci hai regalato una delle opere prime più belle
degli ultimi 10 anni e uno dei personaggi che difficilmente ci toglieremo dalla
nostra memoria.
Un personaggio che va incontro al suo destino con una dignità e una
tenerezza dilaniante che ci devesta l’anima.
martedì 17 dicembre 2024
domenica 15 dicembre 2024
Il generale dorme in piedi - Francesco Massaro
una satira della vita militare e dei militari.
Ugo Tognazzi è il colonnello che non riesce a diventare generale, è un veterinario che diventa il medico/chirurgo nell'esercito, innamorato della moglie (Mariangela Melato) e poi vedova di un generale.
la sua opera d'arte è un libro autobiografico con il quale "ricatta" i suoi superiori, e riesce a diventare generale.
non sarà un capolavoro, ma si vede bene.
buona (antimilitarista) visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo
Commedia militare in cui alcuni ottimi spunti satirici sono a
tratti annacquati da un registro farsesco e da alcune dispersioni (i flashback,
la sottotrama sentimentale). Tognazzi è comunque formidabile nei panni
dell’ufficiale arrivista dal subconscio incontrollato, per di più assistito da
un cast estremamente valido in cui emergono in particolare Scaccia (grandioso
nella sua monoespressività) e Fabrizi (per una volta nei panni di un
personaggio dignitoso). Tutt’altro che disprezzabile la Melato, per quanto
relegata nelle scene meno interessanti. Tre stelle(tte).
Commedia militare un po' grottesca che incrocia spesso la farsa
e "promuove" il grande Tognazzi ai massimi gradi d'attore. Vicenda che
tratta di guerra e di pace, prendendo in giro chi ama la guerra ma senza
addentrarsi, saggiamente, in particolari o introspezioni che potrebbero
appesantire lo spettacolo. Una critica attraverso l'ironia, con un impiego
discreto di mezzi e di simboli, per un film piacevole da seguire e che non
necessita di particolari predisposizioni per la visione.
Umberto
Leone è un colonnello ex veterinario che in guerra si è improvvisato medico per
la necessità di operare i feriti. Per ricambiare la sua dedizione sul campo
viene nominato direttore della Scuola Superiore di Sanità a Firenze, ma non
rinuncia alla sua vera ambizione: diventare generale. Per ottenere la carica
inizia a scrivere le sue memorie, raccontando episodi non proprio lusinghieri
su alcuni esponenti delle alte gerarchie militari, con il proposito, in
seguito, di ricattarli. Ma deve stare attento ad una sua bizzarra peculiarità:
mentre dorme tende a raccontare verità scomode, e per questo è costretto a
dormire in piedi...
Commedia non disprezzabile, con un buon Tognazzi ed una base
critica - sebbene non molto incisiva - all'esercito e, più in generale, al
potere, disposto a qualunque compromesso o bassezza pur di autoconservarsi. La
regia è un po' assonnata, la trama ogni tanto sussulta con qualche scena
godibile, ma in definitiva si riassume in ben poco. Poche pretese, ma mantenute.
sabato 14 dicembre 2024
L'orchestra stonata - Emmanuel Courcol
il regista (già indimenticabile sceneggiatore per Philippe Lioret) riesce a girare un film convincente e commovente, che in alcuni momenti fa pensare a Ken Loach, a Stéphane Brizé, ai Dardenne.
Emmanuel Courcol è bravo a non fare un film patetico e strappalacrime, riesce a sfuggire le situazioni "a rischio" per la solidità della pellicola.
i due fratelli sono interpretati da Benjamin Lavernhe e Pierre Lottin, ottimi attori.
i temi della storia sono stati già visti al cinema, ma non c'è niente di ripetitivo, di copiato, il film è fresco e coinvolgente.
un film da non perdere, promesso.
