Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
sabato 31 dicembre 2016
venerdì 30 dicembre 2016
giovedì 29 dicembre 2016
21 Jump Street - Phil Lord, Chris Miller
Jonah Hill e
Channing Tatum sono una coppia di poliziotti che sembrano usciti dagli avanzi di una scuola di polizia di serie B, e attraverso una serie di avventure rocambolesche riescono a risolvere un caso importante.
ironia, autoironia, citazioni e un cameo finale inatteso trasformano il film, che poteva essere una cagata pazzesca, in una simpatica sorpresa, merito dei due attori e di una sceneggiatura folle e misurata insieme.
se vi capita, potrà, a sorpresa, non dispiacervi e vi farà fare qualche sana risata - Ismaele
ps: mi accorgo adesso che la Molly del film tre anni dopo sara la mamma di Jack in Room.
ironia, autoironia, citazioni e un cameo finale inatteso trasformano il film, che poteva essere una cagata pazzesca, in una simpatica sorpresa, merito dei due attori e di una sceneggiatura folle e misurata insieme.
se vi capita, potrà, a sorpresa, non dispiacervi e vi farà fare qualche sana risata - Ismaele
ps: mi accorgo adesso che la Molly del film tre anni dopo sara la mamma di Jack in Room.
..."21 Jump Street" ha
diversi, semplici pregi, riassumibili in tre punti.
Primo: la sceneggiatura di Michael Bacall (co-sceneggiatore del geniale Scott Pilgrim vs. the World) raccoglie, a ritmo serrato, il meglio dei clichè da tutti i generi comici. Il soggetto, scritto insieme a Jonah Hill, è sviluppato con freschezza, virtuosismo e un ritmo forsennato. Le battute e le trovate si avvicendano piacevolmente, una dopo l'altra, tra humor nero, slapstick e surreale understatement. Ed è bello ritrovare in una grande produzione hollywoodiana un nonsense gustoso e scorretto che evita sapientemente il pecoreccio alla American Pie.
Secondo: fondamentale per la riuscita è l'affiatamento dei due protagonisti. Se già conoscevamo le abilità di Jonah Hill, non possiamo non notare la destrezza di un inedito Channing Tatum che, gigione al punto giusto, esegue la sua partitura con una dose ammirevole di autoironia.
Terzo: i due registi portano a casa un finale (momento sempre critico per film di questo genere) abbastanza spassoso che, tra tanti rimandi al cinema action mainstream, vede pure l'improvvisa entrata in scena di una star indirettamente, ma inevitabilmente coinvolta nel progetto.
Insomma, "21 Jump Street" è un buon prodotto
d'intrattenimento, confezionato col mestiere di chi conosce i tempi e
le dinamiche del cinema comico come le proprie tasche.
Primo: la sceneggiatura di Michael Bacall (co-sceneggiatore del geniale Scott Pilgrim vs. the World) raccoglie, a ritmo serrato, il meglio dei clichè da tutti i generi comici. Il soggetto, scritto insieme a Jonah Hill, è sviluppato con freschezza, virtuosismo e un ritmo forsennato. Le battute e le trovate si avvicendano piacevolmente, una dopo l'altra, tra humor nero, slapstick e surreale understatement. Ed è bello ritrovare in una grande produzione hollywoodiana un nonsense gustoso e scorretto che evita sapientemente il pecoreccio alla American Pie.
Secondo: fondamentale per la riuscita è l'affiatamento dei due protagonisti. Se già conoscevamo le abilità di Jonah Hill, non possiamo non notare la destrezza di un inedito Channing Tatum che, gigione al punto giusto, esegue la sua partitura con una dose ammirevole di autoironia.
Terzo: i due registi portano a casa un finale (momento sempre critico per film di questo genere) abbastanza spassoso che, tra tanti rimandi al cinema action mainstream, vede pure l'improvvisa entrata in scena di una star indirettamente, ma inevitabilmente coinvolta nel progetto.
mercoledì 28 dicembre 2016
lunedì 26 dicembre 2016
venerdì 23 dicembre 2016
Captain fantastic – Matt Ross
George MacKay (Bo, il figlio grande), lo conoscevo, non
ricordavo dove, piccola ricerca, l'ho visto dentro Pride,
e poi Frank Langella, che bravo, e Viggo Mortensen è davvero bravissimo, come
sempre.
