mercoledì 25 dicembre 2019

dicono di Netflix


Netflix, il 2019 è l'anno della resa dei conti – Andrea Signorelli 

All’inizio c’era la televisione. Poi c’era la pay tv. Adesso c’è Netflix: il servizio di streaming ha ormai raggiunto quota 137 milioni di abbonati nel mondo, di cui oltre 60 solo negli Stati Uniti. Da sola, Netflix ha più abbonati negli USA dei sei principali fornitori di tv via cavo messi assieme. Ma la vittoria di Netflix sulla pay tv non è sorprendente quanto la seconda mossa strategica del colosso fondato da Reed Hastings: la conquista di Hollywood.
Negli ultimi cinque anni, Netflix ha prodotto serie tv, spettacoli di stand-up comedy e documentari di enorme successo; sia di pubblico che di critica. Solo nel corso del 2018, ha speso qualcosa come 13 miliardi di dollari per i suoi contenuti originali; una cifra che la mette sullo stesso piano di Disney, Fox e Time Warner. Tutto questo, pur restando sempre un prodotto economico rispetto alla concorrenza, con abbonamenti che vanno da 8 a 14 euro al mese.
Il suo modello di business, insomma, sta diventando sempre più costoso: nel 2017 le spese complessive hanno raggiunto i 17,7 miliardi di dollari; oltre 4 volte quanto speso nel 2011. Ma allora come fa Netflix a guadagnare? Per capirci qualcosa, bisogna partire da un numero: i mille contenuti originali ospitati sulla piattaforma; una cifra esorbitante rispetto agli standard dei suoi più tradizionali concorrenti (come ABC o Fox).
Ma perché Netflix si è messa a produrre questa immensa quantità di show originali? Agli inizi della sua carriera, Reed Hastings si limitava a noleggiare DVD spediti ai clienti via internet; poi – con il declino del noleggio di DVD – ha lanciato la sua piattaforma di streaming, acquistando licenze di film e serie tv. Grazie allo streaming, gli utenti di Netflix sono saliti a una velocità impressionante: dai 7 milioni del 2007, fino ai 33 del 2012. Ma con il successo, gli studios di Hollywood hanno iniziato a fare richieste sempre più onerose per concedere i propri film e serie tv in licenza.
Diventare la HBO
E quindi, invece di restare legato mani e piedi alle volontà degli studios, Netflix ha deciso di prodursi i contenuti da solo; DaredevilStranger ThingsNarcos e tutti gli altri. Una strategia riassunta da Ted Sarandos, chief content officer di Netflix, in poche parole: “Vogliamo diventare la HBO prima che la HBO diventi noi”.
Come noto, tutto questo è iniziato con House of Cards: l’apprezzatissima serie tv sul lato oscuro della politica americana che nel 2013 ha inaugurato con il botto il nuovo corso di Netflix. Una serie costata, secondo le stime, 50 milioni di dollari a stagione e che ha rappresentato il segnale inequivocabile di quanto Netflix avesse intenzione di fare sul serio. Da allora, Netflix ha costantemente aumentato la sua offerta di prodotti originali; dagli anime giapponesi, fino ai documentari sportivi e a un numero apparentemente infinito di film con Adam Sandler.
Allo stesso tempo, la piattaforma ha iniziato a cancellare i prodotti su licenza: niente più How I met your mother, niente più Lost e molti altri ancora. Netflix adesso ha pieno controllo sul suo destino; ma il prezzo da pagare è stato molto alto. E questo ci porta a un secondo numero cruciale: i già citati 13 miliardi di dollari spesi per i contenuti nel solo 2018.
Un numero enorme, soprattutto per un’azienda il cui modello di business si basa su un abbonamento abbastanza economico. Dal punto di vista tecnico, Netflix è in attivo: ha un fatturato che, nel 2017, è stato di 11,7 miliardi di dollari; con un utile di 560 milioni. Ma questi dati non raccontano tutta la storia: per esempio, produrre The Crown costa 130 milioni di dollari a stagione, ma queste spese vengono distribuite su più anni; in modo da impattare meno sui bilanci annuali. Una pratica normale, nota come ammortamento, ma che provoca un costante aumento delle spese anno dopo anno.
