Netflix, il 2019 è l'anno della resa dei conti – Andrea Signorelli
All’inizio c’era la televisione. Poi c’era la pay tv. Adesso c’è Netflix:
il servizio di streaming ha ormai raggiunto quota 137 milioni di abbonati nel
mondo, di cui oltre 60 solo negli Stati Uniti. Da sola, Netflix ha più abbonati
negli USA dei sei principali fornitori di tv via cavo messi assieme. Ma la
vittoria di Netflix sulla pay tv non è sorprendente quanto la seconda mossa
strategica del colosso fondato da Reed Hastings: la conquista di Hollywood.
Negli ultimi cinque anni, Netflix ha prodotto serie tv, spettacoli di
stand-up comedy e documentari di enorme successo; sia di pubblico che di
critica. Solo nel corso del 2018, ha speso qualcosa come 13 miliardi di dollari
per i suoi contenuti originali; una cifra che la mette sullo stesso piano di
Disney, Fox e Time Warner. Tutto questo, pur restando sempre un prodotto economico
rispetto alla concorrenza, con abbonamenti che vanno da 8 a 14 euro al mese.
Il suo modello di business, insomma, sta diventando sempre più costoso: nel
2017 le spese complessive hanno raggiunto i 17,7 miliardi di dollari; oltre 4
volte quanto speso nel 2011. Ma allora come fa Netflix a guadagnare? Per
capirci qualcosa, bisogna partire da un numero: i mille contenuti originali
ospitati sulla piattaforma; una cifra esorbitante rispetto agli standard dei
suoi più tradizionali concorrenti (come ABC o Fox).
Ma perché Netflix si è messa a produrre questa immensa quantità di show
originali? Agli inizi della sua carriera, Reed Hastings si limitava a
noleggiare DVD spediti ai clienti via internet; poi – con il declino del
noleggio di DVD – ha lanciato la sua piattaforma di streaming, acquistando
licenze di film e serie tv. Grazie allo streaming, gli utenti di Netflix sono
saliti a una velocità impressionante: dai 7 milioni del 2007, fino ai 33 del
2012. Ma con il successo, gli studios di Hollywood hanno iniziato a fare
richieste sempre più onerose per concedere i propri film e serie tv in licenza.
Diventare la HBO
E quindi, invece di restare legato mani e piedi alle volontà degli studios,
Netflix ha deciso di prodursi i contenuti da solo; Daredevil, Stranger
Things, Narcos e tutti gli altri. Una strategia riassunta
da Ted Sarandos, chief content officer di Netflix, in poche parole: “Vogliamo
diventare la HBO prima che la HBO diventi noi”.
Come noto, tutto questo è iniziato con House of Cards:
l’apprezzatissima serie tv sul lato oscuro della politica americana che nel
2013 ha inaugurato con il botto il nuovo corso di Netflix. Una serie costata,
secondo le stime, 50 milioni di dollari a stagione e che ha rappresentato il
segnale inequivocabile di quanto Netflix avesse intenzione di fare sul serio.
Da allora, Netflix ha costantemente aumentato la sua offerta di prodotti
originali; dagli anime giapponesi, fino ai documentari sportivi e a un numero
apparentemente infinito di film con Adam Sandler.
Allo stesso tempo, la piattaforma ha iniziato a cancellare i prodotti su
licenza: niente più How I met your mother, niente più Lost e
molti altri ancora. Netflix adesso ha pieno controllo sul suo destino; ma il
prezzo da pagare è stato molto alto. E questo ci porta a un secondo numero
cruciale: i già citati 13 miliardi di dollari spesi per i contenuti nel solo
2018.
Un numero enorme, soprattutto per un’azienda il cui modello di business si
basa su un abbonamento abbastanza economico. Dal punto di vista tecnico,
Netflix è in attivo: ha un fatturato che, nel 2017, è stato di 11,7 miliardi di
dollari; con un utile di 560 milioni. Ma questi dati non raccontano tutta la
storia: per esempio, produrre The Crown costa 130 milioni di
dollari a stagione, ma queste spese vengono distribuite su più anni; in modo da
impattare meno sui bilanci annuali. Una pratica normale, nota come
ammortamento, ma che provoca un costante aumento delle spese anno dopo anno.
