venerdì 13 dicembre 2019

L'Ufficiale e la Spia – Roman Polanski

il film tratta del caso Dreyfus, visto dalla parte del colonnello Picquart.
e si descrive insieme una storia di tribunali, di spie, di lealtà, di giustizia, di tradimenti, di coraggio e di viltà, e sopratutto è una storia del potere che schiaccia la formica che per caso, oppure no, si trova sotto il suo stivale sporco di fango e sangue, e della resistenza al potere.
ed è anche il film su un'epoca, come non pensare alle facce e alle parole di quei generali che qualche anno dopo, in Europa, portavano al macello milioni di uomini, trasformati in soldati?
non c'è nessuna differenza fra i generali francesi e quei macellai che mandavano a morti i soldati italiani nel libro di Emilio Lussu e nel film di Francesco Rosi.
L'Ufficiale e la Spia è un film da non perdere, è sicuro, un regista di serie A, con attori bravissimi nelle sue mani, e una storia terribile e dolorosa non lasceranno indifferenti.
e Dreyfus, che con tutto quello che ha passato, in maniera un po' ingenua e testarda, vuole giustizia, vi aspetta - Ismaele





L'Ufficiale e la Spia si colloca nella categoria delle opere di impianto classico che trovano la via del grande schermo nel momento storicamente giusto. È sicuramente vero che il regista e il suo co-sceneggiatore Robert Harris lavorano da anni su questa idea ma è ora che è indispensabile mostrare, con un film capace di arrivare al grande pubblico, come il Potere sia in grado di costruire falsificazioni capaci di resistere a lungo e di sconvolgere vite.
Viviamo in tempi in cui la memoria collettiva è quotidianamente insidiata da una valanga di news tra cui è sempre più difficile distinguere le vere dalle fake. Attraverso la persona di Picquart (magistralmente interpretato da Dujardin) Polanski ci ricorda come siano necessari uomini che siano capaci di andare al di là delle proprie convinzioni (il colonnello non amava gli ebrei) quando si trovano di fronte a un'ingiustizia che diviene tanto più palese quanto più chi la sta perpetrando fa muro perché non ne emergano le falsificazioni.

da qui

è un tema che attraversa tutto L’ufficiale e la spia, quello della sistematica falsificazione e manipolazione della verità: un’operazione che muove da una tesi precostituita – l’ebreo intrigante e in partenza colpevole – e vi aggiusta intorno come può gli eventi fattuali, in un precario castello di carte che viene tenuto insieme (male) solo dal potere di chi lo ha eretto. Ed è persino sardonico, lo sguardo del regista, laddove rivela la fragilità e l’inconsistenza della costruzione accusatoria ai danni dell’ufficiale, mettendone in risalto i tratti grotteschi: ne è esempio la scena della perizia calligrafica, in cui Dreyfus viene accusato di avere una calligrafia troppo simile a quella del borderau che è principale atto d’accusa contro di lui, e contemporaneamente troppo diversa da quest’ultimo, a supposta prova di una cosciente manipolazione. Ed è proprio in un altro esplicito dialogo, solo apparentemente marginale nella tessitura della trama, che il regista riflette sul concetto di riproduzione contrapposto a quelli di falso e manipolazione, quando due personaggi sono di fronte a una scultura romana che replica (senza volervisi sostituire) il modello originale greco. Laddove una copia – come quella operata dal cinema – può in certi casi restituire la verità, un falso vuole invece sempre manipolarla…

non c’è traccia di senilità in questo nuovo film di Roman Polanski, che nel suo scorrere incessante rivela passo dopo passo, stanza dopo stanza, volto dopo volto, la lucidità della struttura narrativa che lo sostiene e l’orchestrazione sapiente di ogni sua singola scelta registica. Come viene ben incarnato (e dis-incarnato) da quelle dissolvenze incrociate che separano ciascun ingresso di Picquart nelle stanze del potere e che a ben vedere non hanno niente di “classico” né di rigoroso: dissolvono l’immagine e ripartono da un’assolvenza lasciando aleggiare più a lungo del previsto un bianco pulviscolo sullo schermo. Ciechi in piena luce, non possiamo far altro che attendere che un puzzle dai frammenti laceri, fatto di falsi e menzogne si componga per noi, nella consapevolezza che non sarà l’ultima volta: la verità e la giustizia ogni tanto trionfano, ma quel trionfo è solo un breve intermezzo nella Storia.