Se si guarda al flusso di cassa disponibile, la situazione è infatti molto meno rosea: Netflix, da questo punto di vista, è andata in rosso per circa 2 miliardi di dollari nel 2017. Per il momento, non ci si preoccupa troppo di questo numeri negativi, come dimostra il fatto che il rosso potrebbe salire nel 2018 a 3 o 4 miliardi: per Reed Hastings, l’unico numero che conta davvero è quello degli utenti: 137 milioni. Come ogni compagnia della Silicon Valley che si rispetti, anche per Netflix la costante crescita di abbonati è la sola ossessione.
Una perenne start-up
Poco importa che Netflix abbia già vent’anni di vita, gli investitori la trattano come una start-up. Non conta nemmeno che abbia spese eccessive, ma solo che continui ad aumentare i suoi abbonati. Con il risultato che, nei primi mesi del 2018, il valore delle sue azioni in borsa è raddoppiato, portando la piattaforma a una capitalizzazione di mercato massima di 165 miliardi di dollari; più del colosso Disney (prima di crollare a 107 miliardi nelle ultime settimane di panico generalizzato a Wall Street).
Non rischia tutto questo di dimostrarsi una bolla? Per evitare di crollare sotto il peso delle aspettative, Netflix deve aumentare senza sosta il numero di abbonati; il che spiega la decisione di espandere la produzione di contenuti originali internazionali (con un particolare focus sull’India). In più, il prezzo dell’abbonamento dovrebbe continuare ad crescere, soprattutto visto che l’ultimo aumento non ha in alcun modo rallentato la crescita degli abbonati. Infine, la compagnia a un certo punto ridurrà la folle spesa per produrre nuovi contenuti; non appena la sua libreria di contenuti avrà raggiunto la soglia critica ritenuta sufficiente.
Niente di diverso dal modello di business di Amazon, che per anni ha perso soldi ma ha continuato ad aumentare gli utenti e ad alzare il prezzo per la sottoscrizione ad Amazon Prime; fino a diventare remunerativo. Secondo gli esperti, il flusso di cassa di Netflix dovrebbe diventare positivo entro il 2022; sempre che tutto vada secondo i piani.
Netflix dovrà infatti vedersela con una concorrenza che si sta facendo sempre più agguerrita: Disney sta per lanciare il suo servizio di streaming, così come Apple. Nel frattempo, Amazon sta spendendo sempre di più per rendere il suo Prime Video un vero rivale, e anche YouTube vuole creare qualcosa di simile con i suoi nuovi servizi a pagamento e la produzione di serie tv originali. Tutto questo, mentre i colossi tradizionali – come AT&T e Time Warner – compiono maxi-fusione societarie per tenere testa alle ambizioni di Netflix e non fare la fine di Blockbuster.
Netflix, in definitiva, ha bisogno di creare sempre più contenuti per conservare la sua supremazia, ma questo rischia di far salire ulteriormente le spese; soprattutto considerando che il servizio streaming di Disney potrà immediatamente fare affidamento su tutti i prodotti di Star Wars, dell’universo Marvel e della Pixar.
Secondo molti analisti, la strada per Netflix è tutta in discesa: entro due o tre anni dovrebbe arrivare a quota 200 milioni di abbonati per poi crescere fino a 260 milioni nel giro di dieci anni. Ma se Netflix non dovesse riuscire a soddisfare le aspettative, le conseguenze potrebbero essere disastrose: il servizio di streaming attrae investitori solo sulla base delle promesse per il futuro; ogni volta che qualche obiettivo viene mancato, le azioni ne risentono pesantemente.
A questo punto, l’unica scelta di Netflix è continuare a bruciare soldi e produrre un numero sempre maggiore di contenuti originali; aumentando costantemente il rischio complessivo nella speranza, un domani, che tutte le sue aspettative vengano rispettate e possa diventare un’azienda realmente profittevole. Netflix si comporta come se fosse un business di sicuro successo; in verità, il rischio di trasformarsi in un castello di carte non può essere sottovalutato.