Se si guarda al flusso di cassa disponibile, la situazione è infatti molto
meno rosea: Netflix, da questo punto di vista, è andata in rosso per circa 2
miliardi di dollari nel 2017. Per il momento, non ci si preoccupa troppo di
questo numeri negativi, come dimostra il fatto che il rosso potrebbe salire nel
2018 a 3 o 4 miliardi: per Reed Hastings, l’unico numero che conta davvero è
quello degli utenti: 137 milioni. Come ogni compagnia della Silicon Valley che
si rispetti, anche per Netflix la costante crescita di abbonati è la sola
ossessione.
Una perenne start-up
Poco importa che Netflix abbia già vent’anni di vita, gli investitori la
trattano come una start-up. Non conta nemmeno che abbia spese eccessive, ma
solo che continui ad aumentare i suoi abbonati. Con il risultato che, nei primi
mesi del 2018, il valore delle sue azioni in borsa è raddoppiato, portando la
piattaforma a una capitalizzazione di mercato massima di 165 miliardi di
dollari; più del colosso Disney (prima di crollare a 107 miliardi nelle ultime
settimane di panico generalizzato a Wall Street).
Non rischia tutto questo di dimostrarsi una bolla? Per evitare di crollare
sotto il peso delle aspettative, Netflix deve aumentare senza sosta il numero
di abbonati; il che spiega la decisione di espandere la produzione di contenuti
originali internazionali (con un particolare focus sull’India). In più, il
prezzo dell’abbonamento dovrebbe continuare ad crescere, soprattutto visto che
l’ultimo aumento non ha in alcun modo rallentato la crescita degli abbonati.
Infine, la compagnia a un certo punto ridurrà la folle spesa per produrre nuovi
contenuti; non appena la sua libreria di contenuti avrà raggiunto la soglia
critica ritenuta sufficiente.
Niente di diverso dal modello di business di Amazon, che per anni ha perso
soldi ma ha continuato ad aumentare gli utenti e ad alzare il prezzo per la
sottoscrizione ad Amazon Prime; fino a diventare remunerativo. Secondo gli
esperti, il flusso di cassa di Netflix dovrebbe diventare positivo entro il
2022; sempre che tutto vada secondo i piani.
Netflix dovrà infatti vedersela con una concorrenza che si sta facendo
sempre più agguerrita: Disney sta per lanciare il suo servizio di streaming,
così come Apple. Nel frattempo, Amazon sta spendendo sempre di più per rendere
il suo Prime Video un vero rivale, e anche YouTube vuole creare qualcosa di
simile con i suoi nuovi servizi a pagamento e la produzione di serie tv
originali. Tutto questo, mentre i colossi tradizionali – come AT&T e Time
Warner – compiono maxi-fusione societarie per tenere testa alle ambizioni di
Netflix e non fare la fine di Blockbuster.
Netflix, in definitiva, ha bisogno di creare sempre più contenuti per
conservare la sua supremazia, ma questo rischia di far salire ulteriormente le
spese; soprattutto considerando che il servizio streaming di Disney potrà
immediatamente fare affidamento su tutti i prodotti di Star Wars, dell’universo
Marvel e della Pixar.
Secondo molti analisti, la strada per Netflix è tutta in discesa: entro due
o tre anni dovrebbe arrivare a quota 200 milioni di abbonati per poi crescere
fino a 260 milioni nel giro di dieci anni. Ma se Netflix non dovesse riuscire a
soddisfare le aspettative, le conseguenze potrebbero essere disastrose: il
servizio di streaming attrae investitori solo sulla base delle promesse per il
futuro; ogni volta che qualche obiettivo viene mancato, le azioni ne risentono
pesantemente.
A questo punto, l’unica scelta di Netflix è continuare a bruciare soldi e
produrre un numero sempre maggiore di contenuti originali; aumentando
costantemente il rischio complessivo nella speranza, un domani, che tutte le
sue aspettative vengano rispettate e possa diventare un’azienda realmente
profittevole. Netflix si comporta come se fosse un business di sicuro successo;
in verità, il rischio di trasformarsi in un castello di carte non può essere
sottovalutato.
