Guarda i turisti che visitano un campo di concentramento (quello di Sachsenhausen), guarda le facce, i comportamenti, ascolta le voci.
come si visita oggi un campo di concentramento, c'è un modo giusto e uno sbagliato?
buona visione - Ismaele
Un árido golpe a la indiferencia con la que
lidiamos la historia reciente basado en una serie de planos estáticos en blanco
y negro que registran los movimientos de turistas en un campo de exterminio
nazi. El viajero, en su afán por registrar cada recuerdo, parece olvidarse
dónde se encuentra, lo que está viendo y lo que allí ha ocurrido. Loznitsa,
apostando una mirada limpia y sencilla, la del que observa sin emitir juicio,
apenas con una cámara y varios planos, captura momentos reveladores sobre la
facilidad con la que desatendemos a la memoria histórica, banalizando
monumentos que siguen siendo la representación de una atrocidad que parece que
ya no nos afecta. Desde el cuestionable dogmatismo o indiferencia de algunos
guías, hasta el momento de un turista imitando la posición de los torturados
para la fotografía de familia, pasando por la necesidad acuciante de tomar las
fotos en nuestro móvil. La cuestión es registrar nuestras vivencias con el
automatismo ciego y veloz del visitante.
…La vía más evidente para abordar esta
propuesta es la de la visión moral, esa que censura la frívola decisión de
visitar un campo de concentración como si de un parque de atracciones se
tratara. El documental deja atrás cualquier grosor expositivo y, aunque ponga
en entredicho que esta sea la manera más adecuada de visitar los campos de
concentración, no enfatiza ninguna de las ideas de fondo que propone, como si
aspirara a ser un retrato carente de ideología. No es que dicha frivolidad no
se manifieste -es más, está presente en cada plano-, pero Loznitsa prefiere que
la reflexión se genere en la mente de cada espectador, como una manera de abrir
todavía más el debate acerca de un tema tan espinoso como el que aborda. Una
afortunada decisión que evita la tentación de limitarse a indicar lo inmoral
que es entrar a una cámara de gas exclusivamente para hacerse un selfie.
…Austerlitz è invece un film davvero tosto. Ma è anche
implacabile, modernissimo nella descrizione del presente senza Storia. Dove un
campo di concentramento è assimilato a un luogo turistico da Lonely Planet. Quasi un parco-divertimenti,
una Disneyland sulle macerie della Storia. Attraversato
dal passo lento e svogliato, infradito strascicanti, assembramenti collettivi
per mangiare prima di spostarsi pigramente da un’altra parte. Forse Loznitsa, quando ha filmato queste immagini, non era
consapevole della portata tragica, anzi esplosiva, nel momento in cui le ha messe
insieme. Perché questo è uno dei film
più tragici sulla Shoah. Dove solo il volto di una ragazza
con gli occhiali da sole tondi, che viene filmata a lungo e forse si commuove,
può rappresentare una delle rarissime connessioni emotive col passato. E qui ci
può essere lo scarto tra quella che può essere l’inquadratura
rubata o l’inquadratura ricostruita.
Perché forse, anche in questo sospetto esaltante, si muove Austerlitz. È solo
documentario. Ma poi ci sono altre immagini che non si vedono. Sono migliaia. Negli scatti e video degli smartphone. Dove però spesso, chi
l’ha fatta, si sovrappone e ne diventa protagonista. La nuova estetica del
selfie. Con il sorriso ebete sullo sfondo della tragedia e del dolore. Come
quella fatta dalla famiglia per ben tre volte sotto la scritta Arbeit macht frei. E magari anche con la
suoneria alta che si sente…
…Tutto il
film di Loznitsa è centrato sull'atto del guardare, e sulla connessa coscienza
di ciò che si guarda. Sta qui forse il rapporto segreto con il romanzo di
Sebald. Lì il tema di fondo era il rapporto della coscienza con la memoria e
con l'oblio (Sebald rimanda a Proust per stile e temi); nel film il regista
documenta nei visitatori - e vuole provocare nello spettatore - il rapporto con
qualcosa di visibile e presente (il campo di concentramento oggi),
la cui attualità ha lo scopo di conservare la memoria (collettiva)
e stimolare la coscienza (individuale).
Dice Loznitsa
nelle note di regia: L'idea di fare questo film mi è venuta perché
visitando questi luoghi sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente
discutibile e avrei voluto davvero capire, attraverso il volto delle persone,
degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato
d'animo. Ma non nascondo di esserne rimasto, alla fine, abbastanza perplesso.
