tratto da
una serie tv Usa, The
Booth At The End, il film di Paolo Genovese era atteso dopo
l'exploit, di critica e di pubblico, del film precedente.
molti attori sono presenti in
entrambi i film, qui protagonista assoluto è Valerio Mastandrea, sempre seduto
(e sempre più somigliante a Francesco De Gregori), è un po' Aladino, un po'
psicologo, un po' (cattiva?) coscienza delle persone che lo cercano per
raggiungere i loro sogni e desideri.
le persone e le loro storie
sono spesso collegate, ma solo lui lo sa, e prova a muovere i fili invisibili
che li collegano, riuscendoci, faticosamente, in parte.
…Non tutto funziona, è giusto dirlo.
Gli interpreti sono credibili, ma non tutti i loro personaggi e le loro storie.
Qualcuno è abbastanza pleonastico, per non dire controproducente alla statura
del film (vogliamo bene a Sabrina Ferilli, ma a lei viene riservato
l'ingrato compito di chiudere i giochi con un epilogo tanto posticcio quanto
insulso, che stride pesantemente con quanto di buono si era visto fino allora),
mentre anche la sceneggiatura spesso si incarta su se stessa rendendo il film
un po' ripetitivo e prolisso (diciamo che qualche minuto in meno avrebbe
giovato), dove la retorica e il pietismo, seppur tenuti sotto controllo, sono
sempre in agguato.
Malgrado
tutto, ritengo comunque The Place un
film coraggioso e riuscito, un film dalla struttura universale e in
controtendenza rispetto all'omologato panorama italiano, dove evidentemente
l'ottimo cast dà una grossa mano a nascondere le pecche di cui sopra. Paolo
Genovese è un cineasta intelligente, consapevole dei propri mezzi e dei
propri limiti. E le sue pellicole sono validi esempi di un buon "cinema
medio" di cui, opinione personale, in Italia abbiamo tanto bisogno per
riportare la gente ad affollare le sale.
…The Place sperimenta una scrittura filmica che conserva il teatro come spettacolo vivo, facendo respirare
la finzione e la performance, lasciando conversare l'immagine teatrale, che si
offre senza limiti allo sguardo, e il quadro cinematografico, che costringe il
punto di vista. Convertito il salotto in ristorante, i suoi attori vivono il set
come vivrebbero la scena, sono le loro performance a organizzare lo spazio,
costruendo il proprio personaggio davanti alla macchina da presa.
…Il
successo di Perfetti Sconosciuti ha caricato di aspettative l’arrivo di The Place. La coralità del primo film è richiamata nel secondo, ma
questo rappresenta l’unico punto di contatto tra le due pellicole. Se nel primo
caso si trattava di una commedia brillante e divertente, nel secondo lo
spettatore si trova di fronte ad un genere quasi drammatico. Ovviamente non è
qui che nasce la delusione. La svolta di Perfetti Sconosciuti è
rappresentata dal colpo di scena finale, tentato anche in The Place pur senza bissarne la forza e l’incisività. Insomma,
manca quel quid che inevitabilmente ci si aspettava. Stesso discorso
per il ritmo: serrato sì, ma a tratti forzato e poco scorrevole.
…The Place non è un film
eccezionale, ma proprio per questo motivo sembra che Genovese sia a proprio agio, perché anche in un adattamento
abbastanza pedissequo (sono uguali alla serie tv anche le singole storie e il
personaggio della cameriera), si muove benissimo ed esalta a dovere un
materiale che, è facile intuirlo, in altre mani poteva rendere molto meno.
Proprio il suo stile estremamente tecnico e calligrafico lo aiuta, con un
necessario moltiplicarsi di inquadrature differenti per mostrare sempre la
stessa situazione senza uscire mai dai binari di una messa in scena invisibile
e funzionale agli attori.
Alla fine nelle sue mani quella di The Booth At The End sembra una storia italiana, anche se non lo è. Sembra una storia di personaggi teatrali pirandelliani, una in cui ognuno mette in scena se stesso davanti ad un pubblico formato da una sola persona, in un film che insiste sottilmente su quelle debolezze umane che inducono le persone a chiedere un aiuto disperato.
Alla fine nelle sue mani quella di The Booth At The End sembra una storia italiana, anche se non lo è. Sembra una storia di personaggi teatrali pirandelliani, una in cui ognuno mette in scena se stesso davanti ad un pubblico formato da una sola persona, in un film che insiste sottilmente su quelle debolezze umane che inducono le persone a chiedere un aiuto disperato.
…Mastandrea dimostra
per l’ennesima volta la sua bravura nel saper tenere la scena pur non
muovendosi dalla sedia, non comprendiamo chi rappresenti veramente, se una
figura demoniaca o un giustiziere che conduce il richiedente nella propria zona
d’ombra.
The Place risulta un film ambizioso, ricco di
dialoghi, primi piani, con narrazione che si svolge in un unico ambiente che a
tratti rischia di stancare lo spettatore, sopratutto a causa di alcune
interpretazioni deboli che fanno decadere il magnetismo scenico. Anzi,
probabilmente l’errore più grande é stato quello di mettere in scena troppe
storie, troppi personaggi, e sviluppandone davvero bene pochi, rischiando così
che non si crei abbastanza empatia con le storie e i suoi portatori.
Un’occasione mancata probabilmente, ma non vogliamo buttarla direttamente
nella pattumiera, anzi apprezziamo lo sforzo di realizzare qualcosa di diverso
dalla solita commedia – porto sicuro per molti registri nostrani – e siamo
certi che Paolo Genovese vuole
dimostrarci che può mostrarci la sua bravura su altri generi anche drammatici…
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