Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
mercoledì 30 gennaio 2019
Anatomia di un omicidio - Otto Preminger
una storia giocata per gran parte in un'aula di tribunale, come tante di quei tempi, e tutte a livelli altissimi (penso a Testimone d'accusa e La parola ai giurati).
nel film di Otto Preminger abbiamo un avvocato, anzi due, un colpevole già deciso, una femme fatale, gli ingredienti ci sono tutti.
l'avvocato difensore è James Stewart, che ne sa una in più dell'accusa, e la musica è di un certo Duke Ellington.
con un film così tutto quello che potete fare è rinviare tutti gli impegni di due ore, e non ve ne pentirete mai.
buona visione - Ismaele
nel film di Otto Preminger abbiamo un avvocato, anzi due, un colpevole già deciso, una femme fatale, gli ingredienti ci sono tutti.
l'avvocato difensore è James Stewart, che ne sa una in più dell'accusa, e la musica è di un certo Duke Ellington.
con un film così tutto quello che potete fare è rinviare tutti gli impegni di due ore, e non ve ne pentirete mai.
buona visione - Ismaele
La grandezza di Otto Preminger , secondo me, è di essere
sempre stato in anticipo sui tempi di almeno un decennio e ciò gli ha creato
molti fastidi con la censura negli anni '50. La sua intelligenza al servizio del
cinema denota appieno l'origine europea (viennese) e lo pone al medesimo
livello di altri esuli quali Pabst, Lang ecc. anche se non è mai stato
adeguatamente valutato dalla critica.In questo film si parla addirittura, in
un aula di tribunale, di violenza carnale con strappo di mutandine e ricerca di
tracce di liquido seminale !! Argomenti assolutamente tabù nel '59 , affrontati
con un eleganza di linguaggio che caratterizza tra l'altro tutta la
pellicola; più di due ore di colloqui affascinanti e ironici , una tensione
continua acuita da uno spendido bianco e nero che accentua i contrasti
dei caratteri : l'imputato in divisa bianca, (falsamente) angelico , il
pubblico accusatore (un magnifico George Scott al suo primo impegno vero)
sempre vestito di nero e implacabile.
La musica stupenda di Duke Ellington (che appare in un cameo) avvolge il tutto e sottolinea adeguatamente i punti più drammatici; e James Stewart giganteggia con la sua aria da uomo qualunque che qualunque non è mai.
La musica stupenda di Duke Ellington (che appare in un cameo) avvolge il tutto e sottolinea adeguatamente i punti più drammatici; e James Stewart giganteggia con la sua aria da uomo qualunque che qualunque non è mai.
… La sapienza tecnica di Preminger fa scivolare quasi tre
ore di film in un niente, aiutato dai caratteristi che si avvicendano alla
pedana e capaci di tenere la scena per altrimenti lunghi e interminabili
minuti, aiutati a loro volta da alcune sapienti sequenze di alleggerimento in
cui si producono delle gag che inducono ad un riso nervoso ma sincero,
liberatorio.
Sicché, gli elementi distonici prevalgono sulla macchina burocratica e consentono un discreto numero di agnizioni e riflessioni. prima tra tutte, quella riguardante l’imputato, il tenente Manion (un gelido Ben Gazzara), militare pluridecorato e reduce di Corea. La sua posizione processuale, reo confesso, lo costringe al silenzio urlato del suo bollente linguaggio del corpo. È accusato di omicidio di primo grado poiché la vittima è stata ammazzata a sangue freddo, ben dopo un fatto gravissimo, lo stupro della moglie del tenente, l’enigmatica Laura (Lee Remick). Biegler prova una strada processuale ambigua e si basa su un principio più pertinente la psicologia dinamica che un’aula di tribunale, la "dissociazione" che genera "impulsi irresistibili" che non consentono "la distinzione tra il bene e il male". Conviene aggiungere che questa via è ampiamente seguita ai giorni nostri, in ispecie per giustificare le peggio atrocità, a cominciare dagli infanticidi…
Sicché, gli elementi distonici prevalgono sulla macchina burocratica e consentono un discreto numero di agnizioni e riflessioni. prima tra tutte, quella riguardante l’imputato, il tenente Manion (un gelido Ben Gazzara), militare pluridecorato e reduce di Corea. La sua posizione processuale, reo confesso, lo costringe al silenzio urlato del suo bollente linguaggio del corpo. È accusato di omicidio di primo grado poiché la vittima è stata ammazzata a sangue freddo, ben dopo un fatto gravissimo, lo stupro della moglie del tenente, l’enigmatica Laura (Lee Remick). Biegler prova una strada processuale ambigua e si basa su un principio più pertinente la psicologia dinamica che un’aula di tribunale, la "dissociazione" che genera "impulsi irresistibili" che non consentono "la distinzione tra il bene e il male". Conviene aggiungere che questa via è ampiamente seguita ai giorni nostri, in ispecie per giustificare le peggio atrocità, a cominciare dagli infanticidi…
Bellissimo titolo, poi diventato proverbiale,
di un crime-legal-movie del 1959. Filma Otto Preminger, in uno dei suoi
risultati più alti, più disincantati, di uno scetticismo tutto europeo. Anche
lui partecipe della grande emigrazione Vienna-Berlino-Hollywood, non dimentica
le sue origini e le ambiguità del cinema di Weimar e quel clima culturale
(aveva lavorato con Max Reihnardt) quando mette in scena questa storia di un
delitto contorto e confuso, di un assassino che forse non lo è. Il marito di
una donna violentata afferma di aver ucciso lo stupratore, si autoaccusa, parla
di raptus, ma poi tutto si intorbida. Cos’è successo davvero? E qual è stato il
ruolo di lei? James Stewart è l’avvocato incaricato dalla donna di
difendere il marito. Dalle sue indagini e dal dibattito in aula si comporrà
faticosamante parte del puzzle, ma la visione d’insieme sembra sfuggire. Film
che forse risente della lezione ineludibile di Rashomon di
Kurosawa, ma che si è affermato da sé come un classico. Magistrale. Lucido e
asentimentale. Fu un successo travolgente, e a intrigare il grosso pubblico fu
anche la franchezza nel parlare di stupro, di sesso e quant’altro. La scena in
cui in tribunale James Stewart mostrava le mutandine di lei suscitò scandalo,
ma creò anche intorno al film un’aura di seducente peccaminosità…
lunedì 28 gennaio 2019
La Donna Elettrica (Woman at War) - Benedikt Erlingsson
solo uno che ha studiato nella scuola Radio Elettra poteva pensare a un titolo così, in tutti gli altri paesi il titolo è Una donna in guerra, o qualcosa del genere.
nonostante il pessimo titolo italiano il film è davvero bello.