buona (musicale) visione - Ismaele
e
…L’orchestra stonata (dal 5 dicembre al cinema) è un bel film, ed
è un bel film come soltanto i film francesi (e le dramedy francesi in
particolare) sanno essere belli, larghi, pop, sorridenti e insieme commoventi,
senza mai diventare scontati, melensi o troppo retorici. E soprattutto sanno
tenere insieme generi diversissimi, come il cancer movie (che però qui diventa solo pretesto, innesco
per la trama), il family drama e la commedia sociale con la massima
spontaneità e semplicità, muovendosi naturalmente tra una certa delicata ironia
e toni invece più seri (ma mai seriosi). Il tutto attraversato dalla musica (la
classica, il jazz, ma anche brani meno scontati, come Emmenez-moi di Charles Aznavour), che è insostituibile
punto d’incontro/scontro tra due fratelli e il modo di essere comunità, di
diventare persino famiglia per una banda sgangherata della città di minatori di
Walincourt, nel distretto di Lille, Francia del Nord…
…Uomo burbero ma di buon cuore che
vive ancora con la mamma, che non è la sua vera mamma, lo ha solo adottato,
Jimmy accetta di aiutare il fratello Thibault. Qualche tempo dopo, Thibault
cercherà di sdebitarsi con lui proprio dando una mano all'orchestra scombinata
del paese. In pochi minuti, lo avrete capito, c’è tutto. La città e la
provincia. La solitudine dei ragazzi ricchi e la ricchezza dei ragazzi
cresciuti nelle comunità operaie. Le due orchestre, La crisi economica. Il
desiderio di ritrovare la propria vita…
…E due fratelli che dovranno
volersi bene. Uno ricco e arrivato, benché malato, perché adottato da una famiglia
altoborghese, la mamma è Ludmila Mikael, che ricordo esordì in un vecchissimo
film di John Flynn, “Il sergente”, e l’altro provinciale, non ricco, confuso,
con un matrimonio fallito alle spalle, una professione precaria, ma con
l’orecchio assoluto. Se la mamma di Thibault avesse adottato anche lui, magari
il direttore d’orchestra sarebbe stato proprio Jimmy e non Thibault. Se
Thibault fosse stato adottato dalla mamma di Jimmy cosa sarebbe capitato? Mah…
Me lo sono visto fino alla fine con piacere.
…ha il merito di arrivare diretto e di
affrontare in modo efficace la crisi economica accennando alla condizione dei
lavoratori della fabbrica dove lavora Jimmy. In più è proprio la differenza di
recitazione tra Lavernhe e Lottin che rende il film più autentico e che lo fa
crescere alla distanza come nell’emozionante finale man mano che evolve il
rapporto tra i due personaggi. Qui si sente l’eco del cinema di Lioret di cui
Courcol è stato sceneggiatore, anche nei bellissimi Welcome e Tutti i
nostri desideri. La malattia e la solitudine sono vengono mostrati in modo
sobrio in grado di incidere in maniera forte. La vita e la sua messinscena
diventano elementi coincidenti, come nel precedente film del regista, Un triomphe. Lì il teatro, qui la musica. Entrambi si portano
dietro tracce di storie vere. È poi il cinema ad esaltarle senza tradirle e a
darci l’illusione di prolungarle e a renderle dei passaggi che ci porteremo
dietro per sempre.
.
venerdì 13 dicembre 2024
giovedì 12 dicembre 2024
martedì 10 dicembre 2024
La Bestia (La bête) - Bertrand Bonello
mentre il titolo del film francese è La bête (in italiano La bestia), sui manifesti si legge che il titolo è The beast (maledetta lingua inglese imperialista anche al cinema!).