Captain
fantastic è una bella sorpresa, una storia molto statiunitense, molto Henry David Thoreau.
il film contiene tante cose, come la libertà, l'educazione,
la natura, la famiglia, la frontiera, la civiltà, l'economia, il cibo, il
lavoro, l'amore, i compromessi, la testardaggine, la morte, il pentimento, la
volontà, la malattia, tra l'altro.
alla fine è proprio un bel viaggio, saliteci anche voi, su quel pullman -
Ismaele
… La realtà - per quanto orribile, contaminata, misera
sia - non va evitata bensì affrontata. A modo proprio.
E comunque, un film che celebra così apertamente Noam Chomsky (mica male l'idea di festeggiarne i natali al posto di qualche mitologica figura fantasy) non può essere sbagliato.
E comunque, un film che celebra così apertamente Noam Chomsky (mica male l'idea di festeggiarne i natali al posto di qualche mitologica figura fantasy) non può essere sbagliato.
… parlando del cast , Viggo
Mortensen secondo me a dato la miglior prova della carriera si è calato
nella parte in una maniera davvero intensa e sincera , e non vorrei
portare un po di iella al buon Tom Hanks ma se non sarà lui a vincere
quest'anno agli Accademy Awards , Mortensen è quello che lo può far davvero
spaventare , come del resto è stato l'anno scorso dove DiCaprio vinse a
discapito di Cranston "quello secondo me fu un oscar più social che
altro , visto che Leo lo vnse praticamente dopo la prima messa in grande
schermo" , ma io sinceramente sarei contatissimo se quest'anno
premiassero Viggo che ha saputo dare un qualcosa di magnifico a
questo film , scusate il gioco di parole ma è stato davvero Fantastico ,
le sue emozioni si sono trasmesse intensamente e con una potenza tale che non vedevo
da molto ma moltissimo tempo , le sue espressioni di rabbia , la disperazione
per aver capito in una qualche modo di aver sbagliato qualcosa nel modo di
crescere i figli , la sincerità del suo sguardo mentre sogna la moglie , il
viso di sua moglie a occhi aperti e dove accarezza i suoi capelli rosso fuoco ,
ma anche la sua diciamo freddezza quando dice in faccia le cose alla
gente senza alcun freno si perchè per lui l'ipocrisia è uno dei maggiori mali ,
per finire Viggo Mortensen se non becchi quest'anno un premio , non
so cosa tu possa fare di più , sei stato grandissimo .
Eccezionale è risultato alla fine anche
l'intero cast e soprattutto il giovane George MacKay nel ruolo del
figlio maggiore , la sua prova non è stata da meno e per lui spero anche in un
qualche riconoscimento per la sua prova e bravura data in un ruolo difficile
come questo , anche perchè c'era il fondato rischio di essere inabissato da
Viggo , quindi dopo questo film credo che lo vedremo molto presto in un altro
film di rilievo magari come questo , ma mi sembra difficile eguagliare questo
lavoro di Ross .
Dopo gli attori un ruolo di dovuta importanza
per sostenere il tutto lo hanno avuto la sceneggiatura dello stesso Matt Ross e
una efficacissima colonna sonora che fino ad ora secondo me risulta la
migliore di quest'anno dopo quella di Cafè Society di Allen , colonna
sonora curata Alex Somers .
Mentre mi sono risultati allo stesso tempo
eccezionali le scenografie di quei boschi montani incontaminati dove Ben impartisce
lezioni di vita a i figli e la fotografia di Stèphane Fontaine , ed
il montaggio ? ma non scherziamo il montaggio è eccezionale anche quello .
Quindi non mi vorrei dilungare troppo con
questo mio pensiero , si perchè tutto quello che ho scritto mi è venuto in
mente all'istante e le dita non si sono mai fermate , visto tutto il contenuto
che questo film mi ha saputo dare , quindi non vorrei ingigantirlo ma per me
questo lavoro di Ross è il migliore del 2016 senza se e senza ma , un
film che ti fa apprezzare come sapere affrontare la vita anche in modi non
convenzionali , tutto è stato reso eccezionale nessuna sbavatura e nessun
passo falso nel raccontarci una storia quanto bella quanto amara per poi
regalarci di nuovo la gioia negli occhi , quindi il mio voto per Captain
Fantastic è assolutamente un 10 .