è un film politico ed etico, il mondo sta andando sempre peggio, Halla non gira la testa dall'altra parte e compie azioni di sabotaggio, e poi c'è una bella sorpresa, e un cugino davvero fraterno, e una musica che non è la solita colonna sonora, ma è dentro il film, un turista sudamericano in bicicletta sfortunatissmo e tante altre cose, serissime e con il poco conosciuto umorismo islandese.
un film da non perdere, per i miei gusti, poche copie al cinema, solo una decina, ma provate a cercarlo lo stesso, non ve ne pentirete - Ismaele
un film da non perdere, per i miei gusti, poche copie al cinema, solo una decina, ma provate a cercarlo lo stesso, non ve ne pentirete - Ismaele
…Erlingsson
scrive e dirige una storia tutta al femminile, nella quale il fisico e
l'intensità espressiva di Hallora Geirharðsdóttir sono protagoniste assolute,
addirittura raddoppiate dall'espediente narrativo della gemella di Halla,
interpretata dalla stessa attrice. Ma la questione femminile è anche interna al
racconto, nel richiamo della maternità, nelle metafore del ventre della terra,
nel patto che lega le due sorelle e anche nella solitudine dell'impegno della
protagonista, che però arriva allo spettatore in forma divertente e
sentimentale, tra cellulari nascosti nel freezer, cugini di campagna,
automobili dai colori improbabili e accanimento delle istituzioni e del destino
contro un povero turista sudamericano.
Piccola anticommedia della contemporaneità,
imparagonabile alle punte cinematografiche di un Kaurismaki o
di un Roy Andersson (per restare a
Nord), La donna elettrica è in ogni caso una visione
salutare e gradevolissima, che, sotto la confezione leggera, fa la sua
dichiarazione al mondo attraverso il megafono del cinema, con modi garbati ed
evitando di prendersi troppo sul serio, lasciando quel genere di serietà,
drammatica e alla fine inutile, al vociare indistinto della televisione. In
questa operazione, di sdrammatizzazione da un lato ed eleganza del tocco,
dall'altro, ha un ruolo fondamentale il disegno sonoro del film, sofisticato ed
elettrizzante, con la messa in scena ritmica ed umoristica del trio di
musicisti.
…La donna elettrica soffia così un po’ di spirito
ribellistico, d’idealità utopica, di adrenalina della rivolta, come tanto
cinema liberal anni settanta, in questa epoca di paure minimali tra spread e
punti decimali del deficit. Giusto è così lasciare scritto ai posteri uno
stralcio della rivendicazione di Halla dopo aver tirato giù cinque piloni
dell’elettricità: “Chiedo a tutti di insorgere e utilizzare il loro ingegno per
danneggiare queste imprese. L’unica cosa che questi psicopatici delle aziende
multinazionali riescono a comprendere. È così che agiscono, minacciando e
sabotando la natura e la società. Il sabotaggio contro la natura ha causato il
riscaldamento globale. È un crimine contro l’umanità e contro la vita tutta.
Siamo l’ultima generazione che può far cessare le guerre contro il nostro
pianeta. I nostri figli e nipoti non potranno farlo. Dobbiamo muoverci ora. È
la nostra missione”.
…Malgré sa grande propension à se débrouiller
seule, elle est néanmoins assistée par un "éventuel" cousin, mais
aussi involontairement aidée par un cyclotouriste sud-américain qui se trouve
toujours au mauvais endroit, au mauvais moment. Ce personnage secondaire (déjà
présent dans le premier film de Benedikt Erlingsson "Des chevaux et des hommes") est continuellement suspecté par
les autorités d'être un migrant ou un terroriste. Malmené, il est au final
toujours libéré accompagné d'un cynique « Welcome to Iceland! »
Un double discours qui montre bien toute l'ironie de la situation actuelle. Le changement climatique est déjà dangereusement engagé et les autorités mettent tout en œuvre pour neutraliser celles et ceux qui cherchent à enrayer le processus. Certes, Halla ne lésine pas sur les moyens mais la cause est noble et l'urgence bien réelle. Truculente comédie parfaitement orchestrée, "Woman at War" apporte ainsi sa pierre à l'édifice en distillant, telle la petite musique de trois musiciens désinvoltes qui vous suivraient partout, ce message simple mais essentiel : « Notre terre est précieuse, préservons-la ! »
Un double discours qui montre bien toute l'ironie de la situation actuelle. Le changement climatique est déjà dangereusement engagé et les autorités mettent tout en œuvre pour neutraliser celles et ceux qui cherchent à enrayer le processus. Certes, Halla ne lésine pas sur les moyens mais la cause est noble et l'urgence bien réelle. Truculente comédie parfaitement orchestrée, "Woman at War" apporte ainsi sa pierre à l'édifice en distillant, telle la petite musique de trois musiciens désinvoltes qui vous suivraient partout, ce message simple mais essentiel : « Notre terre est précieuse, préservons-la ! »
…le personnage féminin, hors-la-loi, d’emblée
sympathique malgré ses prises de positions extrêmes, va se révéler être une
mère plus que parfaite (elle a adopté un enfant qui vient bouleverser ses plans terroristes) et
surtout une héroïne façon Rambo qui va provoquer le gouvernement islandais et
l’aciérie pour l’empêcher de signer des contrats avec la Chine.
Remarquablement
écrit, mise en images avec un talent certain (il faut dire que les paysages
islandais sont un personnage en soi), très bien interprété, KONA FER I STRIO
(Woman at War) est un film drôle, satyrique, décalé tout en étant en phase
parfaite avec son temps!
…Sembra di
esser perennemente catapultati in un quadro a tinte fredde, controbilanciato
dal calore umano degli interpreti. Il regista si diverte a sconquassare l’animo
dello spettatore, facendolo sussultare fra diverse emozioni: si passa
dall’azione alla passione, dalla concretezza alla voluttuosità, dal serio al
faceto, dal cinismo alla sensibilità.
Questo reiterato passaggio da uno status emozionale all’altro impone una scelta capillare di toni e registri scenici, si punta molto sul ritmo confidando nell’adesione del pubblico. L’Islanda diventa un ipotetico palcoscenico, dove Erlinggson condivide una visione del mondo: una particolare prospettiva di vita che non porta con sé la pretesa di essere capita, ma si concede alla vista dei più in maniera distinta.