La bête è un film distribuito poco e male, forse dipende dal fatto che non c'è una fine consolatoria e ottimistica, o perché ci sono dei salti temporali che costringono lo spettatore a un'attenzione al di sopra di quella necessaria nella media dei film (e delle serie tv), come nel film Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind), con Jim Carrey.
un amore impossibile, quello di Gabrielle e Louis, che si rincorrono nel tempo, senza riuscire a concretizzare l'unione, anche l'intelligenza artificiale delle macchine è contro quest'unione.
c'è anche una bambola, sembra arrivare direttamente da Annette, di Leos Carax.
e poi c'e la Bestia, una presenza minacciosa.
se riuscite a trovare il film, ormai in qualche nascondiglio in qualche tv, provate a vederlo, anche solo per combattere una forma di censura, mai morta.
buona (sorprendente) visione - Ismaele
…La
Gabrielle del 2044, un 2044 molto simile al nostro
presente ma con - ovviamente - tecnologie avanzatissime, molti automi al posto
degli esseri umani e una straziante e quasi imposta solitudine (le persone girano
per strada sempre sole e con un visore che gli preclude qualsiasi interazione
con gli altri) sta cercando un lavoro, mi pare non specificato.
Viene richiesto un solo requisito, ovvero quello di non essere sopraffatti
dalle emozioni, non provarne più, perchè solo il nostro distacco da quelle
(potremmo azzardare una specie di Atarassia) ci può permettere di rendere al
meglio, di compiere sempre le scelte giuste, di affrontare le cose con la
perfetta serenità.
Concetti in realtà "pericolosi" ma anche inquietantemente
giusti potremmo dire, senza emozioni, passioni, paure ed entusiasmi le nostre
scelte, come un freddo calcolatore, saranno sempre quelle giuste.
Per arrivare a questo stato bisogna ripercorrere le nostre vite precedenti
(ovviamente il film mette alla base di tutto l'esistenza e veridicità di questo
concetto) e "ripulire" la nostra anima, eliminando tutte le cose che
in tutto il suo percorso l'hanno resa "viva", fragile,
"umana".
Non è un caso che la primissima scena che vediamo della vita di Gabrielle
(nella Parigi del 1910 che, di lì a poco, verrà sommersa dalla storica
alluvione della Senna), primissima scena che per tecnica (piano sequenza) e
ambientazione (palazzo signorile e tutti in costume) non può non rimandarci
ad Arca Russa, dicevo non è un caso che una delle prime frasi che dirà
Gabrielle sia "Io tengo alla mia anima".
Come se, in qualche modo, la Gabrielle che si sta sottoponendo a quel
trattamento fosse già in "protezione" e in conflitto con il
procedimento stesso.
"Sto facendo questo processo ma tengo alla mia anima, non voglio che
scompaia"
(e il film poi confermerà quanto quella frase fosse sentita e profonda).
Ma c'è subito un altro caposaldo del film che viene fuori sin
dalle primissime battute, ovvero quello che dà titolo al film, La Bestia.
Gabrielle vive la propria vita con la costante sensazione che stia succedendo
qualcosa di terribile, una tragedia, una sciagura, un qualcosa che può
annientarla.
Questo qualcosa è reificato in questa Bestia che però, a sua volta, sempre
astratta rimane, (alla faccia della reificazione...), reificazione che, in
qualche modo, è quindi soltanto semantica…
…Bonello
porta avanti questo discorso in The Beast attraverso
una narrazione non cronologica e volutamente asimmetrica, rapsodica nella
gestione delle tre storie; una narrazione tenuta insieme da rimandi interni a
volte diretti, altre basati sulla suggestione, sul link nascosto (come nei
videogiochi di qualche decennio fa) piuttosto che sul collegamento esplicito.
In un’epoca in cui il concetto di multiverso sembra aver ormai invaso la
narrazione audiovisiva, il regista francese ne adatta a suo modo la logica alla
più archetipica delle love story: quella, cioè, di due amanti impossibilitati a
trovarsi attraverso le epoche – e i mondi – bloccati qui non da una qualche
divinità, ma dalle stesse logiche generate (inconsapevolmente?) dall’evoluzione
tecnologica. Un’evoluzione forse nascosta dietro un glitch, evocata ai margini
del campo visivo come un mostro informe, insidiosamente celata ma capace di
azzerare del tutto l’umano. Capace, anche, di rovesciare un plasticoso happy
ending in un inquietante suggello distopico, con qualche collegamento (ma forse
è solo una nostra suggestione) col finale dell’indimenticato classico della
sci-fi orrorifica Terrore dallo spazio profondo (1978).