Conti in caduta e
concorrenza aggressiva, il futuro di Netflix è sempre più incerto - Giuliano Balestreri
Il primo problema dei Netflix sono i conti. Il secondo, ben più
grave, si chiama concorrenza. E se probabilmente è troppo presto
per pensare che la società sia entrata in una pericolosa spirale negativa, non
lo è per capire che il gruppo ha bisogno – molto rapidamente – di mostrare al
mercato di essere in grado di diversificare la propria offerta aumentando i
servizi. Non è una strada semplice da percorrere, ma Reed Hastings non
ha molte carte nel mazzo da giocarsi.
“Da inizio anno il titolo è in
positivo, ma la percezione degli operatori è mutata dopo la pubblicazione dei
dati sul secondo semestre” spiega Edoardo Fusco Femiano, market
analyst di eToro che poi aggiunge: “Netflix ha fallito sotto tutte le metriche
di riferimento. Dalla crescita delle sottoscrizioni complessiva (2,7 milioni
contro le attese per 5 milioni, ndr) alla decrescita degli abbonati negli Stati
Uniti, fino alla generazione negativa di cassa e all’aumento
del debito finanziario su base annua”.
Le conseguenze sono chiare: Netflix è cresciuta grazie a un circolo
virtuoso basato sulla crescita costante degli abbonati che ha fatto
dimenticare al mercato sia l’incapacità dell’azienda di fare utili sia la sua
capacità di accumulare debiti. D’altra parte i miliardi di dollari presi in
prestito sono serviti a finanziare centinaia di costose produzioni che – a loro
volta – hanno fatto crescere gli utenti e a cascata il valore del titolo. E più
Netflix investiva in produzioni, più aveva chance di trovare la sua gallina
della uova d’oro come La Casa di Carta o Stranger
Things. La battuta d’arresto di fine luglio ha acceso un campanello
d’allarme sul futuro dell’azienda mostrando al mondo che la crescita non è
garantita a vita.
“Come se non bastasse – prosegue
Fusco Femiano – la concorrenza di Disney e AT&T, che hanno lanciato
programmi di streaming TV a condizioni più convenienti di Netflix, sta
spingendo la società a cercare espansione in mercati nuovi, ma è evidente che
questo settore sia ormai maturo e si stia saturando rapidamente”.
“Questo non è un mercato dove ci
sono sostituzioni come per gli elettrodomestici o per le auto” incalza Roberto
Verganti, professore di Leadership e Innovation alla School of Management
del Politecnico di Milano, secondo cui “per aumentare il fatturato Netflix è
condannata a fornire nuovi servizi, magari attraverso abbonamenti premium o
simili. Nel frattempo deve continuare a produrre contenuti di successo
prendendo tutti i rischi necessari”.
Il pericolo numero uno per Netflix si chiama Disney perché
potrebbe attrarre oltre 30 milioni di nuovi clienti entro la fine del prossimo
anno e soprattutto avrà un costo annuo di circa 40 dollari: “E’ un prezzo molto
inferiore a quello di Netflix – osserva il market analyst di eToro –, ma
non dobbiamo dimenticare Amazon che ha una capacità di spesa enorme
come ha dimostrato con l’ecommerce”. Disney, però, ha già annunciato che nei
prossimi trimestri si concentrerà con tutte le forze sui video online e per
finanziare le operazioni ha già iniziato ad aumentare le fonti di ricavo dalle
sue attività alternative, come i parchi divertimento. “La forza di Disney –
sottolinea Verganti – è proprio quella di riuscire ad aumentare i
flussi di cassa da altre attività, mentre Netflix non ha scelta”.
“I competitor saranno in grado di
finanziare la propria trasformazione attingendo ai settori più forti, Netflix
no e anzi dovrebbe aumentare le spese di marketing ma questo – avvisa Fusco
Femiano – aumenterà la pressione sui conti”. Anche perché nel frattempo è
probabile che Netflix perda gran parte dei contenuti di Disney e
di tutte quelle piattaforme che vedranno la luce. Con il rischio di alimentare
un circolo vizioso nel quale il calo delle azioni spaventerà gli investitori
rendendo più difficile finanziarsi e di conseguenza produrre nuovi film e
serie.