Questo reiterato passaggio da uno status emozionale all’altro impone una scelta capillare di toni e registri scenici, si punta molto sul ritmo confidando nell’adesione del pubblico. L’Islanda diventa un ipotetico palcoscenico, dove Erlinggson condivide una visione del mondo: una particolare prospettiva di vita che non porta con sé la pretesa di essere capita, ma si concede alla vista dei più in maniera distinta.
venerdì 25 gennaio 2019
También la lluvia - Icíar Bollaín
Luis Tosar e Gael García Bernal sono i protagonisti del film, sono in Bolivia per girare un film sulla colonizzazione degli spagnoli. al tempo di Bartolomeo de las Casas.
già questo è materiale per un bel film, poi arriva la sorpresa, il film è girato a Cochabamba, nei giorni della ribellione per l'acqua, e anche la troupe partecipa alle manifestazioni.
si era partiti per fare un film storico , ma l'attualità irrompe con decisione.
un gran bel film, per i miei gusti, Icíar Bollaín non sbaglia un colpo.
buona visione - Ismaele
già questo è materiale per un bel film, poi arriva la sorpresa, il film è girato a Cochabamba, nei giorni della ribellione per l'acqua, e anche la troupe partecipa alle manifestazioni.
si era partiti per fare un film storico , ma l'attualità irrompe con decisione.
un gran bel film, per i miei gusti, Icíar Bollaín non sbaglia un colpo.
buona visione - Ismaele
Appassionante e drammatico, crudo e realistico,
coraggioso e profondo: un film che inchioda alla sedia e toglie il fiato,
incide e pervade l’animo, “tre film in uno” come ebbe a dire la regista di
questa pellicola, candidata per una lunga serie di riconoscimenti
internazionali, molti dei quali ottenuti, e meritatamente. É un continuo di
appassionanti e ardite inquadrature tra l’uon e l’altro dei tre temi, lontani
nel tempo ma vicini nell’argomento, di intrecci tra realtà e finzione che pur
rimangono distinte e inconfondibili.
Il giovane ed entusiasta regista Sebastian, sostenuto dall’amico e produttore Costa, sta girando un film su Cristoforo Colombo e le sue scoperte e sulle denunce fatte già nel Cinquecento dai frati domenicani Bartolomeo de las Casas e Antonio de Montesinos a proposito dello sfruttamento disumano e crudele perpetrato a scapito degli indigeni. Luogo delle riprese è la Bolivia che, anche se non è proprio lo stesso che Haiti, ha però il vantaggio di permettere un budget bassissimo…
Il giovane ed entusiasta regista Sebastian, sostenuto dall’amico e produttore Costa, sta girando un film su Cristoforo Colombo e le sue scoperte e sulle denunce fatte già nel Cinquecento dai frati domenicani Bartolomeo de las Casas e Antonio de Montesinos a proposito dello sfruttamento disumano e crudele perpetrato a scapito degli indigeni. Luogo delle riprese è la Bolivia che, anche se non è proprio lo stesso che Haiti, ha però il vantaggio di permettere un budget bassissimo…
…En suma, Bollaín por un lado nos parece decir que la
narrativa colonial en la actualidad no permite que el ex-colonizador pueda
manejar una imagen del ex colonizado. Ello debido a que esta narrativa colonial
se fundamenta en un “neo-colonialismo”, que en el contexto de la Cochabamba
contemporánea encuentra serios reparos. Esto implica que el ex colonizador no
haya cambiado del todo y que ahora represente el capital extranjero global –que
es Costa y también la multinacional responsable de la privatización del agua en
la realidad. El “rebelde” ahora sí puede ganar; esa es la gran diferencia.
Bollaín también nos dice que, aunque el colonizador no ha cambiado, no puede
perder totalmente en términos simbólicos. Su imagen debe rescatarse de algún
modo…
…In his weighty portrayal of Costa, Mr. Tosar goes as far
as he can to make the character’s change of heart believable, but he can’t
accomplish the impossible. And as Anton, the cynical, hard-drinking actor
playing Columbus, Karra Elejalde lends the film a welcome note of antic
unpredictability.
Consciously or not, “Even the Rain” risks subverting its
own good will. You can’t help but wonder to what degree its makers exploited
the extras recruited to play 16th-century Indians. Inevitably “Even the Rain”
is trapped inside its own hall of mirrors.
As the film opens, a cast and crew have
arrived on location in the mountains of Bolivia, far from the Caribbean shores
first founded by Columbus. Here, as the producer Costa (Luis Tosar) boasts, the local Indians can he hired as
extras for $2 a day and count themselves lucky. They can also be used for
manual labor, and Costa is happy to use them to haul a giant crucifix into
position, saving the cost of tractor rental.
You may begin to glimpse some symbolism
coming into view. The film will exploit the Indians just as Columbus did. The
difference is that Columbus evoked Christianity as his excuse, while the modern
film thinks it is denouncing him while committing the same sins. This is more
clear to us than the characters, including Gael Garcia Bernal as Sebastian, the director, who
has vague sympathies for his low-paid workers but places his film above
everything…
También la lluvia
( También la lluvia )
Hacer cine es una guerra a la moral,
una contienda para atacar conciencias.
Hacer cine es una obligación cultural,
una responsabilidad con tus audiencias.
Hacer cine debería ser un ritual,
una lucha contra intransigencias.
Hacer cine es una ruta mortal,
su mensaje faculta todas las licencias.
Cine dentro del cine dentro del cine.
Esta película es como una muñeca rusa.
No hay noticia que no vaticine.
La verdad siempre es confusa.
El retrato de la cinematográfica labor
es realista, cruel y ajeno a profanos.
Puede generar por sus actos estupor,
pero el arte siempre manchó manos.
Luis Tosar desnuda un personaje humano,
tan complejo como insano.
El agua es vaporosa escusa a debate.
No hay nada en nuestras entrañas más esencial.
Cualquier razón puede llevar a empate.
Nada justifica ser más cruel que el animal.
una contienda para atacar conciencias.
Hacer cine es una obligación cultural,
una responsabilidad con tus audiencias.
Hacer cine debería ser un ritual,
una lucha contra intransigencias.
Hacer cine es una ruta mortal,
su mensaje faculta todas las licencias.
Cine dentro del cine dentro del cine.
Esta película es como una muñeca rusa.
No hay noticia que no vaticine.
La verdad siempre es confusa.
El retrato de la cinematográfica labor
es realista, cruel y ajeno a profanos.
Puede generar por sus actos estupor,
pero el arte siempre manchó manos.
Luis Tosar desnuda un personaje humano,
tan complejo como insano.
El agua es vaporosa escusa a debate.