Un film appassionante, a cominciare dalla sceneggiatura di Richard Harris, che su suggerimento di Polanski aveva raccontato la vicenda nel libro con lo stesso titolo (Mondadori). Magnifica la regia, i costumi, gli arredi, gli scorci di strade dove passa sempre qualcuno. Le divise, le barbe, i baffi, i duelli sono di sublime realismo: non c’è scena che suoni falsa o costruita. Dal “Déjeuner sur l’herbe” (l’originale di Manet già scherza con il fuoco, una donna nuda tra due uomini vestiti; prima di strillare ricordate che doveva essere intitolato “Le bain”) all’intelligence che intercetta la corrispondenza e apre le missive (a secco o a vapore, ognuno aveva il suo metodo). E c’è Alphonse Bertillon, che dà la caccia ai criminali con metodo scientifico. “L’ufficiale e la spia” racconta – di sponda, con una prospettiva originale e potente – l’affaire Dreyfus, nella Francia di fine Ottocento. Ebreo, capitano dell’esercito, fu accusato di alto tradimento e incarcerato all’Isola del Diavolo, in Guyana. Il colonnello Georges Picquart sentì puzza di falso. Lo scrittore Émile Zola scrisse il suo “J’accuse”.

Mala fue la decisión de mantener al protagónico Picquart como un elemento clasificable dentro del clásico término de lawful good, desde su declaración expresa de que, aunque odie a los judíos, solo actúa pensando en el bien del Estado francés, hasta su posición, ya al final de la película, de actuar más allá de lo que la ley permite, aunque su voluntad así lo quisiera. Los mentados lawful good son los tipos de personaje más planos e impermeables de la ficción, por lo que escribir una trama con un arquetipo como este de protagonista requiere un arco de personaje que la Historia, entendida de forma absolutista, simplemente no permite. De ahí que los caracteres de la cinta se asemejen más a bustos que a personas reales, hasta el punto de llegar a un cierto maniqueísmo a la hora de tratar a los perpetradores del ejército. Aunque, efectivamente, desde el minuto uno el realizador Polanski se encarga de subrayar que su ejercicio es categóricamente fiel a los hechos reales, incluyendo a cada salto temporal un intertítulo con la fecha de la acción que en la pantalla transcurre. Qué interés tiene esta vaga voluntad historicista. Es una cuestión sin respuesta.

Tampoco puedo cantar alabanzas al apartado visual de la cinta: estéticamente, la propuesta del polaco y su habitual director de fotografía Pawel Edelman se encuentra dentro de lo convencional, y no por ello siendo más eficiente. Grises, verdes apagados y blancos rotos pueblan las dos horas de metraje sin demasiado cambio entre una escena y otra, independientemente de lo que en ellas ocurra. Que el despacho de un alto cargo del ejército se vea igual que la celda donde Picquart pasa sus días tiene que estar justificado de alguna forma en la historia que se trata entre ambos espacios; sin embargo, ni relación ni mención habrá al respecto. Ni en las evocaciones mentales derivadas de la correspondencia que Dreyfus envía desde la Isla del Diablo veremos más «chispa» o poderío visual: solo un filtro amarillo se encargará de dotar de personalidad a la imagen. Quedo convencida de que cuando un biopic, quizás el más sujeto a la convención de los géneros después de la pornografía mainstream, no estimula ni argumental ni visualmente, solo queda encontrar en la cinta un subtexto lo suficientemente convincente para superar el ennui de dos horas de oficiales hablando provoca. O eso, o buscarlo en el cineasta que firma la obra. Pero mejor no hablemos de Polanski.