Una scelta confermata anche dai (non) titoli di coda con QR Code da
scansionare, “gioco” metatestuale ardito quanto coerente con l’impostazione del
film.
…Perno del
film, tuttavia, è il setting futuristico
e distopico rappresentato dal 2044. In un’epoca in cui le intelligenze
artificiali hanno rimpiazzato quasi completamente l’umanità, ogni forma di
socialità, di condivisione emotiva, di sfogo collettivo è ormai scomparsa. Ciò
che è rimasto è l’individuo in una forma epurata dalla sua umanità, nonostante il
processo di eliminazione delle emozioni al quale ci si può sottoporre venga
definito proprio come purificatorio. Gabrielle, che a differenza della piega
che ha preso l’umanità, è realmente intelligente, è in dubbio sulla validità
del processo, convinta che la relazione che la lega a Louis tra le epoche sia
più forte di ogni cosa…
… Anche stavolta, Bonello conferma il proprio amore per la
contaminazione tra più generi: nelle quasi 2 ore e mezza del lungometraggio si
alternano e si intrecciano almeno tre film differenti non soltanto per
contenuti e tematiche, ma anche per regia, fotografia, montaggio e colonna
sonora.
Un accostamento spavaldo, che alterna un racconto sci-fi minimalista
chiaramente debitore degli incubi di Philip K. Dick, un lento e intenso
melodramma in costume e un thriller-horror al cardiopalma, a loro volta
attraversati trasversalmente da una marcata vena onirico-simbolica che a più
riprese sembra voler strizzare l’occhio a Inland Empire, a Mulholland Drive e
all’immaginario visivo di David Lynch.
Il risultato è un film molto lungo,
volutamente disomogeneo e a tratti un po’ pretenzioso, che però ha il grande
merito di proporre una narrazione ambiziosa e proteiforme. Con il suo folle
viaggio psicologico, cronologico e genetico, il racconto di La Bête va molto al
di là della mera sperimentazione formale, e scava a fondo nei sentimenti dello
spettatore con una ricerca stilistica mai fine a se stessa.
Missione compiuta, quindi? A nostro avviso, assolutamente sì.
Bertrand Bonello, tuttavia, deve condividere il plauso con la memorabile Léa
Seydoux e il convincente George MacKay: la sceneggiatura non è sempre così
compatta, e senza il contributo di due interpreti così versatili e capaci di
adattarsi a qualsiasi linguaggio cinematografico non sarebbe stato affatto
semplice raggiungere il medesimo risultato…
sabato 7 dicembre 2024
Grand Tour - Miguel Gomes
si alternano immagini ambientate due secoli fa e altre girate in questi anni, in un bianco e nero essenziale.
la fuga di un uomo dalla sua fidanzata attraverso diversi paesi orientali, e la testardaggine di lei nel cercarlo.
(il regista non spiega perche Edward fugge, ma non importa).
uno si chiederà cosa ci fanno tutti quegli europei e statiunitensi nell'Estremo Oriente.
Miguel Gomes non approfondisce, ma tutta quella gente sono agenti del colonialismo, ladri di economie e territori, a diverso titolo.
la risata di Molly è davvero simpatica, non perdetevela.
un miracolo che un film come questo arrivi in sala, addirittura (!) in una cinquantina di sale.
buona visione - Ismaele
…Grand Tour è
la rappresentazione manieristica di un cinema in movimento, visionario nelle
sue semplici aspirazioni. Un cinema che bacchetta la situazione
sociale senza averne piena coscienza e senza volerlo fare. Miguel Gomes
è tra i riferimenti contemporaneo della “finzione documentaristica”.
Grand Tour è estetica che attraversa
l’urbanistica storica. Si! Anche. L’attenzione per i dettagli è la mappa di
un film così complesso. Si lavora per geografie e mappature. Edward e Molly
sono la rappresentazione di una condizione storico-fisica; sono, esattamente,
il tipo di persone che immagineremmo nel ‘700, cappotti, cappelli, consumati
dal freddo, intiepiditi dai lumi di bische, di chiese o
dipartimenti. Tutto ridotto in una cartina che non sgrana oltre i 16mm ma
si inserisce dentro.