Conti in caduta e concorrenza aggressiva, il futuro di Netflix è sempre più incerto - Giuliano Balestreri

Il primo problema dei Netflix sono i conti. Il secondo, ben più grave, si chiama concorrenza. E se probabilmente è troppo presto per pensare che la società sia entrata in una pericolosa spirale negativa, non lo è per capire che il gruppo ha bisogno – molto rapidamente – di mostrare al mercato di essere in grado di diversificare la propria offerta aumentando i servizi. Non è una strada semplice da percorrere, ma Reed Hastings non ha molte carte nel mazzo da giocarsi.

 “Da inizio anno il titolo è in positivo, ma la percezione degli operatori è mutata dopo la pubblicazione dei dati sul secondo semestre” spiega Edoardo Fusco Femiano, market analyst di eToro che poi aggiunge: “Netflix ha fallito sotto tutte le metriche di riferimento. Dalla crescita delle sottoscrizioni complessiva (2,7 milioni contro le attese per 5 milioni, ndr) alla decrescita degli abbonati negli Stati Uniti, fino alla generazione negativa di cassa e all’aumento del debito finanziario su base annua”.
Le conseguenze sono chiare: Netflix è cresciuta grazie a un circolo virtuoso basato sulla crescita costante degli abbonati che ha fatto dimenticare al mercato sia l’incapacità dell’azienda di fare utili sia la sua capacità di accumulare debiti. D’altra parte i miliardi di dollari presi in prestito sono serviti a finanziare centinaia di costose produzioni che – a loro volta – hanno fatto crescere gli utenti e a cascata il valore del titolo. E più Netflix investiva in produzioni, più aveva chance di trovare la sua gallina della uova d’oro come La Casa di Carta o Stranger Things. La battuta d’arresto di fine luglio ha acceso un campanello d’allarme sul futuro dell’azienda mostrando al mondo che la crescita non è garantita a vita.
 “Come se non bastasse – prosegue Fusco Femiano – la concorrenza di Disney e AT&T, che hanno lanciato programmi di streaming TV a condizioni più convenienti di Netflix, sta spingendo la società a cercare espansione in mercati nuovi, ma è evidente che questo settore sia ormai maturo e si stia saturando rapidamente”.
 “Questo non è un mercato dove ci sono sostituzioni come per gli elettrodomestici o per le auto” incalza Roberto Verganti, professore di Leadership e Innovation alla School of Management del Politecnico di Milano, secondo cui “per aumentare il fatturato Netflix è condannata a fornire nuovi servizi, magari attraverso abbonamenti premium o simili. Nel frattempo deve continuare a produrre contenuti di successo prendendo tutti i rischi necessari”.
Il pericolo numero uno per Netflix si chiama Disney perché potrebbe attrarre oltre 30 milioni di nuovi clienti entro la fine del prossimo anno e soprattutto avrà un costo annuo di circa 40 dollari: “E’ un prezzo molto inferiore a quello di Netflix – osserva il market analyst di eToro –, ma non dobbiamo dimenticare Amazon che ha una capacità di spesa enorme come ha dimostrato con l’ecommerce”. Disney, però, ha già annunciato che nei prossimi trimestri si concentrerà con tutte le forze sui video online e per finanziare le operazioni ha già iniziato ad aumentare le fonti di ricavo dalle sue attività alternative, come i parchi divertimento. “La forza di Disney – sottolinea Verganti – è proprio quella di riuscire ad aumentare i flussi di cassa da altre attività, mentre Netflix non ha scelta”.
 “I competitor saranno in grado di finanziare la propria trasformazione attingendo ai settori più forti, Netflix no e anzi dovrebbe aumentare le spese di marketing ma questo – avvisa Fusco Femiano – aumenterà la pressione sui conti”. Anche perché nel frattempo è probabile che Netflix perda gran parte dei contenuti di Disney e di tutte quelle piattaforme che vedranno la luce. Con il rischio di alimentare un circolo vizioso nel quale il calo delle azioni spaventerà gli investitori rendendo più difficile finanziarsi e di conseguenza produrre nuovi film e serie.
Per Verganti, però, ci sono tanti settori ancora da esplorare “dal mondo del gaming a quello dell’education. Di certo Netflix non può stare ferma”. Per Fusco Femiano, invece, “è fondamentale vedere chi avrà sinergie industriali. La concorrenza metterà fuorigioco chi non sarà abbastanza efficiente. Io credo che il settore andrà verso l’aggregazione e allora aumenteranno i profitti”. Come a dire che Netflix deve dimostrare di riuscire a stare sul mercato di fronte della concorrenza. E di una valutazione pari a oltre 90 volte gli utili.