Per Verganti, però, ci sono tanti settori ancora da esplorare “dal mondo
del gaming a quello dell’education. Di certo Netflix non può stare
ferma”. Per Fusco Femiano, invece, “è fondamentale vedere chi avrà sinergie
industriali. La concorrenza metterà fuorigioco chi non sarà abbastanza
efficiente. Io credo che il settore andrà verso l’aggregazione e allora
aumenteranno i profitti”. Come a dire che Netflix deve dimostrare di riuscire a
stare sul mercato di fronte della concorrenza. E di una valutazione pari a
oltre 90 volte gli utili.
Allarme Netflix,
senza pubblicità potrebbe perdere 4 milioni di abbonati - Giuliano Balestreri
Netflix ha due, enormi, problemi. Il primo è nei conti: continuano a deludere gli analisti.
Soprattutto per quelle che sono le attese future. Il secondo, forse più grave,
si chiama concorrenza. E se probabilmente è troppo presto per pensare che la
società sia entrata in una pericolosa spirale negativa, non lo è per capire che
il gruppo ha bisogno – molto rapidamente – di mostrare al mercato di essere in
grado di diversificare la propria offerta aumentando i servizi. Non è una
strada semplice da percorrere, ma Reed
Hastings non ha molte carte nel mazzo da giocarsi. Potrebbe
pensare, per esempio, di affiancare allo storico product placement qualche
forma di pubblicità tradizionale: un’ipotesi che i vertici del gruppo
respingono con forza, ma che al mercato piace molto. D’altra parte l’ultimo
documento depositato alla Sec – la Consob americana – mostra con chiarezza come
la società abbia fretta di trovare nuove fonti di ricavo per gli abbonamenti
potrebbero non essere più sufficienti. Anche perché gli utenti che spendono di
più sono i nord americani con un abbonamento mendio di 13,08 dollari al mese
per poco più di 67 milioni di consumatori. Purtroppo per Netflix, però, il
tasso di crescita sta rallentando.
A questo poi, si aggiunge il fatto che i competitor, da Disney ad Amazon,
saranno in grado di finanziare la propria trasformazione attingendo ai settori
più forti (per esempio, Disney ha aumentato il prezzo dei biglietti dei parchi
divertimento, ndr), mentre Netflix ha una sola fonte di ricavi e, anzi, sarà costretta ad aumentare le spese di
marketing e di conseguenza la resistenza all’avanzata di altri
attori aumenterà ulteriormente la pressione cui conti. Anche perché nel
frattempo è probabile che Netflix perda gran parte dei contenuti di Disney e di
tutte quelle piattaforme che vedranno la luce. Con il rischio di alimentare un
circolo vizioso con il calo del prezzo delle azioni che spaventa investitori
rendendo – di conseguenza – più difficile finanziarsi sul mercato e a cascata
più complicato produrre nuovi film e serie.
Nell’ultimo anno, la società ha provato a lanciare pacchetti più economici
solo per il mobile in India e Malesia: una strategia che ha fatto salire il
numero degli abbonati, ma non quello dei ricavi medi. Di certo, se Netflix ha
intenzione di continuare a spendere 15 miliardi di dollari in contenuti ogni anno ha bisogno di far salire le
proprie entrate.
Fino ad oggi, Netflix è cresciuta grazie a un circolo virtuoso basato sul
costante aumento degli abbonati che ha fatto dimenticare al mercato sia
l’incapacità dell’azienda di fare utili sia la sua capacità di accumulare
debiti. Anche perché i miliardi di
dollari presi in prestito sono serviti a finanziare centinaia di costose
produzioni che – a loro volta – hanno fatto crescere gli utenti e
il valore del titolo. E più Netflix investiva in produzioni, più aveva chance
di trovare la sua gallina della uova d’oro come La Casa di Carta o Stranger
Things. La battuta d’arresto degli ultimi mesi ha acceso un campanello
d’allarme sul futuro dell’azienda mostrando al mondo che la crescita non è
garantita a vita.
Roberto Verganti, professore di Leadership e Innovation
alla School of Management del Politecnico di Milano, è convinto che “per
aumentare il fatturato Netflix è condannata a fornire nuovi servizi, magari
attraverso abbonamenti premium o simili. Nel frattempo deve continuare a
produrre contenuti di successo prendendo tutti i rischi necessari”. Senza
dimenticare, dice il professore, che ci sono tanti settori ancora da esplorare
“dal mondo del gaming a quello dell’education. Di
certo Netflix non può stare ferma”.