…È
accattivante e coinvolgente l’opera seconda di Matt Ross, un film che mostra
l’educazione ferrea di un padre-padrone, colui che alterna bastone e carota,
che si dimostra schietto e intransigente, ma anche empatico e amorevole. Captain Fantastic ha l’enorme pregio di mostrare
al pubblico l’intensa e brillante prova recitativa di Viggo Mortensen, che
guida un cast di ragazzi che sanno sopravvivere in una foresta solamente con un
coltello, esprimersi correttamente non avendo paura delle proprie idee, che
conoscono la filosofia, la fisica e altre religioni, ma che si trovano in
difficoltà nel momento in cui devono confrontarsi con la società. Perché la
loro educazione deriva dai libri, dalla conoscenza diretta di un fenomeno,
senza però averlo vissuto davvero. Il film si sofferma sulla delineazione
lucidamente freak di un padre hippy, che
festeggia il giorno di Noam Chomsky, rinnega il capitalismo e denigra il
cattolicesimo perché è una forma di controllo delle menti. Captain Fantastic provoca a più
riprese, mostra la riuscita di un’educazione familiare, ma, subito dopo,
sottolinea l’assurdità del comportamento patriarcale. E allora il regista
preferisce non prendere una convinta posizione, evidenziando le ragioni
dell’uno e dell’altro. Una scelta che si rivela un limite per la pellicola, in
cui si respira profondamente aria d’incompiutezza perché se è convincente
l’adeguato approfondimento dei dubbi dei due ragazzi (l’uno è stato accettato
da tutte le università migliori del paese, mentre l’altro nutre delle
perplessità sulle reali scelte della madre defunta), che vogliono confrontarsi
con il mondo per imparare a vivere (e non a sopravvivere), diversamente la
società fatica ad accettare questa famiglia disfunzionale a causa della sua
unicità.
Pellicola che trova terreno fertile nel
momento in cui la commozione può farsi spazio e sommarsi alla consapevolezza di
un padre che si chiede se ha agito con correttezza e nel bene dei propri figli, Captain Fantastic utilizza la famiglia per
affrontare il tema del libero arbitrio e della responsabilità sociale nei
confronti dell’individuo. Un film che non annoia e che pone delle interessanti
domande, ma che trova nell’accomodante compromesso una variazione che smentisce
lo spirito libero dell’intera operazione.
…sarà anche impossibile, è sbagliato che un padre possa far
vivere i suoi figli in un bosco, possa far maneggiare loro delle armi sin da
piccolissimi, li metta in pericolo continuamente facendogli scalare le rocce a
strapiombo, sarà sbagliato che non li mandi a scuola insieme agli altri
ragazzi, che li tenga lontani dal mondo rendendoli dei fenomeni da baraccone in
qualsiasi situazione sociale dovessero trovarsi, ma se è lo stesso padre che ti
insegna a leggere e lo fa in modo condiviso cosicché tutti insieme si legga di
notte davanti al fuoco, in silenzio, e a un certo punto si mette a suonare la
chitarra e tutti i figli, a uno a uno, si uniscono a lui, ognuno con uno
strumento diverso, che contribuisce a creare un’unica melodia, insieme; se è lo
stesso che inventa un nome solo per te, che avrai solo tu in tutto il mondo,
perché possa sentirti e sapere sempre che sei unico, lo stesso che quando hai
qualcosa da obiettare sulle sue regole ti dice “facciamo un discorso, e se con
le tue argomentazioni ci convincerai che quello che pensi è più valido allora
cambieremo la regola”; se è quello che ti dice che la parola “interessante” è
una parola che non va usata perché si allontana troppo da te e da quello che
senti o che pensi, che se devi parlare di un libro che hai letto ti chiede di
non parlargli della trama ma di dirgli cosa ne pensi tu, come ti ha fatto
sentire, che non ti mente mai ma pensa che qualsiasi cosa possa essere spiegata
a un bambino se lo si considera un individuo mentale al suo pari, e allora
qualsiasi domanda merita una risposta sincera, sesso, morte, economia,
qualsiasi argomento può essere condiviso; e soprattutto se è lo stesso che dirà
a un figlio maschio che sta prendendo la sua strada:
“Quando fai sesso con una donna, sii gentile
e ascoltala
trattala con rispetto e dignità
anche se non la ami
Dì sempre la verità
Prendi sempre la strada maestra
Divora la vita
Ricerca il rischio, sii audace ma assaporala
La vita passa in fretta.