No hay nada en nuestras entrañas más esencial.
Cualquier razón puede llevar a empate.
Nada justifica ser más cruel que el animal.
giovedì 24 gennaio 2019
mercoledì 23 gennaio 2019
Casa de los babys (House of the Babies) - John Sayles
nell'America centrale c'è un posticino dove le povere del luogo vendono o danno in adozione bambini e bambina a più o meno ricche nordamericane che non vedono l'ora, pagando, di tornare a casa con il bottino.
è un'industria redditizia, per tutti, ma non è tutto così semplice come potrebbe sembrare.
John Sayles dà uno sguardo a questo mondo, dove tutti hanno un nome, una storia e un ruolo, nella macchina fabbrica bambini.
forse non è il miglior film di John Sayles, ma è un film di John Sayles e tanto basta.
buona visione - Ismaele
è un'industria redditizia, per tutti, ma non è tutto così semplice come potrebbe sembrare.
John Sayles dà uno sguardo a questo mondo, dove tutti hanno un nome, una storia e un ruolo, nella macchina fabbrica bambini.
forse non è il miglior film di John Sayles, ma è un film di John Sayles e tanto basta.
buona visione - Ismaele
…Sayles handles this material with gentle
delicacy, as if aware that the issues are too fraught to be approached with
simple messages. He shows both sides; the maid Asuncion gave up her baby and
now imagines her happy life in El Norte, but we feel how much she misses her.
The squeegee kids on the corner have been abandoned by their parents and might
happily go home with one of these rich Americanas. Sayles sees like a
documentarian, showing us the women, listening to their stories, inviting us to
share their hopes and fears and speculate about their motives. There are no
answers here, just the experiences of waiting for a few weeks in the Casa de
los Babys.
… Sayles’
intellectual sensibility and ability to keep the film from falling into a
sandtrap of caricatures and political polemics as he explores the economic
landscape make it all worthwhile, though it is still one of his minor films. It
never sustained the passion throughout for what he was trying to spit out about
the great economic divide and cultural differences between countries, except
for a few scenes. The best scene is of the earnest hotel maid Asuncion (Vanessa
Martinez) conversing with Eileen, the only one of the group who looked upon the
workers as real people with feelings, as Eileen explains why she wants to adopt
and the maid counters as to why she had to give up the child she had at 14.
This was powerful drama. To add to that, Eileen can't fully translate what the
maid told her, but they both understood the universal language of motherhood.
Sayles was trying to point out without laying down pat answers, that people
from other cultures and classes are not that different, it is mostly the luck
of the draw that gives people more of an opportunity to succeed. The Americans
regard the baby as a vital commodity in their way of life that they must have
to keep up with the American Dream, while the South Americans have too many
children (viewed as natural resources) and to support them is more of a
hardship than a blessing.
Even an uneven
Sayles film is superior to most such Hollywood dramas. Though the ensemble cast
all give strong performances, it is hard to dig deeper into the more internal
issues that drive people to think they can be saved by having a baby and not by
looking more closely at themselves. Without knowing more about the characters,
it is hard to feel much passion for their plight. Nevertheless, this is an
honest look at rich yanquis taking advantage of those in a Third World country,
as they use their money to get what they want. Not many other filmmakers choose
to go down this noncommercial road, and have enough nerve to leave off with an
existential ending instead of a shocking payoff. Sayles' little joke might be
that the baby the one racist member of the group gets to adopt, is the one with
the brownest skin.
… Le americane farebbero qualsiasi cosa per avere un bambino, gli
autoctoni sono divisi fra i problemi economici e le gravidanze indesiderate.
Per le strade pittoresche, in cui i turisti si affollano in cerca di souvenir e
prodotti locali, si aggirano ragazzini magri, sporchi, analfabeti, che per
alleviare le sofferenze di una vita ingiusta sniffano vernice, che si sentono
ricchi perché qualcuno gli regala un libro che non sanno neppure leggere. A
nessuna delle donne viene in mente di adottarne uno, di salvare una vita da una
condizione pietosa. Tutte vogliono un neonato, "nuovo", da istruire
ed educare secondo le migliori tradizioni americane.
Il grido di denuncia di uno degli ultimi registi off della cinematografia americana, si staglia netto contro il falso moralismo di tutti quegli americani che imperterriti, convinti della loro buona fede, continuano ad alimentare un deprorevole traffico.
Nel cast troviamo una Daryl Hannah, sempre in splendida forma, alle prese con il personaggio più tormentato della vicenda e la "segretaria" Maggie Gyllenhaal, ricca e dolce sposina ormai decisamente lontana dal personaggio che l'ha resa famosa.
A metà strada fra la commedia e il dramma, il film non convince appieno e termina lasciando lo spettatore piuttosto perplesso e poco convinto che le scene passate sullo schermo siano state davvero soddisfacenti.
Il grido di denuncia di uno degli ultimi registi off della cinematografia americana, si staglia netto contro il falso moralismo di tutti quegli americani che imperterriti, convinti della loro buona fede, continuano ad alimentare un deprorevole traffico.
Nel cast troviamo una Daryl Hannah, sempre in splendida forma, alle prese con il personaggio più tormentato della vicenda e la "segretaria" Maggie Gyllenhaal, ricca e dolce sposina ormai decisamente lontana dal personaggio che l'ha resa famosa.
A metà strada fra la commedia e il dramma, il film non convince appieno e termina lasciando lo spettatore piuttosto perplesso e poco convinto che le scene passate sullo schermo siano state davvero soddisfacenti.
lk ml.
lunedì 21 gennaio 2019
Una notte di 12 anni – Álvaro Brechner
José "Pepe" Mujica, Mauricio Rosencof e Eleuterio
Fernández Huidobro furono imprigionati per dodici anni in celle singole, in
isolamento totale, per distruggerli, per farli impazzire.
dire tortura è dire poco.
quando furono liberati
diventarono scrittori, ministri, Pepe Mujica addirittura presidente della
repubblica, ma tanti sono morti.
il film ha dei bravissimi
attori (appare per pochi minuti anche Soledad
Villamil) e ricorda a tutti quanto può essere cattivo l'essere umano, e come
tre indifesi prigionieri resistono, senza cedere mai.
naturalmente
il film è in pochissime sale, ma se vi capita a portata di mano non esitate,
non vi deluderà, promesso - Ismaele
…È interessante che a distanza di
pochi giorni arrivino nelle sale cinematografiche italiane due opere che ci
ricordano ciò che accadde in due Paesi dell'America Latina nella seconda metà
del secolo scorso. Si tratta del documentario Santiago, Italia di Nanni
Moretti sul Cile e di questo film.
