un film praticamente introvabile, finché non lo ristampano o un'anima pia
lo mette in rete.
io ho avuto la fortuna di vederlo, in una copia di una registrazione di non so
quando, dalla Rai, trovato in una cineteca.
è uno dei primi film sul terrorismo, e ce n'è per tutti, per terroristi e
polizia, scomodo per tutti, terroristi e polizia, forse per questo è
"sparito" (neanche un trailer si trova in rete).
siamo nel 1977, nel passaggio dalla contestazione alla lotta armata, ed il film
è di una chiarezza e di una sincerità uniche.
ci sono molte cose interessanti dentro, delle piccole storie laterali.
peccato che il regista sia famoso per dei film inguardabili e non per questo.
è un film che merita molto, a me è piaciuto moltissimo, auguro a tutti di
riuscire a vederlo, poi giudicherete. -------------------------------------------------------------
…Per
il protagonista Seok-wu, detestabile workaholic del mondo
della finanza, l'apocalisse zombi diviene un processo di apprendimento, che lo
porta dalla massima espressione di una logica "cane-mangia-cane" al
suo opposto. Ma Romero non è l'unica
influenza che porta a Train to Busan: se il treno della disparità
sociale richiama infatti quello del più celebrato regista sudcoreano attuale,
ossia Snowpiercer di Bong Joon-ho, alla base
dell'incidente e del comportamento dei personaggi più negativi del film di Yeon
c'è il naufragio del traghetto Sewol, un disastro in cui hanno perso la vita
trecento persone e in cui i media hanno recitato un ruolo di tragica complicità
con le multinazionali responsabili.
Per Yeon la transizione dal cinema di animazione a quello live action si
rivela quindi un passaggio indolore, che gli permette di sostituire ciò che non
può più filmare per ragioni di budget con la capacità di sfruttare le intense
performance dei suoi attori. Su tutti spicca il personaggio del caratterista Ma
Dong-seok, quasi uno stereotipo del rozzo (ma di "buon cuore") uomo
del popolo, che diviene il protagonista morale della storia. Nonostante un
finale incolore e che avrebbe giovato di una maggiore sintesi, Train
to Busan resta un momento di divertimento e insieme di riflessione da
consigliare e non sottovalutare.
…Métaphore
grossière mais délectable de nos sociétés, le microsome appréhendé et mis à mal
par Yeon Sang-Ho se dessine comme un bestiaire du genre humain, entre lâcheté
et égocentrisme des uns, et l’héroïsme sacrificiel des autres. Si la finalité
de l’action n’a que peu d’importance – après tout les personnages cherchent
bêtement à sauver leur peau pour ne pas finir en pâtée à zombies – l’écho que
confère la réalisateur à la narration est quant à lui éclairant jusque dans la
caractérisation des mort-vivants dont l’aveuglement et l’agitation (digne de
poules fraichement égorgées) est une critique limpide d’un aveuglement
généralisé de la population sud-coréenne (et pas que).
Fort de son expérience du cinéma d’animation, Yeon
Sang-Ho pense habilement son découpage tout en travaillant avec soin l’hypothèse
sonore afin d’exacerber notre tension tout en ne cessant de nous surprendre. Il
dirige avec brio une brochette de comédiens dont le ponctuel surjeu est
impayable. Et bien que le film se morde quelque peu la queue dans sa
résolution, nous en demendons encore !
…Train To Busan es vibrante, una película donde la acción
te persigue sin tregua consiguiendo una primera hora que te deja sin aliento.
Si es verdad que en su segunda parte baja el listón-quizás demasiado- en lo que
acción se refiere y se centra mas en el drama social de esa gente que quiere
sobrevivir cueste lo que cueste. El fallo posiblemente del film es que es un
cambio de ritmo brutal entre una parte y otra, creo que tendría que estar
dosificado esos ritmos durante toda la película.
Train To Busan es un titulo para el entretenimiento que hará disfrutar a
-casi-todo los amantes de la acción pero a la que no le falta su crítica a una
sociedad cada vez mas egoísta.
…Il risultato
è una speciedi Snowpiercer più
casinista e con meno pretese, ma soprattutto è quel che sarebbe stato
bello trovare in World War Z:
un horror d'azione teso, divertente, sanguinario, appassionante, pieno di
piccole idee azzeccate nella messa in scena, senza alcun riguardo
nell'insozzare di sangue i sedili del treno, privo di pudore nell'uccidere i
suoi personaggi e comunque sempre attento a non perdere di vista quel che vuole
raccontare. Al centro di tutto c'è il dramma familiare di un padre in viaggio
con la figlioletta (e chiaramente, da neo padre di figlioletta, ci sono cascato
con tutti i piedi), ma si aggiungono diversi personaggi azzeccati e c'è un
giocare semplice, ma efficacissimo, sulla discriminazione sociale e su
quanto, nelle situazioni peggiori, la logica del gruppo possa spingere a tirare
fuori il fango nascosto nel cuore di chiunque. È un filmetto semplice,
riuscito, divertente, messo in scena come si deve, che per una buona metà della
sua durata non sbaglia un colpo e anche quando si lascia un po' andare
intrattiene con gusto fino alla fine, senza mai diventare cretino. Avercene.
…una
fábula de supervivencia, del nacimiento de un padre, de crecimiento personal
tanto para él como para su hija, de cómo un hombre comprende que su rol en la
sociedad es mucho más que el resultado de su trabajo, de reconocer en la
sonrisa de su hija que su vida nunca estuvo tan completa.