E non morire”
beh, parafrasando in modo speculare la frase pronunciata da
Viggo Mortensen alla fine del film, sarà anche un errore, ma è pur sempre un
bellissimo errore.
…Il sistema dell’educazione scolastica è uno degli snodi
più riusciti del film. Mentre il figlio più piccolo di Ben ha un’idea precisa e
soprattutto personale (i due genitori hanno sempre voluto che i figli si
forgiassero una loro idea su tutto) sull’importanza del Bill of Rights, i due
figli della sorella di di Leslie balbettano definizioni ridicole. Ma d’altra
parte le condizioni educative di Ben non prevedono sconti su nulla né
suggerimenti o aiuti esterni. E in un attimo il padre diventa una sorta di
dittatore e la fiaba si trasforma in un dramma.
“Parli sei lingue, eccelli in matematica e fisica…” urla
un arrabbiato Ben al figlio che vuole andare al College. “Non so niente. Sono
un fenomeno da baraccone. A meno che non sia scritto in un libro, io non so
niente di niente” è la replica di un figlio frustrato. Perché è nella messa in
pratica dell’Utopia nella società esterna all’isolamento dove è stata nutrita,
emerge la difficoltà di espanderla o anche solo di praticarla.
Interpretato in maniera impressionante da tutto il cast, Captain Fantastic nella sua
eccentricità è molto carismatico; e tutte incongruenze narrative che affiorano,
si superano leggendo questo film come una fiaba drammatica, con lo scopo
proprio delle favole che è far riflettere.
He aquí una de esas pequeñas películas nacidas para
encandilar, en perfecta comunión, a crítica y público. Esas de las que resulta
prácticamente imposible escapar a su poder de seducción y no caer rendidos a
sus pies, gracias a su desbordante combinación de frescura y emotividad. Los
galardones obtenidos por Captain Fantastic (2016) en Karlovy
(Premio del Público) o en la sección Un Certain Regard de Cannes –mejor
director para un Matt Ross que ha dado la campanada en su segunda incursión
tras 28 Hotel Rooms (2012)– han puesto en el punto de mira a
una cinta que sigue la tradición cinematográfica de familias disfuncionales
como las de Pequeña Miss Sunshine (Jonathan Dayton, Valerie
Faris, 2006) o La familia Bélier (Eric Lartigau, 2014), tan
excéntricas, imperfectas y cargadas de conflictos internos como, a la hora de
la verdad, unidas como las que más ante las adversidades y los más kamikazes
objetivos. Sin embargo, la propuesta que nos presenta Ross eleva el listón de la
ambición sobre otros ejercicios similares, poniendo sobre la mesa un buen
puñado de temas de reflexión y debate –no exentos de polémica a pesar del tono
amable del relato– a través de una fábula utópica con reminiscencias de El
señor de las moscas, de William Golding, que hace una abierta crítica a la
sociedad capitalista actual, al consumismo e, incluso, a las religiones
organizadas (con la cristiana como principal objetivo de sus dardos)…
giovedì 22 dicembre 2016
lunedì 19 dicembre 2016
Lui è tornato - David Wnendt
durante la visione del film mi sono venuti in mente L’onda, Michel
Moore, Günter Wallraff, e però questo è un'altra cosa.
scritto da sei sceneggiatori (tra cui Marco Kreuzpaintner , regista di Trade, grande film sconosciuto e sottovalutato) Lui è tornato inizia come un film quasi comico, ma col passare dei minuti diventa un film sui fantasmi di una nazione, si ride, tutti ridono, ma non Lui, e alla fine neanche noi.
un gran film, da non perdere - Ismaele
scritto da sei sceneggiatori (tra cui Marco Kreuzpaintner , regista di Trade, grande film sconosciuto e sottovalutato) Lui è tornato inizia come un film quasi comico, ma col passare dei minuti diventa un film sui fantasmi di una nazione, si ride, tutti ridono, ma non Lui, e alla fine neanche noi.