Allarme Netflix, senza pubblicità potrebbe perdere 4 milioni di abbonati - Giuliano Balestreri

Netflix ha due, enormi, problemi. Il primo è nei conti: continuano a deludere gli analisti. Soprattutto per quelle che sono le attese future. Il secondo, forse più grave, si chiama concorrenza. E se probabilmente è troppo presto per pensare che la società sia entrata in una pericolosa spirale negativa, non lo è per capire che il gruppo ha bisogno – molto rapidamente – di mostrare al mercato di essere in grado di diversificare la propria offerta aumentando i servizi. Non è una strada semplice da percorrere, ma Reed Hastings non ha molte carte nel mazzo da giocarsi. Potrebbe pensare, per esempio, di affiancare allo storico product placement qualche forma di pubblicità tradizionale: un’ipotesi che i vertici del gruppo respingono con forza, ma che al mercato piace molto. D’altra parte l’ultimo documento depositato alla Sec – la Consob americana – mostra con chiarezza come la società abbia fretta di trovare nuove fonti di ricavo per gli abbonamenti potrebbero non essere più sufficienti. Anche perché gli utenti che spendono di più sono i nord americani con un abbonamento mendio di 13,08 dollari al mese per poco più di 67 milioni di consumatori. Purtroppo per Netflix, però, il tasso di crescita sta rallentando.
A questo poi, si aggiunge il fatto che i competitor, da Disney ad Amazon, saranno in grado di finanziare la propria trasformazione attingendo ai settori più forti (per esempio, Disney ha aumentato il prezzo dei biglietti dei parchi divertimento, ndr), mentre Netflix ha una sola fonte di ricavi e, anzi, sarà costretta ad aumentare le spese di marketing e di conseguenza la resistenza all’avanzata di altri attori aumenterà ulteriormente la pressione cui conti. Anche perché nel frattempo è probabile che Netflix perda gran parte dei contenuti di Disney e di tutte quelle piattaforme che vedranno la luce. Con il rischio di alimentare un circolo vizioso con il calo del prezzo delle azioni che spaventa investitori rendendo – di conseguenza – più difficile finanziarsi sul mercato e a cascata più complicato produrre nuovi film e serie.

Nell’ultimo anno, la società ha provato a lanciare pacchetti più economici solo per il mobile in India e Malesia: una strategia che ha fatto salire il numero degli abbonati, ma non quello dei ricavi medi. Di certo, se Netflix ha intenzione di continuare a spendere 15 miliardi di dollari in contenuti ogni anno ha bisogno di far salire le proprie entrate.
Fino ad oggi, Netflix è cresciuta grazie a un circolo virtuoso basato sul costante aumento degli abbonati che ha fatto dimenticare al mercato sia l’incapacità dell’azienda di fare utili sia la sua capacità di accumulare debiti. Anche perché i miliardi di dollari presi in prestito sono serviti a finanziare centinaia di costose produzioni che – a loro volta – hanno fatto crescere gli utenti e il valore del titolo. E più Netflix investiva in produzioni, più aveva chance di trovare la sua gallina della uova d’oro come La Casa di Carta o Stranger Things. La battuta d’arresto degli ultimi mesi ha acceso un campanello d’allarme sul futuro dell’azienda mostrando al mondo che la crescita non è garantita a vita.
Roberto Verganti, professore di Leadership e Innovation alla School of Management del Politecnico di Milano, è convinto che “per aumentare il fatturato Netflix è condannata a fornire nuovi servizi, magari attraverso abbonamenti premium o simili. Nel frattempo deve continuare a produrre contenuti di successo prendendo tutti i rischi necessari”. Senza dimenticare, dice il professore, che ci sono tanti settori ancora da esplorare “dal mondo del gaming a quello dell’education. Di certo Netflix non può stare ferma”.
Gli analisti, però, sono convinti che la risposta più efficace sarebbe la pubblicità. Per esempio, gli esperti di Needham sono convinti che senza un abbonamento low cost da 5-7 dollari al mese, ma sostenuto dalla raccolta pubblicitaria, Netflix andrebbe incontro nel 2020 a una fuga 4 milioni di abbonati verso i competitor. Motivo per cui dopo le parole di Reed che sembrano chiudere agli spot, almeno per l’anno prossimo, gli analisti di Needham hanno tagliato ad “underperform” il titolo stimando una perdita di 4 milioni di abbonati. Secondo Nomura, invece, se a partire dal 2020 Netflix introducesse un modello stile Spotify potrebbe incassare subito un miliardo di dollari dalla pubblicità.