Grand
Tour è la gloria
di Miguel Gomes, anche se
il regista dichiara di non esserne particolarmente affezionato, di non esser
realmente riuscito a catturare ciò che l’occhio/pensiero nudo ha visto, a riproporne
la sua bellezza. Eppure… questo film è bellissimo!
Grand Tour:
valutazione e conclusione
*Critica
y analisi. Disturbiamo Gilles Deleuze, solo come punto di
partenza nella parte più tecnica. “Il delirio è l’unica apparenza sensitiva che
sia in grado di mostrarci la passionalità per qualcosa”. Nel caso del filosofo
si esprime con la scrittura che traduce il pensiero, smascherando in sillabe
pause e accenti il processo mentale. Nel caso di Gomes la
sperimentazione visiva avviene attraverso la costruzione di una “storia” che
non ha una sua soluzione ma che induce all’esplorazione degli altri in se
stessa.
Grand Tour è quindi una storia di
amore, un thriller, un drammatico ma è soprattutto il “soppalco immaginativo”
di una ricerca mai fine a se stessa. Da bravi scolari la sceneggiatura
è lievita di manifestazioni linguistiche complesse addolcite da una scenografia
che, perché in bianco e nero, assolutizza la richiesta di non avere pretese e
di non ricercare intenzioni… quanto meno registiche. Pretenderlo spezzerebbe
l’incanto del cinema sperimentale, l’incanto dell’indipendenza artistica che
rimembra una storia cinematografica possente ed eurocentrica. Dai vizi
“viscontini”, i ribaltamenti parigini, le metafore sovietiche l’analisi si
completa con un’affermazione precisa: Grand Tour è l’erede
di filmografie divergenti, rivoluzionarie, acute; Miloš Forman nell’estetica,
Alejandro Jodorowsky nei concetti, Miguel Gomes nella mente esecutiva.
…Il
cineasta di Tabu e Le mille e una notte
– Arabian Nights si è dovuto confrontare in questo caso con i
limiti imposti alla produzione dalla pandemia, col Covid
che ha bloccato la troupe in uno studio a Lisbona col set
cinese del lungometraggio situato a 3500 km di
distanza, fra Shanghai e la provincia
del Sichuan (sono stati utilizzati anche i set
di Cinecittà, coi teatri di posa aricreare
soffusamente il passato in discontinuità con gli squarci più caotici del
presente). La sensazione è che tale ostacolo sia stato risolto
muovendosi ancora di più in direzione di un’ecletticità e di una frammentarietà
che determinano le varie piste e tracce del racconto, scandendone tanto i
momenti più strampalati e surreali quanto quelli più lirici e addirittura
spirituali.
Quello
di Grand Tour è dunque un altro esperimento di un autore
ormai abituato a una metodica da rabdomante, che usa la
narrazione come mosaico polifonico ma anche come
infinito serbatoio di squarci preziosi attraverso i quali lasciare emergere la
propria poetica. In questo caso, in un percorso che attraversa diversi paesi
asiatici, dal Giappone alle Filippine passando
per Cina, Thailandia e Vietnam,
il respiro della riflessione sugli strascichi del colonialismo
dell’Oriente è il convitato di pietra che tiene insieme tutto,
come controcampo filosofico e morale delle immagini mostrate, ma è soprattutto
il dispositivo narratologico e ciò che ne deriva a
guidare lo sguardo di Gomes e le sue direzioni e bisettrici.
Grand Tour, a conti
fatti, è un film in cui il senso si arrende al cospetto delle infinite
possibilità che derivano dall’accettare l’impossibilità di
comprensione umana – e occidentale in particolare – rispetto a certi misteri
esoterici e insondabili che abitano la cultura orientale. In questa
resa c’è una dichiarazione d’intenti liberatoria, che si abbandona a momenti di
cinema purissimo (l’esecuzione di My Way di Frank
Sinatra in un locale, tra le sequenze più belle, stranianti e
magnetiche di tutta Cannes 77, ma anche il valzer Sul
bel Danubio Blu di Johann Strauss piazzato
tra le strade di Saigon) e a una zona d’ombra rigenerante
tra la malinconia attonita e la vitalità
comica e strampalata (la peculiarissima risata di Molly è
decisamente indimenticabile).