La storia raccontata da Polanski, da un lato, è una storia di redenzione: Picquart, che quando appare per la prima volta nel film sputa una velenosa battuta anti-semita, poi diventa il salvatore di Dreyfus. Ma, tra i tanti pregi del film, c’è quello di non accogliere il patetismo che in genere, nel cinema mainstream, compare nelle storie di redenzione. L’ufficiale e la spia avrebbe potuto essere un Philadelphia (1993) con gli ebrei al posto dei gay. E invece no. I rapporti tra Picquart e Dreyfus rimangono freddi fino alla fine. Di nuovo la storia delle mentalità: quella tra i due personaggi è una riservatezza tutta vittoriana. Ma Polanski va oltre. Chiede a Garrel di muoversi in modo legnoso, impettito. Nel flashback in cui Dreyfus, allievo di Picquart alla Scuola di guerra, si lamenta con il suo insegnante perché gli ha dato un voto che ritiene basso, è davvero fastidioso: il primo della classe (tutti gli altri docenti, dice, gli hanno conferito ottimi voti) che cerca di farsi alzare il voto – non c’è niente di più insopportabile per un insegnante. Dall’altro lato, L’ufficiale e la spia è un film di spionaggio, e in particolare un film che racconta la nascita delle moderne tecniche investigative. Il predecessore di Picquart alla guida della sezione usava la vecchia risorsa degli informatori, individui loschi di cui Picquart, appena insediatosi, decide di sbarazzarsi, e contestualmente ordina di installare un campanello elettrico. Picquart ha fiducia nei ritrovati nella scienza e della tecnica moderne. I suoi uomini spiano l’ambasciata tedesca con cannocchiali e auricolari, ed è grazie alla fotografia che inchiodano Esterhazy. Così come fotografi sono presenti a tutti gli eventi pubblici che appaiono nel film, dalla cerimonia della degradazione ai diversi processi. Nell’universo mediale del secolo che sta iniziando, alla carta stampata, centrale nella battaglia attorno al caso Dreyfus, l’immagine fotografica – statica e in movimento – avrà sempre più peso. Polanski non lo sottolinea in modo esplicito, ma l’affaire Dreyfus e il cinema sono coevi: la scena di apertura, di cui si è detto, ha luogo il 5 gennaio del 1895. C’è una didascalia a specificarlo. Alla fine di quell’anno, in quella stessa città, i fratelli Lumière offriranno il primo spettacolo cinematografico della storia.

 la storia di Dreyfus è una tragedia greca così com’è, senza bisogno di aggiungere o levare una virgola. Se uno la prende per il bavero, la strapazza e la strizza per spremerne il succo, manco fosse un limone rinsecchito, fa una cavolata enorme. E si dà la zappa sui piedi. Dico questo a malincuore, perchè il film è bello. Se guardiamo solo il lato estetico dobbiamo ammetterlo. Il regista tiene saldamente in mano una storia complicata, senza perdere il ritmo, sia pur lento, degli avvenimenti; gli attori sono bravi e adatti alle parti; la sceneggiatura funziona e riesce a raccontare, senza sbavature, una serie di eventi intricati che coprono una ventina d’anni; la scenografia è perfetta; la ricostruzione di ambiente pure. Come dicevo all’inizio Polanski fa “cinema”. Come non si vede più in giro tanto facilmente. Basta a dimostrarlo la bella scena iniziale della degradazione di Dreyfus, solenne ed epica ma anche struggente, angosciosa. Ci vuole un regista di razza per fare una cosa del genere. Non a caso Polanski ha una certa età e affonda le sue radici nel grande cinema polacco degli anni d’oro.
Allora che cosa c’è che non va in «J’Accuse»? Non va proprio quello che manda in estasi alcuni sprovveduti, servi dell’editoria e dei soldi facili: che il film derivi da un romanzo e non da un libro di storia. Da un surrogato e non dall’originale. Senza rendersene conto (o forse rendendosene conto benissimo) chi scrive il romanzo della storia riduce la storia a un fotoromanzo; al solito vecchio schema hollywoodiano del Buono contro i Cattivi, del Bene contro il Male. Quel che non va è il manicheismo. Al servizio del best seller. Per carità: non siamo al livello ruspante e paesano di una volta, con i cow-boys contro gli indiani. Oggi il pubblico è sofisticato e mica ce lo freghi più così…

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