Da cosa scaturisce questa perplessità è facile capirlo: per tutto il corso del
film non facciamo che vedere persone che non appaiono turbate né meditabonde né
tantomeno sconvolte. Sembrano assolutamente serafiche: visitano un campo di
concentramento come visiterebbero un museo, addirittura un parco a tema. Da
spettatori, ci chiediamo più volte se Loznitsa intenda con il film formulare un
capo d'accusa alla superficialità di sguardo dei turisti, fra i quali beninteso
potremmo anche esserci noi. E allora ci mettiamo lì, alla ricerca di qualcuno
che appaia più partecipe e coinvolto: e non trovandolo ci sentiamo di
ipotizzare, non a torto, che il limite sta nel mezzo. È la mdp ad essere
fallace, incapace di cogliere i moti interiori e gli stati d'animo. Nessuno ci
autorizza a pensare che, almeno qualcuno, fra questi "turisti", non
sia intimamente scosso, e non stia facendo un'esperienza che lo segnerà nel
profondo…
…Non una parola di commento da parte del regista,
niente voce fuori campo, zero interviste. Niente musiche, solo lo scalpiccio
incessante della folla e il suo rumore di fondo. Non sappiamo chi siano
gli uomini, le donne, i ragazzi, le ragazze che sciamano tra un forno e un
luogo di tortura e di impiccagione, ci tocca indovinarlo dalle loro posture,
dal body language, dall’abbigliamento, che qui diventa il mezzo principale, la
mappa dei segni attraverso cui loro comunicano se stessi e noi possiamo intuire
chi loro possano essere. Le uniche parole che sentiamo (peraltro
raramente) sono le spieghe date da qualche guida al rispettivo gruppo,
utilizzate dal regista per darci indirettamente qualche essenziale
informazione. Non diversamente dal Frederick Wiseman di National Gallery il quale, in ottemperanza al suo
credo rigorista e antididascalico del mostrare e soltanto mostrare, ha sì
piallato via ogni indicazione dei vari quadri esposti al museo – che cosa
siano, di quale pittore siano -, salvo reintrodurle surrettiziamente attraverso
le dettagliate spiegazioni fornite ai turisti proprio dalle guide. In Austerlitz si sente, in quello scarso parlare,
perlopiù lo spagnolo, poi l’inglese. Tedesco zero. Rivelando (forse) quale
nazionalità dei visitatori sia prevalente e quale assente, sempre che non si
tratti di una selezione operata in fase di montaggio. Ogni guida non solo
fornisce informazioni diverse, ma adotta anche strategie comunicative diverse.
Con ricorso massiccio allo storytelling. Scarne le informazioni generali, ancor
meno vien detto della cornice storica in cui collocare e contestualizzare la
stagione nerissima dei campi di sterminio, mentre si abbonda nel racconto di
singoli episodi, in narrazioni drammatiche e raccapriccianti, in aneddotica,
puntando sulla carica emozionale e mirando più alle viscere del visitatore che
alle sue cellule cerebrali. Si scuote, si colpisce, si punta a inorridire, più che
a suscitare un approccio razionale e conoscitivo. Ed è questo l’aspetto più
allarmante. Il lager diventa, più che un luogo di orrore, un luogo horror, in
un’affabulazione non troppo dissimile da una qualsiasi storia di paura,
cinematografica o letteraria. Molte recensioni di Austerlitz sottolineano la cifra accusatoria
verso il turista-massa, verso il visitatore ottuso e indifferente che tutto
divora e appiattisce e consuma nel suo formicolante muoversi da una meta
all’altra, accumulando senza distinguerli Disneyland e il campo di sterminio. E
grande è stato il disgusto su stampa e web di fronte a questi turisti della
camera a gas ciabattanti in infradito, inzainati, indossanti shorts orrendi e
ancora più orrende T-shirt con scritte perlopiù sceme. Dissento. Austerlitz non mostrifica la sua folla. Lo sciame
umano filmato con sguardo neutro da Loznitsa non sgomenta per la sua
sciatteria, la volgarità dei modi o per l’irrispettosità dell’atteggiamento. Se
si guarda il film senza pregiudizi, ci si rende conto di come nessuno
sghignazzi, si lasci andare a comportamenti scomposti (tranne una cretina che
scemeggia facendosi fotografare con una bottiglia in testa). Tutti son seri e
abbastanza concentrati, evidentemente una qualche consapevolezza di dove si
trovano ce l’hanno. Certo, cedono alla tentazione di farsi un selfie di fronte
all’Arbeit Macht Frei dell’ingresso, ma nessuno in quei selfe sorride. Bisogna
riconoscerlo. Se poi si ritiene che che il selfie sia in sé colpevole e
brutale, allora si deprechi pure. Invece a inquietare davvero è che – questa
almeno la mia impressione – pur con tutta la loro buona volontà i turisti dei
forni crematori e delle camere a gas non ce la facciano a penetrare minimamente
quell’abisso che è stato lo sterminio su scala industriale del nazismo. Come se
da quel tempo non solo siano cambiato il mondo e il reale, ma lo stesso
apparato mentale per decifrarli. Cresciuti in un Occidente di benessere che ha
fatto di tutto per rimuovere il tragico, e anche il connesso senso del sacro, dal
proprio orizzonte per cullarsi in una bolla di falsa e vacua positività, non ce
la fanno proprio a percepire la dimensione e il senso dello sterminio, né
tantomeno come sia potuto accadere. Forse (forse) così si spiegano i tanti
sguardi perplessi e smarriti del film. Il turista di Loznitsa (che poi, a una
visione più attenta, si rivela non uniforme e composto semmai da più sottotipi)
non è da stigmatizzre per le T-shirt che indossa o per gli shorts (ma scusate,
se si va noi a far visita a un lager in piena estate, ci vestiamo forse in un
altro modo?), ma per la sua totale estraneità a quanto sta vedendo, perfino per
il deficit cognitivo che gli impedisce di decodificarlo. Nella visita sembra
esserci spazio solo per l’orrore e il brivido, lo stesso orrore che si può
provare di fronte a un filmaccio cabin-in-the-wood in 3D o a un videogioco
splatter. In questo, e ancora una volta, il cinema di Loznitsa riesce ad essere
un cinema profondamente morale.