Gli analisti, però, sono convinti che la risposta più efficace sarebbe la
pubblicità. Per esempio, gli esperti di Needham sono convinti che senza un
abbonamento low cost da 5-7 dollari al mese, ma sostenuto dalla raccolta
pubblicitaria, Netflix andrebbe
incontro nel 2020 a una fuga 4 milioni di abbonati verso i competitor. Motivo
per cui dopo le parole di Reed che sembrano chiudere agli spot, almeno per
l’anno prossimo, gli analisti di Needham hanno tagliato ad “underperform” il
titolo stimando una perdita di 4 milioni di abbonati. Secondo Nomura, invece,
se a partire dal 2020 Netflix introducesse un modello stile Spotify potrebbe incassare
subito un miliardo di dollari dalla pubblicità.
Netflix costretta ad accogliere la pubblicità nel 2020 - Allan Obertino
Il 2019 è
stato un anno pieno di successi: Stranger Things, The Witcher, Casa de Papel, Living with
yourself, The Politician. Ma non bastano. Netflix è in perdita. Lo dicono gli analisti, ed anche i loro
conti. Produrre serie di successo richiede degli investimenti importanti,
possibili finché il mercato non si riempie di agguerriti concorrenti
quali Disney+ e Amazon Prime, che continuano ad
aumentare il loro catalogo, andando in alcuni casi a ridurre quello di Netflix
(per esempio le serie Marvel).
Gli
abbonamenti Standard e Premium sono aumentati di 1-2€,
mentre in India ed in Malesia hanno introdotto degli abbonamenti low-cost per mobile, che hanno
portato nuovi clienti. Ma tutto questo non basta. Netflix spende circa 15
miliardi l’anno per produrre nuove serie, pubblicizzarsi e comprare
prodotti, cifre che al netto dei guadagni attuali, non può permettersi. Per
questo c’è chi propone di inserire della pubblicità, con un modello simile
a Spotify. Le stime
prevedono una perdita di 4milioni di utenti durante il 2020, che andrebbero invece
ad arricchire le altre piattaforme di streaming. Questa volta nemmeno un
massiccio Henry Cavill potrebbe
salvarli.
Che ne
pensate? Rimarrete fedeli a Netflix se aggiungesse degli spot pubblicitari o
abbandonereste la nave?
Vi dico cosa
combinano WeWork e Netflix. Parla Stefano Feltri (ProMarket)
(intervista di Michele Arnese)
La mancata
quotazione di WeWork (bolla evitata?), le vicissitudini di Uber e la
concorrenza di Disney+ e Amazon Prime Video a Netflix sono da approfondire. Che
ne pensi di WeWork?
C’è stata una fase in cui le start up si quotavano in Borsa per fare il
salto di qualità e continuare a crescere grazie all’iniezione di capitale
fresco. WeWork – un’azienda che prende in affitto a lungo termine edifici che
poi ristruttura e riaffitta come spazi da ufficio a breve – è parte di una
generazione diversa: la quotazione serve ad arricchire il fondatore e i suoi
soci iniziali, che fanno miliardi scaricando sugli altri investitori il rischio
che la start up si riveli un fallimento. Con WeWork, per fortuna, gli
investitori hanno rifiutato di farsi spennare e hanno fermato quella che doveva
essere una quotazione da 45 miliardi. Il castello di carte è crollato, il
carismatico fondatore Adam Neumann è stato licenziato, anche se con una
buonuscita da oltre un miliardo che dimostra quanto avesse distorto la governance
dell’azienda nella direzione di una monarchia assoluta.
Un caso
isolato o ci sono tante WeWork pronte ad esplodere?
Se gli investitori, finora affamati di rendimenti in un mondo di tassi
zero, cominciano a diventare diffidenti, Neumann non sarà il solo a saltare.
Uber, con i suoi 20 miliardi di perdite cumulati, è la prima della lista.
Come vanno
davvero i conti di Netflix? E come può continuare a crescere?