…Anche il protagonista di questa storia deve
onorare un patto. Edward (Gonçalo Waddington), funzionario per conto
dell’Impero britannico nella Rangoon d’inizio Novecento (ma parla in
portoghese) deve sposare la fidanzata Molly (Crista Alfaiate). Quando però va
ad accoglierla al porto, sotto un monsone e con un mazzo di gigli bianchi in
mano, ci ripensa e scappa. E lì comincia il suo tour – culturale, esistenziale,
spirituale – per il Sudest asiatico, che è anche il nostro attraverso il cinema
di Gomes.
E poi ne comincia un altro. Quello di Molly, come in un Rashōmon versione
Lonely Planet d’autore, in parte girato in un maestoso e mai autocompiaciuto
bianco e nero (la fotografia è di Rui Poças, Gui Liange e del solito geniale
Sayombhu Mukdeeprom), in parte nei colori del documentario antropologico,
mischiando oltre alle lingue e agli stili anche i tempi, le mode, facendosi
opera sincretica, meticcia, davvero globale. Mentre i diversi narratori ci raccontano
la storia ora in indonesiano ora in cinese, squillano iPhone nell’Indochine
coloniale e i nostri eroi di ieri si muovono nel traffico di oggi, si passa da
Maugham (fra le ispirazioni dichiarate) e i resoconti alcolici di Lawrence
Osborne (almeno son venuti in mente a me).
È un film parlato e viaggiato, Grand Tour, che segue le
peregrinazioni dell’autore fra “i Paesi, i generi, i tempi, la realtà e
l’immaginazione”, ma anche nella storia del suo stesso matrimonio, nella guerra
tra i sessi (attraverso “stereotipi universali: la testardaggine delle donne
che trionfa sulla codardia degli uomini”). E ovviamente nel cinema (le visibili
ricostruzioni nei teatri di posa di Lisbona e Cinecittà, “le screwball
comedies degli anni ’30”), e nella letteratura, perché quella è sempre
la spina dorsale. Dopo il bellissimo Tabu, arrivato anche da noi
ormai più di dieci anni fa, l’opera monstre di Gomes
resta Le mille e una notte – Arabian Nights, il film-mondo in tre
volumi (Inquieto, Desolato, Incantato) che partiva dai racconti di
Shahrazād per mischiare, anche lì sincreticamente, la Storia reimmaginata di
ieri con quella del Portogallo di oggi.
Pure Grand Tour e i suoi non-eroi sono inquieti, desolati,
sempre incantati, alla ricerca di un posto nel mondo e soprattutto nel cinema,
che se resta vivo è anche grazie a film come questo, che prendono e partono,
all’avventura.
…L'operazione di Grand Tour è molto simile a quella di
Tabu: il passato che collassa e trova senso nel presente, o viceversa; il mito
effimero, sbiadito e sbriciolato dal tempo, del colonialismo e la sua revisione
critica; l’amore vissuto come impossibilità, come miscela di melodramma e
comicità paradossale; l'uso della voce narrante come veicolo primario della
parola. Ma la trama che segue un funzionario britannico in fuga dalla fidanzata
nell'Indocina coloniale è secondaria rispetto a come Miguel Gomes racconta, con
le immagini, l'Asia del presente. Grand Tour è allora un viaggio visionario nel
tempo e nello spazio, che esplora le potenzialità contemporanee del racconto
per immagini e che è capace di sprazzi di grandissimo cinema: carico di
spessore teorico ma anche, sempre, di felicissima ironia. (Federico Gironi -
Comingsoon.it)
La fuga
come occasione di tentata salvezza sia da parte di chi fugge, sia da parte di
chi insegue. Il viaggio di una coppia di promessi sposi motivata solo da un
lato, diventa il motivo per entrambi utile a scoprire che qualcosa per cui vale
la pena di vivere esiste ancora.