…Austerlitz è un documentario che ci stimola ad acuire il nostro sguardo, ci
offre strumenti per continuare a indagare, ricordare, studiare. In “una tranquilla
e calda giornata d’estate”, Loznitsa decide di avvicinarsi ed entrare a suo
modo in un “luogo in cui esseri umani furono sterminati”, un “luogo della
sofferenza e del dolore”.
Non percepiamo mai, esternamente o internamente al campo di concentramento, nelle scelte estetiche e narrative di Austerlitz, la soffocante retorica e spiazzante vacuità delle parole abusate, della “sofferenza” e del “dolore”. Attraverso la mappatura di Loznitsa, anche grazie ai differenti livelli di fruizione dei turisti e dei visitatori e allo svilimento di un rituale di massa, possiamo cercare di recuperare il senso storico e umano di un luogo. In una trentina di quadri fissi dalla durata diseguale, Loznitsa rimette insieme i pezzi significativi di più storie, alte e basse, di un racconto individuale e collettivo: le voci delle guide, i cartelli insistentemente fotografati, le date, i forni crematori, le stanze buie, soffocanti e claustrofobiche, le docce, i panini e le bibite, i luoghi delle torture, le code per entrare, i selfie, le t-shirt fuori luogo, le risate, gli occhi lucidi, i mattoni e le pietre che hanno resistito indifferenti all’orrore e al sangue. Austerlitz è il mezzo per riavvicinare fruizione e Storia, è un giorno della memoria eterno, lucido, con gli occhi lucidi. Austerlitz documenta la moltiplicazione dei punti di osservazione (cellulari, videocamere ecc), e la fretta e superficialità che si allarga a macchia d’olio.
Austerlitz è lo sguardo che si sofferma. Uno sguardo che riesce a restare immobile mentre il tempo scorre e altre decine, centinaia e migliaia di occhi si affrettano e si ammassano sull’immagine successiva, guardando e dimenticando. Nei suoi molteplici piani di lettura, Austerlitz è anche (e a tratti soprattutto) un film sulla sconfitta, sulla implacabile massificazione, sulla morte della Storia. Ma non è mai un film sulla resa…
Non percepiamo mai, esternamente o internamente al campo di concentramento, nelle scelte estetiche e narrative di Austerlitz, la soffocante retorica e spiazzante vacuità delle parole abusate, della “sofferenza” e del “dolore”. Attraverso la mappatura di Loznitsa, anche grazie ai differenti livelli di fruizione dei turisti e dei visitatori e allo svilimento di un rituale di massa, possiamo cercare di recuperare il senso storico e umano di un luogo. In una trentina di quadri fissi dalla durata diseguale, Loznitsa rimette insieme i pezzi significativi di più storie, alte e basse, di un racconto individuale e collettivo: le voci delle guide, i cartelli insistentemente fotografati, le date, i forni crematori, le stanze buie, soffocanti e claustrofobiche, le docce, i panini e le bibite, i luoghi delle torture, le code per entrare, i selfie, le t-shirt fuori luogo, le risate, gli occhi lucidi, i mattoni e le pietre che hanno resistito indifferenti all’orrore e al sangue. Austerlitz è il mezzo per riavvicinare fruizione e Storia, è un giorno della memoria eterno, lucido, con gli occhi lucidi. Austerlitz documenta la moltiplicazione dei punti di osservazione (cellulari, videocamere ecc), e la fretta e superficialità che si allarga a macchia d’olio.
Austerlitz è lo sguardo che si sofferma. Uno sguardo che riesce a restare immobile mentre il tempo scorre e altre decine, centinaia e migliaia di occhi si affrettano e si ammassano sull’immagine successiva, guardando e dimenticando. Nei suoi molteplici piani di lettura, Austerlitz è anche (e a tratti soprattutto) un film sulla sconfitta, sulla implacabile massificazione, sulla morte della Storia. Ma non è mai un film sulla resa…
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