Il modello di Netflix si fonda su una crescita continua degli abbonati che
giustifica investimenti giganteschi in contenuti originali, ormai siamo a 15
miliardi all’anno. Ma la crescita degli abbonati sta rallentando, Netflix ne
dichiara 158 milioni e pare impossibile possa mai arrivare a quei 700-750
impliciti nel suo attuale prezzo di Borsa. La concorrenza sta aumentando. I
servizi in streaming negli Usa sono oltre 200, ma alcuni sono in grado di
sottrarre molti utenti a Netflix. L’ultimo arrivato è Disney+ che ha Star Wars,
i Simpson, i cartoon e perfino lo sport. Se per i servizi di streaming vale quello
che abbiamo visto per i quotidiani on line – i pochi che si abbonano, pagano
una sola testata, ma due-tre – per Netflix saranno dolori.
Ho visto che
su ProMarket vi state occupando molto di una nuova procedura in consultazione della
Sec sul voto delle assemblee. Molto tecnica la questione. Ci aiuti a capire
portata e rilevanza?
E’ un po’ complesso, ma in sintesi: gli investitori istituzionali (come i
fondi pensione) detengono circa l’80 per cento del capitale delle società
quotate a Wall Street e per legge sono obbligati a votare alle assemblee dei
soci, ma non hanno tempo di studiare le informazioni per tutte le aziende di
cui sono soci. Quindi pagano degli appositi consulenti, i proxy advisors, per
dare indicazioni di voto. Due aziende, ISS e Glass Lewis, hanno quasi tutto il
mercato e gli amministratori delegati e i vertici delle società quotate sono
sempre più insofferenti verso lo strapotere di questi due proxy advisors che
hanno anche la pretesa di condizionare le decisioni delle assemblee su temi
come la trasparenza degli stipendi dei vertici, la lotta alla crisi climatica e
l’uguaglianza di genere. La Sec, la Consob americana, ha annunciato un nuovo
set di regole che recepisce le istanze degli amministratori delegati: se un
proxy advisor vuole far votare i suoi clienti contro i manager della società,
deve prima anticipare le critiche all’ad, rivelare con quale metodologia ha
elaborato la posizione e, se questa non piace all’ad, rischia anche conseguenze
legali.
Ho visto che
hai sfruculiato anche con un tweet Bloomberg. Va be’, allora è proprio vero che
fate il tifo per la Warren…
Ho scritto un pezzo per commentare l’incredibile statement del direttore
di Bloomberg News, John Micklethwait, che spiega come gestiranno la
campagna presidenziale del loro editore. Bloomberg, una delle
grandi testate globali con risorse e pubblico per fare grandi inchieste, non
indagherà su Bloomberg e neppure sugli altri candidati Democratici. Se
Bloomberg avrà la nomination, par di capire, addio giornalismo investigativo
anche su Donald Trump. Con i suoi 30 milioni di dollari già investiti nella
campagna elettorale, Bloomberg sta cercando di comprarsi la Casa Bianca e il
primo risultato della sua corsa è aver peggiorato la qualità del dibattito
pubblico. Per uno col suo patrimonio, costa meno ottenere la presidenza che
pagare la tassa sui patrimoni che Elizabeth Warren gli infliggerebbe se alla
Casa Bianca ci arrivasse lei. Peggio di Trump non si può avere nessuno, ma
meglio di Bloomberg sì.
Come Netflix sta rivoluzionando il mercato globale dei media - Jennifer Holt
Il tema della distribuzione
dei film (ma anche delle serie e dell’intrattenimento audiovisivo)
e della sua relazione con la circolazione e il commercio dei dati digitali è
oggi estremamente rilevante. Attualmente, quando parliamo di “distribuzione” a
proposito dei film ci riferiamo al passaggio dalla bobina di cellulosa e dalla
pellicola cinematografica al sistema numerico-digitale degli “0” e degli “1”:
ormai il 97% del cinema è digitale,
e le piattaforme di streaming online sono cresciute, via via, nella loro
importanza per l'industria mediale nel suo complesso.
Questa trasformazione ci ha costretti a occuparci della transizione dall’analogico al digitale e
a ripensare a come il cinema viene confezionato, trasportato, disseminato e
consumato da pubblici diversificati, in tutto il mondo.