De fondo, la manada de zombies que atiborran la pantalla
durante todo el metraje no son más que el medio, la frontera que nos sumerge en
la ficción, pero que de manera críptica esconden todos los miedos y fantasmas
de Seok Woo, toda la infancia perdida lejos de su padre de Soo-an. Además, la
concepción y evolución de los infectados están muy lejos de las risas del
espectador, siendo estos capaces de generar un terror real que traspasa la
pantalla. El hecho de no profundizar en el origen del virus también es un gran
acierto y reafirma la intención del director a la hora de darle prioridad al
verdadero hilo narrativo. Pero ningún mensaje sería suficiente sin el trabajo
experto de efectos especiales, el gran tratamiento de la historia, la
conmovedora música incidental y el sobresaliente trabajo actoral, tanto de
protagónicos como de secundarios, en donde cada uno permite identificarnos con
su comportamiento y evaluar nuestra postura ante cada uno de los sucesos, donde
sin duda la pequeña Kim Soo-an se roba la pantalla.
‘Train to Busan’ demuestra que, aunque parezca una paradoja, el sub
género zombie no está muerto, sólo hacen falta buenas ideas y espectadores que
nunca dejen de creer.
…Le quasi
due ore della pellicola passano come un ruscello impetuoso ed in piena:
tensione sempre alta, scene di grandissima spettacolarità, il giusto pizzico di
ironia, una morale ben riscontrabile, buoni e cattivi scolpiti nella pietra
grazie ad una caratterizzazione che non lascia spazio all'ambiguità, qualche
sfumatura da melodramma, convergono nei canoni del più classico degli zombie
movies, facendo di Train to Busan un lavoro di genere solido, tecnicamente
inappuntabile con un cast di primo ordine…
Chiron è
un ragazzino timido e fifone e il branco non gli dà tregua.
Juan (uno straordinario Mahershala Ali, candidato all'Oscar) lo trova e lo protegge, lo tratta come il figlio che non ha avuto e come il bambino che avrebbe potuto essere.
Chiron non lo dimenticherà mai, e diventerà come lui, e non dimenticherà Kevin, l'amico di quando era bambino, e quindi per sempre, e si ricorda della madre, pessima madre, Chiron non dimentica.
Moonlight non è film di sesso, è solo su quella forma d'amore che riesce ad essere l'amicizia, e su come un bambino diventa uomo, in un ambiente difficile. un gran bel film - Ismaele
Buffo che Moonlight venga presentato come
la storia di un afroamericano gay cresciuto nei sobborghi di
Miami, perché se c'è una cosa che il regista Barry Jenkins evita accuratamente
è proprio la categorizzazione. Il protagonista Chiron fin da bambino si fa
delle domande riguardo al suo orientamento sessuale, domandandosi perché i suoi
amici lo chiamino "frocio", ma il suo amico e padre acquisito Juan lo
tranquillizza: non devi darti una risposta adesso, lo capirai quando sarà il
momento. Un insegnamento che Chiron interiorizza e si porta appresso fin
nell'età adulta.
Ma anche Chiron, come tutti, ha un disperato bisogno di
appartenenza, ed è qui che entra in gioco la sua identità "black",
dato incontrovertibile, immutabile e, a differenza dell'orientamento sessuale,
impossibile da occultare. Si trasforma così nel prototipo del suo persecutore:
un thug dal fisico immenso, dentatura d'oro posticcia e
mascolinità granitica, fiero della sua auto sportiva nella quale rimbombano i
bassi micidiali della musica rap. Soltanto chi lo ha conosciuto nell'età in cui
era più fragile può rendersi conto dell'assurdità di quel travestimento, e
metterlo di fronte al fatto che, nonostante i denti d'oro e quell'aria da re
della malavita, in fondo è rimasto quello di un tempo…
…gli obiettivi di Jenkins avrebbero avuto più forza se il suo film fosse alleggerito dall’ingenua attenzione all’elemento poetico, al simbolo manifesto, al quadro statico di rarefatta bellezza. La saturazione cromatica, la colonna sonora ridondante (anche se l’attimo con la voce di Caetano Veloso è di una forza disarmante) e l’onirismo ricercato sono elementi che tirano in ballo la lezione di Schnabel, (Prima che sia notte, per troppe ragioni, è un riferimento cinematografico fin troppo evidente) figura che, in diversi punti, arriva a essere anche ingombrante. Nonostante ciò, il tentativo di Jenkins ha dalla sua il coraggio di non frenarsi, lasciando, alla fine, totalmente libera la forza emotiva di un piccolo, semplice, racconto sentimentale.
…La parte finale della riconciliazione con sé stessi e con il mondo attraverso il primo amore – ma sarà stato amore? – sfuma il poetico in una scrittura orchestrata – ricattatoria – ad arte di retorica per farne parlare bene a tutti i costi. Un film straordinario quando si serve dell’ordinarietà per far leggere tra le righe l’universalità dei temi. Arrogante quando vuole essere straordinario a tutti i costi.
…Emotionally and thematically, Moonlight addresses
universal subjects: bullying, coming to grips with one’s sexual identity, and
navigating the treacherous waters of adolescence to emerge into adulthood. The
specifics of Chiron’s environment and culture may be foreign but Jenkins
identifies touchstones that are common across races, genders, and
socio-economic strata. The use of three episodes develops Chiron in ways that a
more traditional screenplay might not be able to do. If the story’s trajectory
seems familiar, that’s because Moonlight is grounded in
real, common occurrences. Its power comes not through surprising and unexpected
narrative developments but as a result of our identification with the
characters. That’s a rare and welcome thing for a movie to achieve.
