Una bella intervista di Chiara
Cruciati a Amer Shomali, regista
di The
Wanted 18
Perché un film sulla Prima intifada?
Sono nato fuori dalla Palestina, sono cresciuto in un
campo profughi in Siria. Durante gli anni della Prima Intifada ero ossessionato
dai fumetti che venivano pubblicati dall’Olp. Molti artisti arabi e
internazionali facevano cartoon, poster, disegni su quello che stava accadendo
in Palestina e questo ha modellato in me un’immagine della Palestina molto
potente. Un luogo bellissimo e utopico. Ad un certo punto, negli anni Novanta
avevo in mano un libro di fumetti su Beit Sahour, di un artista egiziano, che raccontava
la disobbedienza civile nel mio villaggio di origine. Ero affascinato: era il
mio villaggio e quei personaggi, dei supereroi, potevano essere i miei zii, i
miei nonni. Un giorno leggevo Superman e il giorno dopo la lotta a Beit Sahour
e la sua gente, i miei parenti.
Più tardi nel 1997 quando arrivai a Beit Sahiur dopo
il processo di pace, rimasi scioccato dalla realtà: il mio villaggio era un
posto come gli altri, i giovani erano interessati a cose materiali, non c’era
senso di comunità, niente di quello di cui sognavo da fuori. Provai a fuggire e
a tornare in Siria al campo profughi, ma senza successo: ormai qualcosa era
cambiato in me. Poi ho incontrato uno dei personaggi che avrei inserito nel
film. Mi disse solo: tutto quello che ti hanno raccontato è vero, ma è passato,
sei arrivato tardi, hai perso la Prima Intifada.
Allora ho iniziato a pensare al film: un modo per
riappacificarmi con Beit Sahour, raccontarne la storia per farla vivere ancora
e per viverla io stesso tramite le voci dei protagonisti. Ho ricreato la mia
versione della Palestina, per me e per i giovani. È stato in qualche modo
un’operazione egoista. È stata una riconciliazione con la Palestina di oggi. La
immaginavo come un’utopia e dovevo comprendere quel passaggio critico, che è
stato il processo di pace di Oslo.
È stato un modo anche per svelare gli errori, quello
che non è stato fatto e quello che è stato sbagliato. Uno strumento per un
possibile futuro?
Alcuni mi chiedono oggi se tramite il film promuovo
una terza o una quarta Intifada copiando il modello della Prima. Non
esattamente: non intendo riproporre quelle pratiche ma piuttosto sottolineare
ed esaltare la creatività, quel tipo di resistenza che le nuove generazioni
potrebbe facilmente rimettere in piedi. Possono farlo ma devono crederci,
devono credere che possono guidare la comunità.
Con la versione inglese del film, vuoi parlare al
mondo fuori. In un periodo in cui mancano i grandi intellettuali di un tempo,
da Kanafani a Said a Darwish, possono i nuovi artisti e i loro nuovi linguaggi
ridefinire la narrativa palestinese e controbattere a quella israeliana, più
facilmente comprensibile all’Occidente?
Il film ha diverse versioni, in arabo, in francese, in
inglese e anche in giapponese. Lo abbiamo fatto perché potesse essere trasmesso
anche in altri paesi, nei cinema e nelle televisioni. È stato difficile perché
dovevo bilanciare il contesto: non ridurlo troppo perché altrimenti il pubblico
straniero non avrebbe capito di cosa si stava parlando; e non ampliarlo troppo
per non renderlo noioso per l’audience palestinese e quella araba che conoscono
la storia dell’Intifada. Alcune scene sono state riviste molte volte,
rischiavano di non essere divertenti perché avevano o troppe informazioni o
troppo poche.
Veniamo proprio all’ironia, all’umorismo che è il
linguaggio principale del film. Un’ironia che va a sgretolare le basi
dell’occupazione israeliana, della sua paranoia illogica del controllo. Non è
facile narrare un periodo tanto drammatico come la Prima Intifada attraverso la
voce di 18 mucche.
La decisione di usare l’umorismo in questo film era un
rischio, ma era la cosa giusta da fare. Non avrei saputo farlo altrimenti, sono
un fumettista e cerco l’ironia ovunque, in ogni angolo di una storia. Ma era
comunque difficile combinare una mucca che diceva qualcosa di divertente vicino
ad una madre che raccontava del figlio ucciso. All’inizio non avevo una
risposta. Poi uno dei protagonisti del film mi ha raccontato un episodio: una
notte, durante la Prima Intifada, stava studiando matematica a casa perché il
giorno dopo avrebbe avuto l’esame finale. In piena notte l’esercito israeliano
ha fatto irruzione a casa sua, lo ha preso, bendato e ammanettato e lo ha
caricato nella jeep. Era disperato, sapeva che avrebbe saltato l’esame e
avrebbe perso l’anno. Stava pensando a tutto questo quando la jeep si è fermata
di nuovo a Beit Sahour e ha arrestato un’altra persona. I soldati l’hanno fatta
salire dietro, con lui. Il ragazzo gli ha dato una gomitata e ha chiesto: “Chi
sei?”. L’altro ha risposto: “Il professore di matematica”. Hanno iniziato a
ridere come pazzi. I soldati urlavano di smettere di ridere ma non riuscivano a
fermarsi. Hanno fermato la jeep e li hanno picchiati ma loro continuavano a
ridere.
In quel momento è stato tutto chiaro: i soldati
pensano che arrestandoti, bendandoti e ammanettandoti, ti controllano
completamente. Ma non è così: tu puoi ancora ridere e loro non possono farci
nulla. Tu continui a pensare e loro non possono controllare la tua mente. La
risata dell’oppresso può distruggere le fondamenta del sistema di oppressione.
È stata la chiave del film: i palestinesi soffrono per la loro situazione ma
non sono vittime, sono persone con i loro sentimenti e anche con le loro
risate. Così, chi sta fuori non proverà pieta ma empatia.
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