Qualcosa
per cui vale la pena non solo di vivere, ma anche di rischiare pur di
proseguire un viaggio avventuroso fino alla morte.
L'ultimo
gioiello ammaliante del cineasta portoghese Miguel Gomes non
arriva forse a toccare la magica alchimia del capolavoro Tabù (2012), ma certo completa in modo
magistrale, per stile di regia e originalità di racconto, un cerchio
esistenziale che si motiva tramite un viaggio di coppia spaiata nato da opposte
motivazioni.
Quelle che
faranno in modo che i due non si incontrino mai.
Un percorso
circolare attorno al globo, come quello della ruota dei divertimenti che si
vede attrarre pubblico presso un luna park ove viene fatta girare manualmente
con destrezza e tecnica affinata da abili acrobati e ginnasti tutt'altro che
improvvisati.
Un parco
d'attrazioni ove spicca anche un teatro di marionette che ripercorre pure lui
le tappe di un viaggio non dissimile alla disputa che oppone due promessi sposi
divisi tra vigliaccheria e voglia di avventura.
Grand Tour è
dunque un percorso raccontato più a parole, tramite io narranti in differenti
linguaggi autoctoni, ma pure plasmato da immagini di una bellezza struggente e
da ricostruzioni suadenti di una natura rigogliosa e superiore.
Gomes ci regala un film che esalta la magia
del cinema contrapposto tra narrazione incalzante e immagine contemplativa,
celebrando una umanità che dimostra stoicismo anche nella vigliaccheria più
spudorata o nella pedanteria più immotivata.
Questo più
recente lavoro di Gomes si rivela come uno dei veri grandi film del 2024.
…La prima parte di Grand Tour è
tutta dedicata a Edward e al suo vagare da un paese all’altro, tra fiumi, mari,
foreste, palazzi e tuguri. Una fuga che toccherà, dopo la Birmania, Singapore,
Thailandia, Shanghai, la parte di Cina vicino al Tibet, poi le Filippine, il
Giappne. Una geografia che è anche una mappatura della fascinazione esercitata
dall’Oriente sull’Occidente. “Ce ne andremo dall’Asia senza averla mai capita”,
dice un inglese insabbiato in un luogo remoto. Molly è invece la padrona della
seconda parte, ripercorrendo i luoghi toccati da Edward, sfiorandolo più volte,
spesso mancandolo. Di più è meglio non rivelare. Nei lunghi spostamenti dei due
promessi sposi incontriamo ambigui padroni venuti dall’Europa, locali ora
ostili ora (fin troppo) fedeli servi dei colonialisti, cortigiani di sovrani
indocinesi, americani misteriosamente arricchiti, in una galleria che è la
summa degli infiniti caratteri incontrati nel cinema coloniale della nostra
vita. Con sequenze memorabili, il treno deragliato nella giungla o la risalita
da parte di Molly di un fiume tra mille rischi che ricorda quella del
protagonista del coppoliano Apocalypse Now (e
di Cuore di tenebra di Conrad). Si esce dal cinema
con più dubbi che certezze. Grand Tour è
un film volutamente incerto e indefinito, molto libero, oscillante tra cinema
del reale e il cinema più ostentatamente artificiale-artificioso e “finto”,
aperto a infiniti rimandi e suggestioni, ma anche sfuggente, inconcluso. Anche
troppo derivato dal precedente Tabu.
venerdì 6 dicembre 2024
Il cavaliere Sole - Pasquale Scimeca
una storia siciliana, tratta da un romanzo di Italo Calvino, e poi da un'opera teatrale.
nella Sicilia, di campagna, alcuni attori devono recitare un'opera, il cavaliere Sole.
il film segue le loro avventure.
buona (poetica) visione - Ismaele
Un film indubbiamente atipico, in quanto adattamento
cinematografico dell'opera teatrale di Franco Scaldati, tratta dal romanzo di
Calvino (che colpevolmente non ho letto). L'impianto del film è ovviamente
teatrale, specialmente nella seconda parte, dove in pratica si assiste allo
spettacolo come se fossimo in teatro. Molto belli gli scorci della Sicilia
rurale e periferica, che ricordano i film di Ciprì e Maresco, così come gli
strani personaggi del film, che spesso parlano dialetto siculo (sottotitolato).