…Dove
però Moonlight frana
senza possibilità di appello è nel terzo capitolo, che ci mostra l’inopinata
metamorfosi di Chiron da esile bambino e ragazzino introverso, almeno sino ad
una sacrosanta reazione in ambito scolastico, in palestrato spacciatore adulto
che ritrova il primo amore omosex della propria adolescenza. Sorvolando sulla
superficialità da soap opera con cui viene trattata la delicata tematica in un
microcosmo da strada dove mai lo status di omosessuale può e potrà essere
accettato, resta la spiacevole sensazione di un’opera capace solamente di
piangersi addosso a proposito dei cosiddetti percorsi di vita “obbligati”,
invece che fornire agli spettatori un solare esempio di resistenza umana alla
sofferenza della discriminazione.
…Lo
primero que me atrajo de la obra de Barry Jenkins fue
su sutileza a la hora de tratar sus temas. No estamos ante una obra
reivindicativa al uso, no pretende serlo en absoluto. En comparación con los
demás nominados a los Oscars como Figuras ocultas, la
temática afroamericana de la que aparentemente hace gala (al menos por el boca
a boca) queda relegada a mero contexto. Moonlight es
la historia de Sharonne, la cual nos es contada desde su infancia hasta su
madurez. La película abandera sus temas sociales sin pretensión
alguna; realmente, no se llegan a percibir como tales, sino que simplemente
enmarcan los límites de la obra. En cierto sentido, va más allá de
cualquier película del estilo, pues no proclama cual pancarta por los derechos
de los afroamericanos, sino que universaliza de tal manera su historia que
poner a un hombre blanco o uno de color no afectaría en absoluto a la historia,
de ahí su magia. No obvia en absoluto la precaria situación de los ghettosnorteamericanos
y el peligro de las drogas, pero no busca clamar al cielo por una mayor
justicia, sino que refleja la situación y enmarca sus acciones en ellas, lo
cual convierte esta película en una obra de una honestidad encomiable.
Lo mismo ocurre con el asunto homosexual. Moonlight asume la validez de esta inclinación y prefiere contar una preciosa historia de amor a través del tiempo
antes que una guerra social. En ese sentido, se acerca obras como La vida de Adèle y se aleja de Hollywood, más propenso a obras como Philadelphiao Mi nombre es Harvey Milk. Esto le aporta a la película
un carácter íntimo que, unido a su sinceridad, hacen de Moonlightuna obra
refrescante. De nuevo, no termina de desligarse del tema social. Jenkins liga
la homofobia al acoso escolar que sufre Sharonne durante su infancia y adolescencia, pero no son tanto un fin como un medio para
retratar los baches en la vida del protagonista, pues, como mencioné al
principio, esta película trata en última instancia sobre el proceso de crecer y
de alcanzar la madurez, conformar tu identidad, ya sea creandote falsos
escudos o sobreponiendote a la adversidad. No es rompedor ni mucho menos
novedoso, pero si que le otorga a la cinta ese toque especial que la hace destacable:
sinceridad, amor, intimidad… corazón…
…La tripartizione narrativa che Jenkins sceglie per
raccontarci la storia di Chiron convince ben poco: anzitutto i tre segmenti appaiono
troppo slegati tra loro e solo la bravura dei tre attori sembra essere
l'unico collante; inoltre il regista di affida troppo a stereotipi fin troppo
abusati come se raccontare la storia di un ragazzo di colore, probabilmente
gay, emarginato e con una madre drogata non fosse già sufficiente per cadere
nelle facili trappole narrative.
In certi momenti poi il film si ammanta di una poeticità
forzata, veicolata sempre da un formalismo stilistico che poco si compenetra
con una storia che vorrebbe essere una battaglia eterna tra il marciume e la
redenzione personale.
Dei tre segmenti di cui è composto il film, quello finale
incentrato sull'incontro tra il protagonista e Kevin, l'amico di un tempo che
girò lo sguardo di fronte al pestaggio subito da Chiron, è certamente, come
detto, il migliore: il riaffiorare di una amicizia che condusse i due
adolescenti ad esplorare la loro identità sessuale è per il protagonista
l'innesco per comprendere la sua inadeguatezza presente e , stavolta in modo
forte e spontaneo, la vena poetica sembra affiorare senza formalismi stilistici…
c'è una società di gente già con problemi per conto loro (e chi non ce ne ha, direbbe qualcuno), offrono servizi personali, fingono di essere un morto, fino a che il committente non elabora il lutto, pagando s'intende. l'aspetto inquietante è un altro, i lavoratori dell'impresa non solo si sostituiscono, rappresentano, fingono di essere qualcun'altro, ma si immedesimano, diventano quelle persone, carne, sangue e testa, al punto di non sapere più chi sono, se l'attore/attrice o il personaggio, come degli eteronimi che prendono possesso dell'attore/attrice, combattendosi per prevalere, e soffrendo. manca il sole della Grecia, e manca qualsiasi sorriso, siete avvisati. premetto che l'ho visto due volte, una volta sola non mi è bastata, confermo che è un film che merita - Ismaele
QUI il film completo in
greco, con sottotitoli in francese
…le
persone non hanno nomi propri, il gruppo Alpeis (un po’ come i figli che si
ritrovavano nei personaggi dei film americani ) decide di identificarsi con i
nomi dei rilievi che costituiscono la catena montuosa, questo è il primo
segnale di un’allarmante disidentificazione che ovviamente si mostra spettrale
e funerea con l’attività della “società” laddove la sostituzione fisica con i
deceduti porta i componenti della squadra, e in particolare l’infermiera, ad forse (e chi una frantumazione irreparabile del sé, una disgregazione identitaria generata
da una multi-proiezione personale che li rende tutti e al contempo nessuno, perdizione
in un dedalo a-cosciente dove il fine ultimo non è il denaro ma una sorta di
feticismo mosso da quella che altro non è che un’ostinata ricerca diesserequalcuno.