Netflix costretta ad accogliere la pubblicità nel 2020 - Allan Obertino
Il 2019 è stato un anno pieno di successi: Stranger Things, The Witcher, Casa de Papel, Living with yourself, The Politician. Ma non bastano. Netflix è in perdita. Lo dicono gli analisti, ed anche i loro conti. Produrre serie di successo richiede degli investimenti importanti, possibili finché il mercato non si riempie di agguerriti concorrenti quali Disney+ e Amazon Prime, che continuano ad aumentare il loro catalogo, andando in alcuni casi a ridurre quello di Netflix (per esempio le serie Marvel).
Gli abbonamenti Standard e Premium sono aumentati di 1-2€, mentre in India ed in Malesia hanno introdotto degli abbonamenti low-cost per mobile, che hanno portato nuovi clienti. Ma tutto questo non basta. Netflix spende circa 15 miliardi l’anno per produrre nuove serie, pubblicizzarsi e comprare prodotti, cifre che al netto dei guadagni attuali, non può permettersi. Per questo c’è chi propone di inserire della pubblicità, con un modello simile a Spotify. Le stime prevedono una perdita di 4milioni di utenti durante il 2020, che andrebbero invece ad arricchire le altre piattaforme di streaming. Questa volta nemmeno un massiccio Henry Cavill potrebbe salvarli.
Che ne pensate? Rimarrete fedeli a Netflix se aggiungesse degli spot pubblicitari o abbandonereste la nave?

Vi dico cosa combinano WeWork e Netflix. Parla Stefano Feltri (ProMarket) 

(intervista di Michele Arnese)

La mancata quotazione di WeWork (bolla evitata?), le vicissitudini di Uber e la concorrenza di Disney+ e Amazon Prime Video a Netflix sono da approfondire. Che ne pensi di WeWork?
C’è stata una fase in cui le start up si quotavano in Borsa per fare il salto di qualità e continuare a crescere grazie all’iniezione di capitale fresco. WeWork – un’azienda che prende in affitto a lungo termine edifici che poi ristruttura e riaffitta come spazi da ufficio a breve – è parte di una generazione diversa: la quotazione serve ad arricchire il fondatore e i suoi soci iniziali, che fanno miliardi scaricando sugli altri investitori il rischio che la start up si riveli un fallimento. Con WeWork, per fortuna, gli investitori hanno rifiutato di farsi spennare e hanno fermato quella che doveva essere una quotazione da 45 miliardi. Il castello di carte è crollato, il carismatico fondatore Adam Neumann è stato licenziato, anche se con una buonuscita da oltre un miliardo che dimostra quanto avesse distorto la governance dell’azienda nella direzione di una monarchia assoluta.
Un caso isolato o ci sono tante WeWork pronte ad esplodere?
Se gli investitori, finora affamati di rendimenti in un mondo di tassi zero, cominciano a diventare diffidenti, Neumann non sarà il solo a saltare. Uber, con i suoi 20 miliardi di perdite cumulati, è la prima della lista.