Entrambi, seppure con modalità
narrative diverse, ci ricordano ciò che accade quando una brutale dittatura in
nome di un preteso 'diritto' cancella qualsiasi forma di trattamento umano nei
confronti dei detenuti. Seguiamo i 4323 giorni di detenzione di tre dei nove
guerriglieri catturati ed assistiamo ad una scientifica quanto abietta
strategia finalizzata non tanto ad ottenere informazioni (le quali con il
trascorrere degli anni divengono sempre meno utili) quanto piuttosto per
devastarne la psiche uccidendoli di fatto pur mantenendoli in vita…
…L’impianto drammaturgico è semplice, lineare, e la
scrittura, a tratti, inciampa in un poeticismo un po’ melenso nel ricostruire
una fase storica, dominata da un’autorità violenta e spietata, supportata da
una burocrazia paradossale. Si mostra l’inferno dal quale Mujica proviene quasi
sottintendendo una spiegazione del suo approccio politico futuro: la visione
pragmatica della realtà delle cose, di ciò che va considerato davvero
importante, di ciò che si può ritenere superfluo. Il respiro è volutamente
popolare e retorico e lo stesso ricorso all'ironia si spiega col tentativo del
film di proporsi, didascalicamente, come strumento didattico per raccontare a
un pubblico, il più vasto possibile, la sofferenza nella quale si è forgiata
una figura straordinaria.
…Partendo dal libro di memorie di Rosencof e Huidobro,
il regista prova così a raccontare a suo modo una delle pagine più buie del
paese. Lo fa mantenendo una invidiabile lucidità che gli consente di sostenere
la narrazione con mano solida e ritmo calzante e senza mai cadere nella
trappola della retorica.
Ciò che convince di più nel film infatti, è la capacità di raccontare
nel dettaglio l’orrore della prigionia grazie a una sapiente introspezione
dell’animo umano che evita inutili forzature. La chiave narrativa spinge così
lo sguardo dello spettatore in una direzione cruda e spietata grazie alla sola
forza delle immagini che cerca di restituire tutte le privazioni, i soprusi a
cui erano sottoposti i prigionieri dentro a un clima di feroce, spasmodica
tensione, ricorrendo alla potenza evocativa dei tempi morti che ben
sottolineano ed evidenziano il disordine psicologico partorito dalla tortura.
La storia si basa su molteplici fattori e innumerevoli dettagli, ma
quello che sicuramente sta più a cuore del regista, non è certo la voglia di
produrre un asettico saggio di analisi storica anche critica. Prevale invece in
lui il desiderio, la voglia di concentrarsi sulla lotta per la dignità di
tre individui e celebrare così’ la resistenza caparbia dell’essere umano,
la sua capacità non solo di sopravvivere, ma di riuscire a conservare (e
persino arricchire rendendola più feconda) la propria umanità anche nelle
peggiori condizioni di sofferenza e umiliazione è questo è certamente un
pregio, ma anche un piccolo problema sia pure secondario poiché il voler
limitare al minimo indispensabile la contestualizzazione socio-politica
di quel particolare momento storico, potrebbe anche rendere allo
spettatore che non ha alcuna nozione di quegli avvenimenti (e ce ne
potrebbero essere moltissimi al giorno d’oggi) il senso ultimo di una pellicola
che è come un iceberg perché anche lei (come quello) ci fa scorgere solo la
punta più alta che affiora sulla superficie, ma ci fa ben comprendere che sotto
esiste una massa ancora più ingombrante tutta da scoprire per le molteplici
implicazioni che si porta dietro…
… Una
notte di 12 anni è
insomma un film di una semplicità disarmante: frutto di anni di lavoro e di
conversazioni con i veri protagonisti della terrificante prigionia, il film
restituisce, con la sua preziosa linearità, una precisione essenziale
interrotta qua e là, appunto, da qualche “episodio”, ma strutturata su una
scelta stilistica assolutamente chiara e netta. Così anche la liberazione
arriva, preannunciata certo dal ritorno alla prigione di Stato da cui eravamo
partiti, senza fragore e retorica. E proprio per questa scelta sobria, il
racconto della detenzione del futuro Presidente e dei suoi compagni commuove
senza ricatto, sciogliendosi catarticamente nell’abbraccio ai cari che segna il
ritorno alla vita.
Con una semplice e vacua formula si potrebbe dire che Una notte con 12 anni è un film “importante”, che racconta la forza dell’umanità e la forza della ragione, in varie accezioni, che non si spegne neppure con 12 anni di buio. Ragione e “immaginazione”, come ha ripetuto più volte il regista, perché senza immaginazione si perde tutto, non si può ricordare, ridisegnare e concepire il senso, strutturare l’identità. Ma al di là di questo nobile intento, il film riesce soprattutto a essere un’operazione intelligente e mirata sull’interiorità, la più vasta e misteriosa delle risorse. Il sorriso, la statura morale e le parole di Mujica – simbolo di lotta meno celebre di Mandela, ma la cui parabola non è poi troppo differente – sono ancora qui a ricordarcelo.
Con una semplice e vacua formula si potrebbe dire che Una notte con 12 anni è un film “importante”, che racconta la forza dell’umanità e la forza della ragione, in varie accezioni, che non si spegne neppure con 12 anni di buio. Ragione e “immaginazione”, come ha ripetuto più volte il regista, perché senza immaginazione si perde tutto, non si può ricordare, ridisegnare e concepire il senso, strutturare l’identità. Ma al di là di questo nobile intento, il film riesce soprattutto a essere un’operazione intelligente e mirata sull’interiorità, la più vasta e misteriosa delle risorse. Il sorriso, la statura morale e le parole di Mujica – simbolo di lotta meno celebre di Mandela, ma la cui parabola non è poi troppo differente – sono ancora qui a ricordarcelo.
…Il regista fa anche un buon lavoro di sceneggiatura
per far appassionare lo spettatore alle vicende di tre detenuti che, in
isolamento per anni, non fanno altro che essere spostati di caserma in caserma.
Ricrea l’alienazione di questi luoghi, la ripetitività e l’ossessività dei
movimenti al loro interno, un tempo circolare dove difficilmente si distingue
il giorno dalla notte, ma spezza abilmente la monotonia con incursioni
frequenti nelle menti dei tre, nel loro ondeggiare tra follia e lucidità, nel
lavorio incessante per creare spazi astratti di evasione con fantasie su
persone care, o ricordi riproposti in chiave onirica, con giochi immaginari, o
inventando nuovi codici di comunicazione in assenza di linguaggio…
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sabato 19 gennaio 2019
Free State of Jones - Gary Ross
tratto da una storia vera, la ribellione di un gruppo di uomini (e donne) fino alla creazione di una contea libera da razzismo e altre schifezze.
la storia è coinvolgente, e poi di gran bei film con attori neri protagonisti ne stiamo vedendo tanti, spesso straordinari.