Apple pronta a sfidare Netflix nel mondo dello streaming video
Negli Stati Uniti abbiamo assistito a una vera e propria battaglia
economico-culturale che ha riguardato l’ultimo film di Martin Scorsese, The Irishman, una produzione Netflix da 160 milioni di
dollari, in distribuzione dal prossimo mese di novembre: questo caso
costituisce un esempio significativo, e molto istruttivo, di quelle mutazioni e
di quelle tensioni che sono germogliate nell’industria dei media nell’ultimo
decennio. Il film, infatti, è costretto a una distribuzione in piccoli cinema
poiché le grandi catene del Nord America si rifiutano di proiettare contenuti
che non siano in grado di assicurare una finestra esclusiva nelle sale di
almeno tre mesi prima di approdare allo streaming sulle piattaforme online come
Netflix.
Ma proprio Netflix, che ha prodotto il film, pretende di poterlo
distribuire dopo sole tre settimane dal passaggio in sala: perciò The Irishman
è stato “messo al bando” dalle catene di esercenti più estese e potenti degli
Usa. Insomma, è piuttosto ovvio che le catene che gestiscono i cinema e i
colossi digitali come Netflix o Amazon
Video continueranno a combattersi sull’ampiezza, o l’esistenza, di
uno spazio “theatrical”, ovvero sulla possibilità che i film continuino a
essere consumati nelle sale quando vengono prodotti dalle, e per le, piattaforme di streaming: una lotta
che coinvolge naturalmente anche i grandi artisti, i registi, gli agenti, le
major che controllano gli studios.
Se analizziamo la distribuzione digitale e il nuovo ruolo giocato dai dati è necessario studiare con
attenzione anche come questi stessi dati possono essere regolati e protetti,
dal momento che essi attraversano piattaforme digitali globali provenendo da
remoti server, solitamente definiti “cloud”, e finiscono per essere soggetti al
patchwork composito e informe della legislazione internazionale, a diverse
condizioni d’uso (“Terms of Service”), a variegate politiche relative a come
possono essere immagazzinati e trasmessi come contenuti digitali
Distribuire e controllare i dati digitali nel momento in cui essi viaggiano
in tutto il mondo pone delle vere e proprie sfide che vanno decisamente al di
là dei tradizionali paradigmi legali, dei confini nazionali e delle usuali
geografie della politica nazionale. L’ascesa delle piattaforme globali come
Netflix sul terreno della distribuzione digitale ha creato dei veri e
propri “data troubles”:
problemi da risolvere per tutti gli attori in campo, dai dirigenti degli
studios che producono i contenuti ai proprietari delle sale cinematografiche,
dai regolatori e policy makers che si muovono a livello sovrannazionale, a
tutti noi come pubblici dei film.
Per provare a sbrogliare questi intricati problemi, è necessario affrontare
alcune delle dinamiche industriali, culturali e politiche che collegano fra
loro l’uso e la governance dei dati entro lo scenario mutevole della
distribuzione digitale. Per fare questo, è altresì necessario, in primo luogo,
discutere ampiamente dei profondi cambiamenti che stanno caratterizzando le industrie dei media, a cominciare
con tutto quel grande processo di integrazione fra le compagnie mediali e
quelle tecnologiche, senza dimenticare la rilevanza che per entrambi i comparti
rivestono il ricorso agli algoritmi e ai cosiddetti “big data”, nonché le questioni che
hanno a che fare con quella “cultura della sorveglianza” che diventa oggi
sempre più pervasiva.
Infatti, i data troubles che l’industria cinematografica e mediale globale
e le audience si trovano a dover affrontare sono direttamente connessi con le
importanti questioni che sono in gioco, come la privacy personale, la sicurezza dei dati e la stessa libertà
digitale. È anche certo che tutte queste questioni fra loro intrecciate svelano
quanto c’è veramente sul piatto in questo momento: il destino della cultura, dell’informazione e della cittadinanza nell’era
delle piattaforme digitali.
Questo articolo è un’anticipazione della relazione inaugurale di Jennifer
Holt, professore di Media Studies presso l’Università della California Santa
Barbara, al convegno internazionale “The International Circulation of National
Cinemas and Audiovisual Content: the Challenge of Convergence and Multiplatform
Distribution in the European Context” organizzato il 17 e il 18 settembre
dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
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