venerdì 19 aprile 2019

L'uomo che comprò la luna - Paolo Zucca

cinque anni dopo L'arbitro Paolo Zucca riesce a tornare in sala.
in comune col primo film ci sono i protagonisti e la Sardegna, nel primo film in maniera esagerata, qui in modo più meditativo e lirico.
si ride molto, con Jacopo Cullin e Benito Urgu, in una storia satirica e fiabesca.
non tutto si può comprare, la luna per esempio no.
è abitata dalla memoria di un popolo.
buona visione - Ismaele








Il punto debole è una trama che privilegia la gag etnica alla progressione della storia, dando molto spazio allo stereotipo sardo e meno all'intreccio degli eventi. Il punto di forza è la conoscenza approfondita che Zucca e Cucciari hanno della loro terra, che dà loro la libertà di prendersi in giro con disinvoltura senza lasciarsi intimidire da alcun tipo di correctness.
Solo alla fine però ci si renderà davvero conto che il film racconta la riappropriazione di un'identità geografica, proponendosi come un'ode a tutti i sardi che le radici se le tengono strette, così come si tengono stretto il diritto di sognare e quei "fondamentali" che privilegiano lealtà e rispetto

L’Uomo che comprò la Luna si pone come una commedia d’autore, che vuole divertire e intrattenere, ma che non ha timore di toccare le corde del dramma, né di virare verso le atmosfere liriche e fantastiche che appartengono a pieno titolo alla dimensione della favola. Tra eroi, reietti e splendide donne capaci di muovere oceani, il film è ricco (a volte anche troppo), di sequenze ironiche che sfruttano abilmente i modelli tematici di genere per favorire la risata. Il dramma al contrario è costruito attraverso i volti dei personaggi, tutti portatori di una tristezza celata e incolmabile, dettata da errori e rimorsi mai arginati, che dona al film respiro e autenticità. Le sequenze oniriche restano comunque il punto di forza più evidente, visivamente scadenti ma qualitativamente superiori, elevano il racconto con poesia e accuratezza ad una dimensione ultraterrena, ed è così che l’intera vicenda diviene metafora di un utopia di valori e culti arcani, lontani ma intimamente celati in ognuno di noi.

Zucca si muove sulla linea della commedia, terreno difficile e poco praticato dai registi sardi, poco inclini, forse, all’autoironia. Bisogna dire, però, come, anche visti dal di fuori, nei tentativi degli sguardi esterni, italiani o stranieri che siano, i risultati non sono stati fino ad oggi molto brillanti. Il regista oristanese aveva già calcato questo terreno con il film precedente, L’arbitro, mostrando un talento che faceva ben sperare. Il nuovo film non tradisce le aspettative e fa trapelare anche altri livelli di lettura che ne arricchiscono il pedigree. Il film snocciola il rosario dei luoghi comuni sui sardi e gli stereotipi cristallizzati nella testa degli isolani e dei “continentali”: per noi “analitici” identitari fino allo spasimo dell’autoreferenzialità è un invito a nozze. Paolo Zucca si sforza di richiamarli tutti non tanto per impeto saggistico, che pur non nuoce e non manca, ma per farli “stridere insieme” con lo scopo di farci “ridere insieme”, di specchiarci e allontanarci con il distacco che l’autoironia consente e richiede. In questo dilemma irrisolto rimbalziamo tra la balentia virtuale di Badore / Urgu e la vergogna ingenua e opportunistica di Gavino / Cullin. La centratura dello sguardo di Zucca trasforma il film da analisi dei sardi visti attraverso gli stereotipi, ad analisi degli stereotipi visti attraverso la lente bifocale (Badore e Gavino) dei sardi. Il risultato è che il film destruttura l’infogatura identitaria spogliandola della monocultura retroattiva, passatista, originaristica per esporla a quella dell’apertura e della creatività lunare e fantasiosa. Così, anche i grandi della nostra storia – Gramsci, Deledda, Angioy, Lussu, Eleonora d’Arborea, ecc. – sono strappati al sogno e alla polvere dell’antichità e proiettati sulla luna, come se fossero non dietro il nostro cammino, ma dietro l’angolo in fondo alla strada che percorriamo…

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