Matthew McConaughey è il bravissimo protagonista di Free State of Jones.
un film da non perdere, per i miei gusti - Ismaele
la storia è coinvolgente, e poi di gran bei film con attori neri protagonisti ne stiamo vedendo tanti, spesso straordinari.
Matthew McConaughey è il bravissimo protagonista di Free State of Jones.
un film da non perdere, per i miei gusti - Ismaele
…La scrittura di Free State Of
Jones insomma non si allontana dalla consueta ruffianeria
retorica che il cinema americano mette in campo quando vuole esibire un preciso
intento sociale, quando sente il peso dello scopo didattico. Eppure nelle
pieghe di questo film ci sono molte più concessioni alla “sperimentazione”
(virgolette d’obbligo!) di quanto non sembri. Non è infatti la consueta
centralità della star nell’economia del racconto, la divisione manichea o
l’odiosa stereotipizzazione di qualsiasi “cattivo” a convincere davvero, quanto
la maniera in cui la parabola di un bianco che decise di ribellarsi a chi
opprimeva lui e altri cittadini di serie B o C (nel caso dei neri) sia una
maniera di chiedersi cosa voglia dire fare una rivoluzione e cambiare le cose,
per concludere che non somiglia a quel che il cinema di solito ci racconta.
I film mettono in scena il cambiamento
come una serie di passi bene identificabili, una serie di storie puntuali in
cui chi si comporta male viene punito, e chi ha un diritto che viene calpestato
alla fine vede riconosciuto il proprio legittimo desiderio. Titoli di coda.
In Free State Of Jones la
battaglia non finisce mai. Ad ogni conquista segue un movimento contrario, ogni
qualvolta si ha l’impressione che il film possa finire e i personaggi possano
vivere sereni in realtà accade un nuovo sopruso: le conquiste non sono
applicate, compare il Ku Klux Klan o un giudice connivente contravviene ad ogni
precetto e Knight reimbraccia il fucile…
…Non è un film memorabile Free State of Jones, eppure prova a veicolare dei
messaggi non banali (l’azione, la collettività, il vero nemico, la sacralità
del lavoro), ricollegandosi in tono minore all’ultimo Tarantino, The Hateful Eight e Django Unchained. Non una riscrittura
della Storia o una possente metafora tarantiniana, ma un onesto tassello da
aggiungere a una rilettura critica della genesi degli Stati Uniti e, più in
generale, del capitalismo. «La guerra dell’uomo ricco combattuta dall’uomo
povero» è la trave portante del pensiero e delle azioni di Knight, il veicolo
che permette di prendere le distanze dallo schiavismo, dal razzismo, da
qualsiasi distinzione di classe. E che permette di unire le forze, e di
moltiplicarle.
Sarebbe molto utile anche oggi.
Sarebbe molto utile anche oggi.
Detto della cornice “contemporanea” smaccatamente didascalica, con
dinamiche e personaggi che non hanno il tempo fisiologico per prendere
corpo, Free
State of Jones sembra restare sempre a metà strada, un
po’ Radici e
un po’ Glory
– Uomini di gloria, ma senza le dimensioni da epopea
storico/familiare della miniserie televisiva o l’impatto epico del
lungometraggio di Edward Zwick.
… Il qui valido e bravo regista Gary
Ross, che ricordiamo più volentieri per gli esordi felici dei tempi di
Pleasanville, anni '90, che per il resto di una carriera un pò
discontinua a base di blockbuster non particolarmente ispirati, ha
il merito di immergerci in un campo di battaglia scagliandoci
con devastante realismo tra gli orrori della battaglia, combattuta con
fucili e baionette, polvere da sparo ed arma bianca, e che mette in campo
vecchi e giovani alle prime armi, buttati tutti allo sbaraglio come un
muro umano destinato a sacrificarsi per la stupidità e l'intransigenza di chi
non vuole capire e rinuciare ai propri interessi e privilegi.
Il film risulta toccante ed
appassionante, nonostante le oltre due ore e venti di narrazione, concitata e
ben distribuita su due archi temporali che non si differenziano per
perseveranza di principi discriminatori ed ingiustizia.
E sa parlarci correttamente, e senza
delirare, della brutalità e della stupidità della guerra, senza necessità
di prendere posizione di parte (imparasse quello stolto incosciente di Mel
Gibson, nell'ultima sua stolta, incontrollata e supponente regia - Hacksaw
Ridge - a raccontarci gli orrori della guerra senza enfasi inutili e
patriottica sdolcinata retorica!!) e senza crogiolarsi su tendenziosi facili
sentimentalismi.
… La natura americana
di Newton Knight sta nella completa assenza di dubbio delle sue azioni, nella
concezione di una sola prospettiva di fronte alla complessità dei processi
storici: la prospettiva dell’uomo di fede e di giustizia. La
particolare del film, invece, sta nella scelta di lasciare poco per volta in
secondo piano gli aspetti drammatici del racconto per evidenziare invece
la ricostruzione
storica del periodo post-bellico – quando l’Unione delega
agli uomini della Confederazione la gestione degli ex stati ribelli, di fatto
ammettendo il ritorno della schiavitù per via legali e riconoscendo il potere
dei vecchi latifondisti – e la creazione delle ingiustizie sociali e
razziali che segnano tuttora la società americana. Le vicende
personali di Newton e dei suoi uomini – in particolare dell’ex schiavo liberato
Moses – perdono la loro dimensione puramente narrativa per diventare i tasselli
di una storia
minima eppure decisiva che dai campi di battaglia della guerra civile porta a
un tribunale del Mississippi negli anni ’40, e ovviamente oltre.
La linea di sangue e la linea degli eventi coincidono, e insieme costruiscono passo dopo passo la vergogna e il riscatto di una nazione. Per una volta, l’azione del singolo non si riverbera nello spazio concluso della famiglia, nella relazione fra un padre, una madre e la loro discendenza, ma attraverso quella stessa discendenza si apre a un popolo intero: la guerra della contea di Jones è la guerra del povero contro il ricco, del bianco che sa stare a fianco del nero in nome di un principio maggiore, minando inconsapevolmente la stabilità di una nazione e permettendole così di sperare a ogni passaggio storico nella propria redenzione.