Come vanno davvero i conti di Netflix? E come può continuare a crescere?
Il modello di Netflix si fonda su una crescita continua degli abbonati che giustifica investimenti giganteschi in contenuti originali, ormai siamo a 15 miliardi all’anno. Ma la crescita degli abbonati sta rallentando, Netflix ne dichiara 158 milioni e pare impossibile possa mai arrivare a quei 700-750 impliciti nel suo attuale prezzo di Borsa. La concorrenza sta aumentando. I servizi in streaming negli Usa sono oltre 200, ma alcuni sono in grado di sottrarre molti utenti a Netflix. L’ultimo arrivato è Disney+ che ha Star Wars, i Simpson, i cartoon e perfino lo sport. Se per i servizi di streaming vale quello che abbiamo visto per i quotidiani on line – i pochi che si abbonano, pagano una sola testata, ma due-tre – per Netflix saranno dolori.

Ho visto che su ProMarket vi state occupando molto di una nuova procedura in consultazione della Sec sul voto delle assemblee. Molto tecnica la questione. Ci aiuti a capire portata e rilevanza?
E’ un po’ complesso, ma in sintesi: gli investitori istituzionali (come i fondi pensione) detengono circa l’80 per cento del capitale delle società quotate a Wall Street e per legge sono obbligati a votare alle assemblee dei soci, ma non hanno tempo di studiare le informazioni per tutte le aziende di cui sono soci. Quindi pagano degli appositi consulenti, i proxy advisors, per dare indicazioni di voto. Due aziende, ISS e Glass Lewis, hanno quasi tutto il mercato e gli amministratori delegati e i vertici delle società quotate sono sempre più insofferenti verso lo strapotere di questi due proxy advisors che hanno anche la pretesa di condizionare le decisioni delle assemblee su temi come la trasparenza degli stipendi dei vertici, la lotta alla crisi climatica e l’uguaglianza di genere. La Sec, la Consob americana, ha annunciato un nuovo set di regole che recepisce le istanze degli amministratori delegati: se un proxy advisor vuole far votare i suoi clienti contro i manager della società, deve prima anticipare le critiche all’ad, rivelare con quale metodologia ha elaborato la posizione e, se questa non piace all’ad, rischia anche conseguenze legali.

Ho visto che hai sfruculiato anche con un tweet Bloomberg. Va be’, allora è proprio vero che fate il tifo per la Warren…
Ho scritto un pezzo per commentare l’incredibile statement del direttore di Bloomberg News, John Micklethwait, che spiega come gestiranno la campagna presidenziale del loro editore. Bloomberg, una delle grandi testate globali con risorse e pubblico per fare grandi inchieste, non indagherà su Bloomberg e neppure sugli altri candidati Democratici. Se Bloomberg avrà la nomination, par di capire, addio giornalismo investigativo anche su Donald Trump. Con i suoi 30 milioni di dollari già investiti nella campagna elettorale, Bloomberg sta cercando di comprarsi la Casa Bianca e il primo risultato della sua corsa è aver peggiorato la qualità del dibattito pubblico. Per uno col suo patrimonio, costa meno ottenere la presidenza che pagare la tassa sui patrimoni che Elizabeth Warren gli infliggerebbe se alla Casa Bianca ci arrivasse lei. Peggio di Trump non si può avere nessuno, ma meglio di Bloomberg sì.