…Un pò ho capito cosa
mi affascina di Lanthimos. E' il suo tratto saramaghiano, quello di costruire
vicende al limite dell'assurdo (o che lo oltrepassano) vendendocele per dati di
fatto, verosimili, accettabili.
Ma quello che è davvero portentoso in questo cinema (tutto questo greco) è
la capacità di emozionarti senza toccarti il cuore. C'è uno stranissimo
sentimento puramente intellettivo, un disturbo che ti colpisce alla testa molto
prima che allo stomaco. La freddezza con la quale i fatti vengono narrati, questa
incredibile glacialità sono qualcosa di portentoso. E Lanthimnos in più riesce
a creare dei soggetti del tutto nuovi, geniali.
Qua si parla di una "società" di sole 4 persone che dietro
compenso "interpreta" il ruolo di persone morte, per far vivere alla
famiglia più gradualmente e senza stacchi netti l'elaborazione del lutto. Il
ruolo dell'"attore" è predominante…
…el autor conforma un film que puede recordar un
teatro, en el que los actores ensayan y reproducen una y otra vez diálogos
muchas veces bizarros, por lo absurdo del momento en el que se están
produciendo, pero totalmente eficaces dentro del contexto.Alpses un compendio de escenas en las que
los actores (reales y ficticios) deben disfrazarse para parecer otras personas
(no se nos escapa que la ropa de la enfermera es siempre la misma… su vida se
ha convertido en un papel tal que incluso nos hace pensar si su padre es,
realmente, su padre). Primero, observamos ese teatro desde la distancia, como
los espectadores que somos de una realidad inusual, que no estamos
comprendiendo. Más tarde, inconscientemente, nos vemos envueltos en esa
repetición, que nos atrapa. Finalmente, sufrimos junto a la enfermera su propio
y desesperado destino, en contraposición al de la gimnasta….
…Lanthimos,
che lo si ami o no (è tra i registi che suscitano più rigetti e repulsioni), è
autore dal segno forte, riconoscibile, con il suo andare ossessivamente in
cerca di distorsioni e pervertimenti dell’apparente normalità, del suo
sfaldarsi nell’ignominia e nello squallore, del suo nascondere istericamente
malesseri, patologie della mente, derive nella follia. Un Buñuel riadattato ai
disgraziati tempi nostri, alle nostre mediocrità e medietà, del quale condivide
un certo senso del grottesco e del paradosso, ma non la grazia, non la levità,
non il surrealismo beffardo, e nemmeno l’anarchica distruttività. Tutto è
pesante, lercio, caliginoso, irrimediabilmente condannato alla caduta in
Lanthimos, in un guardare al mondo di nichilistica disperazione. Con il
sovrappiù del racconto di una normalità che scivola nel suo esatto opposto
senza che quasi ce ne rendiamo conto, perché Lanthimos (con il suo fedele
sceneggiatore Efthymis Filippou) mette in scena minuziosamente e ossessivamente
microcosmi altri ma assolutamente coerenti e compatti, mondi a parte in cui lo
scostamento rispetto alla medietà fonda a sua volta un’altra e altrettanto
compatta medietà. Impassibile, il signore delle tenebre del cinema greco,
altera appena le coordinate in cui tutti ci troviamo a vivere creando distopie
però qui e ora, nostre contemporanee, come dietro la porta chiusa del nostro
tinello, piccoli universi paralleli dominati da (il)logiche ferree e regole a
loro modo coerenti benché spostate e sconnesse rispetto alle nostre. A
ricordarci come ci voglia poco, anzi niente, a far deragliare i comportamenti e
le relazioni tra singoli in una palude melmosa e letale…
…Il sospetto è che ci sia un compiacimento di troppo, una
pulsione che in altri tempi si sarebbe detta morbosa da parte del
regista-narratore-osservatore-testimone a affiondare lui stesso e pure noi
spettatori nella melma, ed è questo a prenderci alla gola, non diversamente da
quanto succede con la scuola viennese degli Haneke e Seidl, parenti solo più
nordici di questa nuova (ex nuova ormai) onda ellenica plumbea e nera da
esposizione a troppo sole.Eppure
Lanthimos ci ipnotizza, tascinandoci nel gorgo dei suoi disgraziati e
sgradevoli personaggi. Chi mai potrà provare un minimo di partecipazione per lo
sciagurato quartetto diAlps? Due uomini e due donne, in rigorosa simmetria di
genere…
Lanthimos
takes another abstract aspect of society to absurd extremes after he explored
separationism in Dogtooth. In this case, he is exploring the roles that people
play for others, and whether people, when they die, can be replaced by actors.
A group of people naming themselves after mountains in the Alps, provide such a
service, replacing dead people by acting out a collection of quirks and
mannerisms combined with specific phrases by which they are remembered. A nurse
replaces a dead teenage girl and acts out a scene where her parents catch her
with her boyfriend, or she replaces a wife and has to say something very cheesy
during cunnilingus. A gymnast submits to a cruel coach and praises him even
though he does nothing but threaten her, and they all pretend to be celebrities
in their spare time. Except it is all delivered cold, deadpan and without
emotion, making the whole thing even more absurd. Eventually though, a woman
starts falling apart and matters break down when she fails to deliver her lines
or does something 'wrong', whatever wong is in this context. Until the goals of
the movie click you may wonder if you got the right subtitles seeing as they
all talk in non-sequiturs. Then it is interesting for a while, but fails to
develop or deliver anything beyond the initial idea, making it a rather cold
and unrewarding, stretched-out, intellectual experiment (like a minor Haneke
movie)
nel 1970 Melvin Van Peebles gira questo piccolo
grande capolavoro.