La linea di sangue e la linea degli eventi coincidono, e insieme costruiscono passo dopo passo la vergogna e il riscatto di una nazione. Per una volta, l’azione del singolo non si riverbera nello spazio concluso della famiglia, nella relazione fra un padre, una madre e la loro discendenza, ma attraverso quella stessa discendenza si apre a un popolo intero: la guerra della contea di Jones è la guerra del povero contro il ricco, del bianco che sa stare a fianco del nero in nome di un principio maggiore, minando inconsapevolmente la stabilità di una nazione e permettendole così di sperare a ogni passaggio storico nella propria redenzione.
venerdì 18 gennaio 2019
Muerte en León – Justin Webster
un fatto di cronaca terribile, l'omicidio in pieno giorno di un politico donna, a León, in Spagna.
in una serie da quattro puntate, praticamente un documentario lungo, il regista analizza l'accaduto, in maniera coinvolgente.
merita davvero la visione, nessuno si annoierà - Ismaele
in una serie da quattro puntate, praticamente un documentario lungo, il regista analizza l'accaduto, in maniera coinvolgente.
merita davvero la visione, nessuno si annoierà - Ismaele
…Los
retratos que se dibujan en Muerte
en León son terribles, extremos, alocados y rozando el
sinsentido permanentemente. Y lo hacen de una manera muy inteligente, con
testimonios cercanos a ambas partes y con retazos del juicio que se llevó a
cabo para condenar tanto a ambas acusadas como una tercera, amiga de la hija,
que descubrió el arma. Lo
que envuelve a la historia es tan loco, que no son necesario más artificios.
Únicamente con eso pasas permanentemente del escándalo al asombro.
Lo cierto es que el
documental arroja luz sobre una serie de detalles que podrían hacer variar la
versión de la sentencia, acerca del momento del crimen, de la posibilidad de colaboración
necesaria de Raquel Gago, la tercera acusada que entró en comisaría como
testigo y salió como encausada; sin embargo, van pasando por alto, superados
por el seguido de situaciones que narra y que resultan surrealistas. Pero van
haciendo poso en la memoria y mostrando cómo ese suceso elemental podría tener flecos que
han decidido obviarse en la narración oficial…
da qui
da qui
mercoledì 16 gennaio 2019
A distanza ravvicinata (At Close Range) - James Foley
gli attori sono straordinari, in una storia a 100 all'ora, dove Christopher Walken e Sean Penn sono padre e figlio.
il primo è un delinquente di prim'ordine, il figlio è un bravo ragazzo, un po' ingenuo, che inizia a lavorare per il padre.
quando il gioco si fa duro Sean vuole mollare (intanto si è innamorato), ma la sfortuna e il destino sono in agguato.
un gran bel film, che non ti dimentichi tanto in fretta, e non potrà non piacerti, promesso - Ismaele
il primo è un delinquente di prim'ordine, il figlio è un bravo ragazzo, un po' ingenuo, che inizia a lavorare per il padre.
quando il gioco si fa duro Sean vuole mollare (intanto si è innamorato), ma la sfortuna e il destino sono in agguato.
un gran bel film, che non ti dimentichi tanto in fretta, e non potrà non piacerti, promesso - Ismaele
…Da sottolineare
la prova assurdamente magnifica dei due protagonisti:un Walken totalmente fuori
degli schemi con lo sguardo folle e con gesti ancora piu' folli e un Penn che
nonostante la giovanissima eta' ci regala un interpretazione favolosa di una
gioventu' bruciata che si riesce a redimere....
… Film drammatico ispirato ad un
criminale realmente esistito.
Ben scritto
da Nicholas Kazan e con una regia non solo peculiare, ma creativa, ricca di
espedienti visivi che creano molta suggestione, ha come protagonista un Sean
Penn che già dimostrava di essere in gamba (seppure ancora immaturo), tanto da
dare del filo da torcere a Christopher Walken. Nei panni del fratello del
protagonista c'è il compianto Chris Penn, vero fratello di Sean.
Interessante
commistione di noir moderno e dramma, riesce a creare la giusta tensione e il
giusto pathos nonostante la trama sia piuttosto prevedibile da un certo punto
in poi.
Molto
piacevole anche la colonna sonora (che introduce ad esempio il personaggio di
Brad e di Terry con una bella atmosfera) scritta da Patrick Leonard e che vede
la collaborazione con Madonna - allora moglie di Penn - per la canzone Live
to Tell.
Un film
particolare, dai toni un po' malinconici e caratterizzato da scene
inaspettatamente crude.
Da vedere
assolutamente (meglio in lingua originale). Consigliatissimo.
Una piacevole sorpresa questo film di Foley, e non solo perché
regala un' occasione più unica che rara di vedere entrambi i giovanissimi
fratelli Penn all'opera, ma perché riesce dall'inizio alla fine a trasmettere
il giusto ritmo ad un film cupo e crepuscolare, con vicende familiari che si
incastrano alla perfezione in un gioco criminale dove tutti i legami di sangue
vengono soppiantati dalla legge del più forte. Un film dove però a
giganteggiare a mio parere è il padre Walken, cinico, amorale ed al tempo
stesso estremamente affabile come si conviene ad un criminale di lungo corso.
La fotografia eccellente del paesaggio rurale americano è la ciliegina sulla
torta di un'ottima pellicola.
Una sceneggiatura dura e tagliente come una lama, crudele e
angosciante come una moderna tragedia di Shakespeare, supportata da un cast di
altissimo livello, guidato da due attori sublimi come Walken e Penn. Solo la
regia di Foley risulta un po' troppo...formale, quasi distaccata, lasciando in
effetti che siano la solidità delle parole e degli attori a far funzionare il
meccanismo, privando il tutto di quel pizzico di "inventiva" che
avrebbe permesso al film di diventare un capolavoro (magari con uno Scorsese
dietro al timone...)