Come Netflix sta rivoluzionando il mercato globale dei media - Jennifer Holt

Il tema della distribuzione dei film (ma anche delle serie e dell’intrattenimento audiovisivo) e della sua relazione con la circolazione e il commercio dei dati digitali è oggi estremamente rilevante. Attualmente, quando parliamo di “distribuzione” a proposito dei film ci riferiamo al passaggio dalla bobina di cellulosa e dalla pellicola cinematografica al sistema numerico-digitale degli “0” e degli “1”: ormai il 97% del cinema è digitale, e le piattaforme di streaming online sono cresciute, via via, nella loro importanza per l'industria mediale nel suo complesso.
Questa trasformazione ci ha costretti a occuparci della transizione dall’analogico al digitale e a ripensare a come il cinema viene confezionato, trasportato, disseminato e consumato da pubblici diversificati, in tutto il mondo.
Apple pronta a sfidare Netflix nel mondo dello streaming video
Negli Stati Uniti abbiamo assistito a una vera e propria battaglia economico-culturale che ha riguardato l’ultimo film di Martin Scorsese, The Irishman, una produzione Netflix da 160 milioni di dollari, in distribuzione dal prossimo mese di novembre: questo caso costituisce un esempio significativo, e molto istruttivo, di quelle mutazioni e di quelle tensioni che sono germogliate nell’industria dei media nell’ultimo decennio. Il film, infatti, è costretto a una distribuzione in piccoli cinema poiché le grandi catene del Nord America si rifiutano di proiettare contenuti che non siano in grado di assicurare una finestra esclusiva nelle sale di almeno tre mesi prima di approdare allo streaming sulle piattaforme online come Netflix.
Ma proprio Netflix, che ha prodotto il film, pretende di poterlo distribuire dopo sole tre settimane dal passaggio in sala: perciò The Irishman è stato “messo al bando” dalle catene di esercenti più estese e potenti degli Usa. Insomma, è piuttosto ovvio che le catene che gestiscono i cinema e i colossi digitali come Netflix o Amazon Video continueranno a combattersi sull’ampiezza, o l’esistenza, di uno spazio “theatrical”, ovvero sulla possibilità che i film continuino a essere consumati nelle sale quando vengono prodotti dalle, e per le, piattaforme di streaming: una lotta che coinvolge naturalmente anche i grandi artisti, i registi, gli agenti, le major che controllano gli studios.
Se analizziamo la distribuzione digitale e il nuovo ruolo giocato dai dati è necessario studiare con attenzione anche come questi stessi dati possono essere regolati e protetti, dal momento che essi attraversano piattaforme digitali globali provenendo da remoti server, solitamente definiti “cloud”, e finiscono per essere soggetti al patchwork composito e informe della legislazione internazionale, a diverse condizioni d’uso (“Terms of Service”), a variegate politiche relative a come possono essere immagazzinati e trasmessi come contenuti digitali
Distribuire e controllare i dati digitali nel momento in cui essi viaggiano in tutto il mondo pone delle vere e proprie sfide che vanno decisamente al di là dei tradizionali paradigmi legali, dei confini nazionali e delle usuali geografie della politica nazionale. L’ascesa delle piattaforme globali come Netflix sul terreno della distribuzione digitale ha creato dei veri e propri “data troubles”: problemi da risolvere per tutti gli attori in campo, dai dirigenti degli studios che producono i contenuti ai proprietari delle sale cinematografiche, dai regolatori e policy makers che si muovono a livello sovrannazionale, a tutti noi come pubblici dei film.
Per provare a sbrogliare questi intricati problemi, è necessario affrontare alcune delle dinamiche industriali, culturali e politiche che collegano fra loro l’uso e la governance dei dati entro lo scenario mutevole della distribuzione digitale. Per fare questo, è altresì necessario, in primo luogo, discutere ampiamente dei profondi cambiamenti che stanno caratterizzando le industrie dei media, a cominciare con tutto quel grande processo di integrazione fra le compagnie mediali e quelle tecnologiche, senza dimenticare la rilevanza che per entrambi i comparti rivestono il ricorso agli algoritmi e ai cosiddetti “big data”, nonché le questioni che hanno a che fare con quella “cultura della sorveglianza” che diventa oggi sempre più pervasiva.
Infatti, i data troubles che l’industria cinematografica e mediale globale e le audience si trovano a dover affrontare sono direttamente connessi con le importanti questioni che sono in gioco, come la privacy personale, la sicurezza dei dati e la stessa libertà digitale. È anche certo che tutte queste questioni fra loro intrecciate svelano quanto c’è veramente sul piatto in questo momento: il destino della cultura, dell’informazione e della cittadinanza nell’era delle piattaforme digitali.
Questo articolo è un’anticipazione della relazione inaugurale di Jennifer Holt, professore di Media Studies presso l’Università della California Santa Barbara, al convegno internazionale “The International Circulation of National Cinemas and Audiovisual Content: the Challenge of Convergence and Multiplatform Distribution in the European Context” organizzato il 17 e il 18 settembre dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Nessun commento:

Posta un commento