un bianco, razzista come tutti i bianchi, stanco di
tutti quei neri che portano problemi, capofamiglia di una perfetta famiglia
bianca, una moglie e due bambini, si sveglia una mattina, è diventato nero.
e da qui il film, già buono, diventa straordinario.
l'attore protagonista, Godfrey Cambridge, è di una bravura enorme, gli
altri attori sono solo bravissimi.
il film è comico, si ride fino alle lacrime, e anche serissimo,
l'inversione delle parti è geniale.
insomma un film da non perdere, se ti vuoi bene - Ismaele
… "L'Uomo Caffelatte" non fa solo la morale, in modo simpatico
senza calcare la mano, all'uomo razzista, ma in alcune sequenze punta il dito
anche sulla società e sull'ipocrisia di essa. Quando il Jeff "negro"
corre per la prima volta con l'autobus, viene subito braccato dalla folla
perchè tutti sono convinti che abbia rubato qualcosa ("L'hai visto
rubare?" chiede un passante, "No, ma un negro che corre ha rubato
qualcosa per forza" risponde un altro); quando, invece, il
capo si accorge del cambiamento di Gerber, in lui vede solo l'opportunità di
avere un agente per un nuovo sbocco sul mercato nero.
Il film è davvero divertente e, anche se comincia a sentire un po' il peso
degli anni (ma mai troppo), è spassoso nelle trovate comiche e riesce
a non scivolare in quella facile e banale retorica
antirazzista, in cui Hollywood spesso eccede, che (per quanto giusta
possa essere) ad un pubblico mediamente intelligente risulterebbe stucchevole.
Significativa è la scelta dell'interprete protagonista Godfrey Cambridge,
attore nero, truccato da bianco nella prima parte (ribaltando la consuetudine
del vecchio cinema muto).
Poco conosciuta ma di notevole livello questa commedia che tratta con
arguzia un tema, quello del razzismo, che non cala mai di attualità. L'energia
del film sta tutta nella prova e nella mimica di Godfrey Cambridge ma anche chi
gli sta attorno lavora al meglio. Esilaranti ad esempio le disperate prove di "sbiancamento"
e le trattative con il comitato dei vicini per la vendita della casa. Un ottimo
esempio di sintesi tra immediatezza del racconto e riflessione profonda (anche
molto amara).
mentre in La La Land sembra che ci sia il sole anche quando è notte, in Manchester by the Sea il sole non c'è mai. Lee, il protagonista, è uno che parla poco, chiuso in un guscio oscuro. vive solo, è un factotum, aggiusta di tutto, alle dipendenze del proprietario di alcuni palazzi, a Boston. ritorna a Manchester, paesino della sua vita precedente, ritrova i fantasmi di prima. la sceneggiatura svela piano piano cosa era successo in quel paese, dove tutti si conoscono e si guardano in faccia, gente di un altro tempo, nel bene e nel male, prima di facebook. Lee riprende i contatti col nipote Patrick, devono stare molto insieme, e pensare al futuro. il loro è un rapporto spigoloso, e però si vogliono bene, provano a capirsi. insomma, è un film operaio, senza stelle ed effetti speciali. non si viene incontro ai gusti dello spettatore, tocca a chi guarda provare a entrare in contatto con la storia di Lee. un film che merita molto, buona visione - Ismaele
…È una maturità stilistica vera,
quella del nuovo Lonergan, tangibile in ogni scelta di dialogo, stacco di
montaggio, attacco musicale, e responsabile del respiro autentico e
contemporaneamente quasi letterario del film. D'altronde, la parola - la sua
insufficienza e la sua estrema, umanissima necessità- sono parte fondamentale
dell'impasto diManchester by
the sea. È il silenzio di Lee, nella prima parte, a costruire il suo
personaggio: un'assenza di espressione verbale che lascia il posto solo
episodicamente alla fuoriuscita di un turpiloquio che è furia repressa,
disperazione compressa sotto vuoto. La vicinanza col ragazzo, alla quale Lee
non può e non si vuole sottrarre, lo costringe a ritrovare lentamente la pratica
del dialogo, ad uscire dal proprio sepolcro ambulante per mettersi nuovamente
in relazione con qualcuno…
…La vertigine del dolore, l’abisso della perdita e
l’estenuante fatica di vivere nonostante tutto sono i grandi temi di un film
dalla scrittura chirurgica, di straordinarie performance e di emozioni vere,
non necessariamente tutte tristi. Si ride invece non poco inManchester by the Seae non ci si sorprende di meno per le
traiettorie di una delle migliori sceneggiature prodotte dal cinema indie da un
decennio a questa parte.
Dire quello che si può dire, che del resto è meglio
tacere: sembra facile ma Lonergan riesce là dove tanti inciampano, aprire uno
squarcio dentro il dolore e immediatamente dopo richiuderlo. Per capire senza
farsi inghiottire.
E poi andare avanti.