In ogni caso, la sceneggiatura è un autentico gioiello di attenzione alle psicologie dei personaggi e di equilibrio tra azione, sentimento e logica degli eventi. E poi, come già menzionato, il duetto dei protagonisti vale da solo il prezzo del film: per quanto è odioso e senza coscienza Walken (ma in un modo molto umano e non macchiettistico, che lo rende anche più terrificante), così è intenso ed emotivo il giovane Penn (forse il miglior attore ora in circolazione ad Hollywood): poco più che ventenne, ma già incredibilmente dotato.
da
quiIn ogni caso, la sceneggiatura è un autentico gioiello di attenzione alle psicologie dei personaggi e di equilibrio tra azione, sentimento e logica degli eventi. E poi, come già menzionato, il duetto dei protagonisti vale da solo il prezzo del film: per quanto è odioso e senza coscienza Walken (ma in un modo molto umano e non macchiettistico, che lo rende anche più terrificante), così è intenso ed emotivo il giovane Penn (forse il miglior attore ora in circolazione ad Hollywood): poco più che ventenne, ma già incredibilmente dotato.
martedì 15 gennaio 2019
A ghost story - David Lowery
succede poco, in questo film.
protagonisti sono i fantasmi, proprio quelli con il lenzuolo bianco e due buchi all'altezza degli occhi; detto così sembra una scemenza, ma quei fantasmi sono così espressivi, e legati al mondo, alla casa.
fra loro si riconoscono, e i pochi dialoghi riescono a commuovere.
è proprio un film da non perdere, nessuno se ne pentirà, anzi... - Ismaele
protagonisti sono i fantasmi, proprio quelli con il lenzuolo bianco e due buchi all'altezza degli occhi; detto così sembra una scemenza, ma quei fantasmi sono così espressivi, e legati al mondo, alla casa.
fra loro si riconoscono, e i pochi dialoghi riescono a commuovere.
è proprio un film da non perdere, nessuno se ne pentirà, anzi... - Ismaele
…A Ghost Story es mágica, hipnótica, terrible, amarga y
realista, utiliza a su fantasma para golpearnos con dureza y simplicidad, dejándonos sin aliento y
totalmente aturdidos al terminar la proyección. Obra de culto instantánea.
… La
sintassi cinematografica di Lowery sabota la linearità, il fantasma è
osservatore fuori dal tempo che fluisce senza ordine: ed è così che scopre il
futuro ergersi su grattacieli di vetro e acciaio, illuminati al neon, cadendo
nel vuoto fino ad atterrare nel passato. Senza in realtà muoversi di un passo.
Perché bloccato lì dove ha sempre desiderato essere: a casa. Almeno finché il
bigliettino di M, incapsulato come un messaggio in bottiglia lasciato vagare
nell'eternità, non riemerga; scendendo a patti con la finitudine delle cose
umane, l'epifania si concretizza nell'attesa, al fine di lasciare una piccola
traccia di sé in un angolo di mondo, prima che l'universo ci dimentichi. Lowery
ci e si ricorda che la Settima arte permette tale impresa.
…a
livello costruttivo, la narrazione è divisa perfettamente in tre parti da due
immobili piani sequenza; il vagabondare del fantasma viene interrotto da questi
momenti cruciali che rallentano ulteriormente il tempo inglobandolo in
un'atmosfera ovattata: nel primo troviamo, accovacciata a terra, la moglie che
ingoia forzatamente dei bocconi di torta al cioccolato cercando di reprimere
quelle lacrime che non vedremo mai scendere sul suo volto. Successivamente, in
quella casa ormai abbandonata da tempo dalla vedova, compare un personaggio
decisamente inutile ai fini della storia ma il cui monologo (nuovamente un
motivo per sospendere la narrazione nell'unica sequenza vivace del film)
presenta degli spunti di riflessione non indifferenti: l'idea pessimistica di
un universo che, prima o poi, è destinato a scomparire e quella di destino come
disegno precostituito, sono i concetti attorno ai quali il film stesso si
costruisce.
…gran
parte del fascino di A Ghost
Story risiede in un ammaliante impianto estetico, nel quale lente
panoramiche esplorative e tableaux vivants densi di
stasi si alternano a un montaggio sincopato che ben illustra la relatività del
tempo che passa inesorabile, il tutto corredato da un insolito formato 4:3 dai
bordi arrotondati che comprime lo sguardo all’interno di un universo
eminentemente visuale (il buon vecchio “cinema puro” hitchcockiano) dominato
dal silenzio, un mondo fatto solo d’immagine nel quale la parola sembra non
trovare posto. Una realtà altra dove è
permesso anche a due ectoplasmi della porta accanto abbandonarsi a un muto
eloquio esistenzialista al quale il pubblico può grottescamente presenziare
attraverso i sottotitoli…
… No es una película de fantasmas, es mucho más que la banal
adaptación de la opinión de alguien: Es una reafirmación de la importancia del
detalle y el tiempo cuando no lo aprovechamos, y pretendemos lograrlo cuando
empezamos a formar parte del olvido natural. Pero la cinta contiene un guiño
final que cierra con perfección el ciclo analizado. Algunos podrían
considerarlo una buena idea para resolver la película. Yo creo que es un
vistazo a las segundas oportunidades.
… Como
sugiere el relato de Virginia Woolf que citamos al inicio del texto (Lowery
también hace en el filme), quizá solo puedan regresar como fantasmas aquellos
que, al igual que el caracter de Affleck, conciban cada pedazo de memoria como
un tesoro a conservar en lugar de un jalón con el que sellar el avance hacia un
nuevo camino. Sea como sea, A Ghost Story tiene la
capacidad de trasladar esta perspectiva del fantasma a cualquiera capaz de
identificar en esta figura el anhelo existencial, y junto a él la desazón
irremediable, por perseguir la permanencia todo lo que amamos. Lowery ha
confesado que el germen del guión fue una de esas etapas vitales en las que uno
siente que, ante la mortalidad de todo lo que nos rodea, nada importa. Desde
una necesidad desesperada de asomarse a ese abismo para salir de él con alguna
verdad se entiende la inmensa belleza que arranca una película tan necesitada
de aferrarse a ella. El gran logro de A Ghost Story, la obra de un cineasta en efervescencia creativa, es la
organicidad con la que el minimalismo de sus elementos internos hace brotar un
maximalismo de discursos existenciales.
… Con
un inicio que descoloca, en parte a su formato 4:3, A Ghost Story se convierte
en una experiencia única que atrapa al espectador quedándose fascinado e
hipnótico ante la propuesta del director australiano. Un prodigio de
dirección en la que cada plano, cada escena tiene un significado que vamos
descubriendo según avanza la película y que nos deja con una sensibilidad a
flor de piel, nada es baladí lo que nos narra y la ternura traspasa la
pantalla. A Ghost Story es una pequeña historia en lo que lo sobrenatural se
narra de una manera poética y filmada con una exquisitez que abruma. Puede
asustar su sencillez, sus agobiantes espacios e incluso algunos planos y
escenas que no parecen tener fin pero la magia que desborda el fin es suficiente
para atraer al espectador a una sala de cine y comprender que estamos ante
uno de los mejores filmes de este año.
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