un gran film, da non perdere - Ismaele
…Il messaggio
forse più importante di cui si fa portavoce questo film, lo troviamo in
conclusione, quando si trovano nella medesima stanza, Sawatzki, Hitler ed una
signora anziana ebrea, vissuta nell’epoca della Germania nazista, ella
ammonisce il giornalista ed attraverso lui lo spettatore: “Anche all’epoca
all’inizio ridevano di lui”! A sottolineare quanto possa essere facile per
un’ideologia, per quanto folle, prevalere, se sottovalutata. In
conclusione, a seguito di tale evento il giornalista indaga sul luogo in cui
Hitler è ricomparso e si rende conto di avere dinnanzi a lui non un attore ma
il vero dittatore nazista. Il finale dalla squisita sfumatura tragicomica porta
Zawatzki, in panico, a cercare di riportare quanto scoperto e proprio per
questa ragione verrà considerato pazzo e ricoverato.
Nel frattempo il
Führer, dopo aver finito di girare il suo film accrescendo ulteriormente la sua
popolarità, passeggia in macchina tra gesti di affetto e qualche gestaccio, per
rivolgersi poi allo spettatore affermando che proprio la tensione del mondo
contemporaneo, le problematiche a cui è spesso comodo e facile rispondere con
la violenza e l’egoismo, il populismo sempre più di moda e il razzismo,
rappresentino “un buon punto di partenza” per il nuovo Reich. Sta a noi, anche
attraverso la conservazione fondamentale della Memoria, che in tanti – in
troppi – cercano di trasformare in oblio, evitare che ideologie spinte
dall’odio possano prevalere, oggi come allora.
…Se dovessi descrivervi il film in una sola parola direi che è un film inquietante.
Vi cito una frase che dice un uomo che intervista Hitler per farvi
capire meglio " Gli africani che arrivano qui hanno un quoziente
intellettivo di 40 o 50 mentre il nostro è di almeno 80. Questo abbassa la
media del Paese". È inquietante come parla la gente
degli immigrati ("tutti questi turchi con la
barba dovrebbero tornare a casa loro,non li vogliamo qui" dice
un uomo), è inquietante quando un uomo dice che dovrebbero tornare ad esistere
i lager, quanta gente acclami Hitler e le sue idee, quanto questo Hitler
ricordi molti politici viventi e quello che dicono. E mi ha molto inquietato
quello che dice una anziana donna quando vede Hitler (un personaggio del
film,non una donna intervistata) "all'inizio anche noi ridevamo
di lui". Queste
parole mi ritornano spesso in mente e mi fanno molto riflettere. Buffoni, cosi
chiamiamo gente come Trump, gente buffa, divertente, idioti, diciamo che non
dobbiamo preoccuparci. Ridiamo di loro, delle loro gaffe, delle idiozie che
dicono."All'inizio anche noi ridevamo di
lui".
Un altra scena che mi ha davvero lasciato basito è quando troviamo
Hitler in un allevamento di cani perché vorrebbe comprare un pastore tedesco.
Hitler fa questo discorso sulla razza dicendo che quando un pastore tedesco e
un bassotto si accoppiano, nasce un pastore bassotto, poi da un pastore
bassotto e un altro pastore bassotto nasce un altro pastore bassotto e cosi la
razza del pastore tedesco sparisce, si estingue. Cosi succederà alla
nostra razza dice l'Hitler del film. E gli danno ragione. Ora capite perché
inquietante?...
… In “lui è
tornato” Hitler parla e fomenta l’odio razziale e la xenofobia in diretta
nazionale, ma l’unica cosa che mette in difficoltà la sua ascesa da “fenomeno
televisivo” è l’aver fatto del male ad un cucciolo, segno di come oggi fenomeni
sociali come l’animalismo si riducano a feticci borghesi in cui a confronto le
persone valgono meno di zero. Ad esempio, per parlare dell’ipocrisia di taluni
feticci, fece molto più scalpore quando tifosi del Feyenord scalfirono la
fontana della Barcaccia a piazza di Spagna, che quando quelli dello Sparta
Praga pisciarono su un mendicante. “Lui è tornato” dipinge i paradossi della
società, contraddizioni che non se ne sono mai andate: rappresenta in modo
ironico un Hitler che, nonostante tutto, non rimane nello spazio di comico in
cui lo si vorrebbe confinato, ma anzi dimostra come, dopo anni di retorica e
memoria storica intrise di pacificazione sociale, le idee reazionare trovino un
ruolo nient’affatto secondario nelle nostre società.