… Con l'intento di non perdersi nulla dei
propri personaggi ma, anzi, preoccupandosi di valorizzarne il potenziale umano
e drammaturgo, Lonergan colloca Lee e chi gli sta attorno all'interno di un
contesto ambientale e scenografico minimale, che non offre altre informazioni
(come il dettaglio del mare improvvisamente increspato o un cambio improvviso
di luce) che non siano riferibili allo stato d'animo del momento; e poi ne
potenzia la presenza scenica regalandogli un palcoscenico che gli consente di
essere assoluti protagonisti grazie a una tecnica di ripresa che, limitando
ampiezza e profondità di campo, e mantenendo la mdp all'altezza del soggetto
scenico, impedisce allo spettatore di trovare altri motivi di interesse che non
siano quelli indicati dalla volontà del regista. Un processo di sottrazione
che, da un canto, metteva l'opera al riparo dalla retorica insita nella
delicatezza dei temi trattati - il dolore, la perdita, il senso di colpa - e
che, dall'altro, rischiava di farla risultare bloccata e priva di slanci. A
evitare questo pericolo ci pensa soprattutto il montaggio di Jennifer Lame, che
altera la successione degli avvenimenti considerati non più nella loro
scansione cronologica ma secondo un tempo interiore e quindi emotivo,
corrispondente a quello di Lee/Affleck che di "Manchester by the
Sea", sono i veri e propri factotum del copione imbastito da Lonergan. Il
quale, memore della lezione dei vari Risi, Germi e Monicelli realizza un
melodramma struggente e appassionante che pur mantenendosi costantemente sulle
note della tragedia vissuta da Chandler trova modo di alleggerire la tensione
con momenti di ilarità che paradossalmente - ma non troppo - rendono ancora più
credibile il calvario del protagonista. Preceduto dairumorsche lo danno tra i favoriti
nella corsa ai prossimi Oscar, "Manchester by the Sea", per quanto ci
riguarda, ha già un vincitore nella persona di Casey Affleck che, abbonato ai
ruoli da perdente, tiene lontana la routine con una interpretazione sofferta e
trattenuta che lo impone ai vertici della sua categoria.
…Sulla
scia diPatersondi Jarmusch, prosegue questo
interessante filone del cinema statunitense distante volutamente dalle
retoriche hollywoodiane della Grande storia. Sono le piccole vicende a
informare questa America senza orizzonti né bussole. E’ la perdita di
orientamento che costringe certi registi a rifluire nello scandagliamento
dell’intimità. Può rivelarsi, questa sottrazione, un impedimento alla
comprensione della realtà. Eppure,Manchester
by the seasi ferma
un attimo prima dell’autocompiacimento. Aiutato, in questo, dalla notevole
recitazione di Casey Affleck (fratello del più noto Ben), già notato inInterstellar,ma senza lasciare particolare
ricordo. E invece, sorprendentemente, se il film rimane contenuto e, in qualche
modo, realistico, è proprio grazie alla recitazione di Affleck, fastidioso e
scostante, mai compiaciuto, e senza redenzione possibile. Non c’è serenità
possibile dopo la tragedia. Ciò non toglie che la vita può essere ripresa, con
una cicatrice in più. Questo il messaggio, che ci sentiamo di condividere.
No hay nada más reconfortante para el
espíritu que contemplar a un hombre hecho pedazos. Casi como observar el
crepitar del fuego en la chimenea desde la comodidad de nuestro sofá, la
tragedia ajena es, sin miedo a equivocarnos, probablemente el recurso, el tema
más socorrido en toda la producción artística de la Historia Universal. La
presencia del conflicto, de la tensión, es absolutamente indispensable en una
composición pictórica, literaria, musical o de cualquier otra disciplina, y
otorga al espectador/receptor la doble posibilidad de dejarse sorprender ante
resolución quizás inesperada, ya en el límite de la catarsis —efectividad
demostrada, por ejemplo, en las novelas bizantinas del siglo XVI—, o bien la
siempre agradable opción de erigirse juez de los hechos perpetrados por los
personajes, parapetado, eso sí, entre la tranquilidad de hallarse ante una mera
representación de un evento traumático o violento, desde donde saborear esa
confusa mezcla de empatía, morbo y curiosidad antropológica. Todos estos
procesos, claro, pasan prácticamente desapercibidos cuando nos enfrentamos por
vez primera a la Obra. Las dos o tres horas de duración de un filme nos ofrecen
la inmersión suficiente para postergar algún tiempo prudencial las
metarreflexiones pertinentes que, todo sea dicho, no llegan a ocurrírsele a
todo el mundo. Y, en un entorno como el actual, saturado hasta el límite de
contenidos snuff disfrazado de periodismo, pornografía informativa y
cataclismos sociopolíticos de proporciones bíblicas, ¿dónde pueden tanto el
espectador como el artista encontrar los elementos, la inspiración para la
obra? Por muy obvio que quizás pudiese sonar, el camino más corto entre dos
puntos no es en este caso una línea recta, sino más bien el trazado curvilíneo
de las narrativas minúsculas: la cotidianidad. ¿Es acaso tan revelador afirmar
que el secreto, de entre todas las herramientas de algunas de las mejores
películas de la década —L’avenir(Mia
Hansen-Løve), oPaterson(Jim Jarmusch)— radica en recorrer el
camino inverso al de la espectacularidad operística? La maquinaria
cinematográfica estadounidense arrastra la difícil ambigüedad ética de
preocuparse con una mano por firmar hiperbólicos excesos superheróicos,
mientras con la otra ofrece lo que a priori parecería una ristra de modestos
caprichos más bien alejados de la búsqueda del espectador medio, donde los
mismos actores cobran una fracción ridícula honorarios, casi a modo simbólico,
para dotar al producto final de un halo artesanal. Lo curioso es que, muy al
contrario de estas vagas estimaciones, el cine de dramas intimistas ha cobrado
un protagonismo progresivo…
… È sceneggiatore prima che regista,
Keneth Lonergan, e si vede. La sua messa in scena, al di là del fascino
naturale dell’ambientazione, delle stradine innevate che si alternano ai
malinconici paesaggi costieri, di una landscape che non chiede altro che di
essere registrata dalla sua macchina da presa, è all’insegna della sobrietà e
della trasparenza. Laddove può rinunciare al movimento di macchina, alla
ricerca dell’inquadratura accattivante, alle scorciatoie emotive, il regista
americano sceglie consapevolmente di farsi da parte. Lasciando gran parte del
compito a una scrittura di notevole spessore, e ai suoi altrettanto efficaci
interpreti. Se è vero che il timbro di recitazione di Casey Affleck può
risultare in molti casi respingente, qui il suo approccio al personaggio è
invero l’unico possibile: anch’esso all’insegna dell’understatement, delle
lacerazioni non esplicite ma avvertibili, sotto il monocorde tono di voce del
suo personaggio. Un carattere che trova l’ideale complemento in quello di un
Lucas Hedges che con esso dà vita a un complicato gioco di avvicinamenti e
respingimenti: gioco che certo non si esaurisce con i titoli di coda. Difendendo
rabbiosamente il legame con un emblema familiare (quello della barca) che
diviene ben più che il ricordo (seppur vivo e pulsante) di un affetto perduto…
è l'ultimo film di Andrzej Wajda, un film che più polacco non
si può.