Poetico e malinconico; non per tutti.
martedì 3 dicembre 2024
Bar Giuseppe – Giulio Base
Ivano Marescotti è un barista, vedovo con due figli.
è un tipo silenzioso e triste, fino a che inizia a ospitare una ragazza africana, che lavora al bar, e poi la sposa.
intanto la sposa aspetta un bambino, senza precedenti rapporti sessuali, una storia già letta, no?
non consigliato a chi ama il ritmo dei film di Tarantino o dei fratelli Safdie.
non è un capolavoro, ma merita...
buona (giuseppina) visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo, su Raiplay
…Migrante da poco
arrivata in Italia – i suoi genitori sono stati uccisi dal Governo ed è
riuscita a compiere il “viaggio della speranza” grazie ai genitori adottivi –
Bikira è una giovane con grande forza e grande bontà d’animo. Una ragazza di
una bellezza pura, senza filtri, con un sorriso che nasconde un passato di
difficoltà ed un presente ricco di speranza. Il primo incontro con Giuseppe è a
dir poco intenso: nonostante il suo essere silenzioso, Bikira riesce a vedere
in lui un mondo.
Nonostante l’apparente
distanza, Giuseppe e Bikira si comprendono e si amano di un amore puro: loro
dimostrano che con il sentimento più forte che esista è possibile superare
tanti ostacoli è possibile mettere da parte diversità razziali, generazionali,
di classe e quant’altro. Il fulcro di Bar Giuseppe è
certamente l’accettazione dell’altro: il film è ambientato ai giorni nostri e
si svolge in un momento particolare della storia dell’umanità, con il dramma
dei migranti vissuto quotidianamente.
Negli ultimi anni
la catastrofe umanitaria è degenerata esponenzialmente, con il Paese che sembra
incapace di aprire le braccia a gente in difficoltà che fugge da stati di
miseria. Bikira è una giovane africana sbarcata da poco, una profuga come lo
sono stati Giuseppe e Maria. Cosa non ci consente di scavalcare i muri, fisici
e non? Perché non riusciamo a mettere da parte le differenze razziali e
generazionali così da abbracciare la fratellanza? Bar Giuseppe non
vuole dare un giudizio politico, Giulio Base sembra piuttosto intenzionato a
spingere lo spettatore a porsi delle domande.
La sceneggiatura
di Bar Giuseppe rispecchia il suo
protagonista, è semplice e volutamente scarna: il lavoro di sottrazione riesce
infatti a far crescere esponenzialmente l’intensità del film. La regia è variegata,
con un occhio di riguardo per droni e movimenti di macchina. E – ancora – Base
dimostra una particolare attenzione per i campi lunghi, una sorta di sguardo
divino, nonché per i dettagli particolari ed i tagli dell’immagine.
Bar
Giuseppe è certamente un film ardimentoso, delicato e
tremendamente attuale. Una storia che ha diverse possibilità di lettura e che
non è “riservata” solo ai credenti: è un’opera dalla grande
sensibilità umanistica – pregio raro.
Base
rivisita in chiave moderna e sconcertantemente verosimile la storia della Sacra
Famiglia: di certo la giovane Bikira (che, non a caso, in lingua swahili
significa "vergine") non si ritrova incinta per grazia divina, ma il
fatto che neghi il tradimento lascia pensare a qualcosa di terrificante dietro
(se davvero si vuol credere alla sua buona fede) e il finale sembra confermare questa
teoria. Marescotti davvero bravo nel suo essere espressivo pur restandosene
spesso in silenzio, stile narrativo instabile (procede ora lentamente, ora
frettolosamente). Comunque, non male.