Le ultime scene
sono tutt’altro che banali e scontate, e la fine non delude in termini di
costruzione cinematografica, considerando che il film riprende anche
interessanti tecniche stilistiche che sembrano mediate sulla scia del
meta-teatro di Brecht: tramite efficienti trucchi narrativi lo spettatore
diventa un protagonista del film per poi ritrovarsi sputato fuori davanti a uno
schermo. E arriva a porsi un’annosa domanda… E se Hitler tornasse? Cosa farei?
Ma il pericolo è veramente un Hitler o la società stessa che produce il terreno
fertile e necessario perché un qualunque folle vestito da SS possa trovare
seguito predicando odio razziale e xenofobo?
Meglio di quanto mi aspettassi. Vale davvero la
pena vederlo, questo Lui è tornato, dove lui sta per Adolf Hitler. Una
commedia nera acuta, brillante, cattiva fino alla devastazione delle nostre
certezze, una commedia che non ha mica paura di darci dentro e di affondare la
lama della critica nella coscienza intorpidita della Germania di oggi, e non
solo della Germania. Magari un po’ troppo a tesi, troppo costruita e
programmata per allarmare e additare a noi tutti i possibili nuovi pericoli e i
nuovi spettri autoritari in agguato appena girato l’angolo. Con un finale più
da predichetta politicamente corretta, asfissiantemente corretta, che in linea
con il tono cinico, perfido e beffardo della narrazione fino a quel momento.
Tant’è che nel corso del film ti pare di intravedere dietro la macchina da
presa il fantasma di Billy Wilder…
… L’icona di Hitler, la sua irruzione sul
piano della nostra realtà, produce un processo di azzeramento della memoria
storica nella collettività a seguito del suo proprio medesimo “avvento”. Il
film mostra l’atto progressivo del processo di depotenziamento del tabù nelle
società di consumo. Tramite il “ready made”, il calco caricaturale denso di
significati e magnetismo simbolico del tiranno sterminatore viene
progressivamente a sbiadirsi e a perdere potenza, immerso com’è nel giogo
mediatico del suo stesso “successo”. Non inganni il finale e il suo maldestro
ripiegamento. Non c’è fiction in questa illimitata “mise en abyme”, ché
altrimenti dovremmo considerare il cornetto inzuppato nel cappuccino
dell’avventore come un non-fatto, un mero sogno di Nanni Loy.
E invece è tutto “vero” nell’epoca della riproducibilità dell’opera d’arte, per parafrasare Benjamin. Il legame con Hitler non può e non deve essere reciso, e la sua morte non può darsi se non tramite un paradossale processo di inversione che prevede la liberazione del tabù nel riferimento storico contestuale.
Nessuna legge può estirpare l’orrore. Hitler “muore” nella sua demistificazione, nel suo naturale processo di dissolvimento. La condanna viceversa cristallizza il tiranno, lo rende eterno, e finisce col realizzare il suo reale intento: la nuova mitizzazione. Questa la lezione che ho tratto dalla visione di questo film-esperimento, da vedere e rivedere più volte.
E invece è tutto “vero” nell’epoca della riproducibilità dell’opera d’arte, per parafrasare Benjamin. Il legame con Hitler non può e non deve essere reciso, e la sua morte non può darsi se non tramite un paradossale processo di inversione che prevede la liberazione del tabù nel riferimento storico contestuale.
Nessuna legge può estirpare l’orrore. Hitler “muore” nella sua demistificazione, nel suo naturale processo di dissolvimento. La condanna viceversa cristallizza il tiranno, lo rende eterno, e finisce col realizzare il suo reale intento: la nuova mitizzazione. Questa la lezione che ho tratto dalla visione di questo film-esperimento, da vedere e rivedere più volte.