biografia di un pezzo della vita di Lech Walesa, e di chi gli
stava intorno, operai disposti a combattere per i diritti di tutti, una
polizia da cui quelli di Bolzaneto hanno tratto insegnamenti, o viceversa,
sembra siano andati tutti alla stessa scuola di polizia.
poteva essere un film agiografico, ma Wajda era uno come si deve,
e fa film che sono cinema, non commissioni per qualcuno.
Walesaè un film con operai, cosa rara al cinema,
e Walesa è anche uno dei pochi presidenti operai (mi viene in mente Lula
soltanto, adesso).
le musiche originali del film sono tutte polacche (quii titoli di tutte le canzoni, qui alcune
canzoni), ma se sei distratto un attimo ti sembra di
vedere scene di lotta operaia inglese, con musiche rock e punk che le
accompagnano, valore aggiunto al film.
un film che merita molto,
come tutti i film di Andrzej Wajda - Ismaele
…Il regista Andrzei Wajda nella sua lunga
carriera ci ha raccontato la storia polacca attraverso figure piccole ma
emblematiche di un'opposizione crescente ("L'uomo di marmo", 1977, e
"L'uomo di ferro", 1981). Qui arriva finalmente alla chiusura di un
cerchio col passato. A battere sull'incudine solo un ritratto si abbatte
inevitabilmente per compiere questo affresco di individui e Storia: quello
dell' "uomo della speranza". Un individuo che si vota al "Non voglio, ma
devo", a un testardo imperativo categorico di coscienza e, appunto,
solidarietà, e trova in se stesso radici più grandi di lui: il Walesa del
popolo paradossalmente scopre un carisma debordante, quasi arrogante, e qui
comincia a spegnersi l'uomo privato rispetto alla persona pubblica. Ironicamente,
suggerisce Wadja, saranno i baffi a renderlo popolare, un quid che si oppone
immediatamente all'icona-Stalin, al suo rappresentare rigidità e
oppressione.
Se fin qui il punto di vista sembra persino
trionfalistico, sono in realtà le performance di Robert Wieckiewicz (Walesa
appunto) e Agnieszka Grochowska (la moglie) a dare evidenza alle sfumature, dai
toni più ironici a quelli più drammatici, totalmente al servizio della storia e
qui della Storia. Ma il crescete squilibrio tra vicenda del singolo e
aspirazioni di una nazione - fil rouge dell'opera di Wajda - si consuma
nell'alternarsi fluido e incessante di girato e filmati d'archivio, e in un
racconto anti-romantico, proprio perchè sempre più universale.
…Nel 2013, a 87 anni, finalmente il
regista gira questo biopic che si propone come primo obiettivo di ripercorrere
fedelmente il tragitto dell’elettricista che fondò Solidarnosc, prese il Nobel,
divenne poi presidente di un paese ormai post-comunista, e che lo fa, come
sempre nel suo cinema, con una partecipazione che, se sfiora qualche
volta la celebrazione, mai ci cade dentro. Perché Wajda, scomparso pochi giorni
fa a novant’anni, è autore vero che piega le storie che racconta a se stesso,
alla sua sensibilità e perfino ai suoi demoni, e non viceversa. Anche se Walesa è un prodotto tardo, quando la sua
migliore stagione, quella degli anni Sessanta e Settanta era ormai lontana,
resta un film rispettabile, robusto…
…Wałęsa è stato un formidabile
capopopolo, politicamente furbo ma anche molto saggio. Risulta ancor oggi
sorprendente la sua ostinazione nel rifiutare sempre la violenza e sfuggire a
qualsiasi provocazione (il massacro degli operai durante le manifestazioni a
Danzica nel 1970 fu una dolorosa ferita e una lezione sempre presente in lui e
nei suoi compagni) e, soprattutto, la costante fiducia nel dialogo, nella
possibilità (anche quando, come dopo il colpo di stato, ad opera del
recentemente scomparso generale Jaruzelski, tutto sembrava irrimediabilmente
perduto) di trovare un compromesso accettabile per tutti. Wałęsa, come si vede
bene anche nel film, fu uno che subì violenze fisiche, umiliazioni e ricatti
(Wajda non tace nemmeno sul controverso episodio di quando, agli inizi,
richiuso per l’ennesima volta in prigione, Wałęsa accettò di firmare un foglio
che lo chiamava a collaborare con la polizia), ma mantenne sempre la schiena
dritta, aiutato da una solida fede religiosa e dall’ostinata convinzione che,
avendo ragione, prima o poi lui e i suoi operai avrebbero vinto. Spicca nel
film la forte figura di sua moglie Danuta, madre di sei figli, disperata per la
loro situazione economica e famigliare, ma sempre accanto a lui, anche quando
non lo capiva…
…Non c’è mitologia o esaltazione, anzi, l’idea di
costruire la storia partendo dalla famosa intervista di Oriana Fallaci a Walesa
è originale per la struttura scenica. L’intervista della giornalista italiana è
del 1981. È un anno intermedio, perché i primi scioperi di Solidarnosc sono del
1970, mentre la caduta del regime comunista avverrà alla fine degli anni
ottanta. Perciò il film intreccia la brillante l’intervista con flash back e
flash fordward. Il colloquio fra i due ha una funzione di determinare il
carattere umano del sindacalista. È un carattere aggressivo, ama le donne – e
la Fallaci è una bella donna – ma non vuole essere da loro sottomesso. Della
Fallaci giornalista sappiamo tutto, non è certo donna da aver paura, come
quando si tolse lo chador di fronte a Khomeini. Con Walesa ci sono scintille,
perché la scrittrice fiorentina lo scorge come pieno di se, incolto, parla con
libertà senza una struttura predefinita. Però si accorge del carisma dell’uomo.
Nei flash c’è tutta la storia del sindacato. Dai primi arresti durante gli
scioperi, all’ascesa in Solidarnosc, alla prigionia per undici mesi nel sud
della Polonia, alla vittoria del premio Nobel per la pace, all’accettazione del
governo delle richieste sindacali. L’abilità del regista è nell’individuare le
finalità, di puntare su Walesa anche attraverso il ritratto della moglie.
Docile ma determinata, mentre Walesa correva i rischi, la donna lo riportava ai
propri doveri familiari. Wajda ripete in vari momenti la stessa identica scena:
quando pensa di correre dei rischi e quindi di non poter tornare a casa, perché
in prigione o peggio, Lech consegna alla moglie il suo orologio e la fede,
perché possano venderli per mangiare. Raccontare venti anni di storia in due
ore bisogna correre abbastanza, dunque il film è sintetico con alcune scene
degne del maestro polacco…
un film schizofrenico, la prima parte è un bel film, c'è una storia, un intreccio, sparatorie, corse, interessante, poi nella seconda parte diventa un casino, sparatorie, corse e basta. fermarsi a metà film non sarebbe male, ma purtroppo è andata. un bel giudizio sommato a uno cattivo è quello di un film che si può vedere, non di più. peccato - Ismaele
Peccato che 2009 Lost Memories ceda ben presto il passo al
fracasso degli effetti speciali, al revanscismo razziale più scontato, alla
logica dell'eccesso - dove la volontà di stupire si trasforma in stordimento
dei sensi. Man mano che la storia procede, buchi di sceneggiatura e incoerenze
di ogni sorta si alternano con costanza allarmante; d'accordo che il cinema
coreano è in forte ascesa, d'accordo che i consensi internazionali iniziano a
fioccare, d'accordo anche che di conseguenza gli investimenti aumentano,
permettendo produzioni più accurate e prestigiose. Ma il circolo virtuoso non è
scontato continui in eterno, se l'industria cinematografica coreana inizierà a
livellarsi al peggior popcorn cinema americano, sfornando pellicole di tale
mastodontica fragilità. E se nessuno discute l'impegno profuso, l'elevata resa
tecnica, la bravura degli attori e persino l'atmosfera di attesa e curiosità
creata con le prime sequenze, pure tutto è irrimediabilmente vanificato dal
poco coraggio e dalla latitante fantasia dimostrati.
In un futuro alternativo, il Giappone, vincitore della 2a guerra
mondiale come alleato USA, si è annesso stabilmente la Corea. Un gruppo di
patrioti coreani lotta per rimettere il corso della storia sul binario
"giusto". Spunto affascinante, svolgimento palloso sottolineato da
musiche tronfie, con punte di considerevole cretineria, pervaso da uno spirito
di esaltazione nazionalista che appare insensato se si pensa agli avvenimenti
dell'ultimo secolo. Una boiata pazzesca di estenuante durata, il peggio
dell'action manierato all'orientale.
Troppe sparatorie lunghe e inutili per tutto il
film. Troppi dialoghi, lunghi e inutili. Peccato, poteva anche essere bello.
Girato un po' così, idea di base ottima, ma si perde proprio nelle scene
d'azione e soprattutto nei dialoghi noiosissimi. Nemmeno gli attori li vedo
calati nella parte. Il film è noioso, c'è poco da fare. Un velo pietoso sul doppiaggio vabè.
…il regista non vuol fare solo un prodotto commerciale
e non si risparmia tocchi d'autore con compiaciute lentezze,anche se si
ha l'impressione che mette troppa carne sul fuoco,ma ha il pregio di
coinvolgerti,anche con l'esasperazione della vicenda. Poi certo si avvertono alcune lungaggini e di
inquadrature che il regista si è innamorato e le ha lasciate,ma il
soggetto,che ha come riferimenti che si ispira sono Philip K. Dick e il
"Terminator" di James Cameron e con questo si appropria di uno
dei concetti più affascinanti della fantascienza, quello della realtà
alternativa,e lo fa senza essere mai scontato e con una riflessione
sociale senza cadere in moralismi,il che era facile perché se era Americano
sicuramente succedeva…
Imagine a past where Japan, with the aid of the United States, won World War II, proudly leading an empire in Far East Asia. Imagine a past without Hiroshima or Nagasaki. Imagine a near future where the Japanese Empire rules an undivided Korea as a protectorate. In their own country, ethnic Koreans live as single-class citizens, actively discriminated against by the Japanese living in Korea. Some Koreans have fully assimilated and adopted Japanese names and customs. Others have become fierce, uncompromising nationalists, willing to sacrifice their lives for an abstract ideal, a free, unified Korea…