…Las distribuidoras se lo deberían hacer mirar ¿No
estamos preparados para este tipo de humor o que pasa? Incomprensible que la
dejaran escapar. Estoy convencido que en España hubiera hecho una muy buena
taquilla.
En definitiva un 7/10 para esta atípica comedia que no
me voy a cansar de recomendar y que promete ser de culto.
Muy recomendable para todo tipo de público y aún más
recomendable a los que les guste el humor políticamente incorrecto de las
series de Ricky Garvais, Larry David, Louie...
Ha vuelto (2015) demuestra que los limites del
humor pueden ser sobrepasados y que encima arrasen la taquilla.
domenica 18 dicembre 2016
sabato 17 dicembre 2016
E' solo la fine del mondo - Xavier Dolan
i film di Xavier Dolan sono grandissimi, ormai lui è uno dei grandi del cinema.
i suoi film non ti lasciano mai indifferente, inizi a guardare e sei parte della storia, un osservatore che gioisce (alcune volte) o soffre (quasi sempre) con i suoi personaggi.
guardando il film mi è venuto in mente un libro di David Cooper del 1972, intitolato La morte della famiglia.
le famiglie di Dolan (e non solo), anche in questo film, sono campi di battaglia, dove i deboli devono cedere o fuggire, vivi o morti.
gli attori sono tutti straordinari, quella merda del fratello, quell'infelice della cognata, quella fuori di testa della madre, e Suzanne, la sorella che ha sempre avuto bisogno di Louis.
qualcuno di loro l'abbiamo incontrato tutti nella vita, e questo ci coinvolge oltre il dovuto, oltre il politically correct, e ci coinvolge senza trucchi, né ricatti.
tutti i film di Dolan oscillano fra il bellissimo e il capolavoro, e questo non fa eccezione.
i silenzi di Louis sono (stati) anche i nostri, certe volte, e lo sentiamo come un fratello.
è in poche sale, naturalmente, ma cercatelo, non ve ne pentirete, sono sicuro - Ismaele
i suoi film non ti lasciano mai indifferente, inizi a guardare e sei parte della storia, un osservatore che gioisce (alcune volte) o soffre (quasi sempre) con i suoi personaggi.
guardando il film mi è venuto in mente un libro di David Cooper del 1972, intitolato La morte della famiglia.
le famiglie di Dolan (e non solo), anche in questo film, sono campi di battaglia, dove i deboli devono cedere o fuggire, vivi o morti.
gli attori sono tutti straordinari, quella merda del fratello, quell'infelice della cognata, quella fuori di testa della madre, e Suzanne, la sorella che ha sempre avuto bisogno di Louis.
qualcuno di loro l'abbiamo incontrato tutti nella vita, e questo ci coinvolge oltre il dovuto, oltre il politically correct, e ci coinvolge senza trucchi, né ricatti.
tutti i film di Dolan oscillano fra il bellissimo e il capolavoro, e questo non fa eccezione.
i silenzi di Louis sono (stati) anche i nostri, certe volte, e lo sentiamo come un fratello.
è in poche sale, naturalmente, ma cercatelo, non ve ne pentirete, sono sicuro - Ismaele
…La musica è tutto (dai Blink 182 alle esuberanti sinfonie del compositore di
fiducia Gabriel Yared), i primi piani sono pura erotizzazione della recitazione (mai stucchevole però; come cavolo
fa???), il tempo del presente un incalzante concerto vissuto in prima fila
mentre i flashback nella mente del malaticcio Louis diventano uno struggente viaggio
nella memoria dove capisci che lui si è perso e dove senti che lui vorrebbe
tornare (il fratello lo portava sulle spalle; ora gli vuole spaccare la faccia).
La sorella lo rimprovera perché potevano essere anime gemelle. Il fratello è dilaniato dal complesso di inferiorità. La mamma cerca un equilibrio poetico nella saggezza politica.
La cognata (siamo noi) li guarda atterrita e forse… è l’unica che capisce che il ritornante è un morto che cammina.
Louis tace sempre.
Noi no: “È UN CAPOLAVORO“.
Urlandolo a squarciagola.
La sorella lo rimprovera perché potevano essere anime gemelle. Il fratello è dilaniato dal complesso di inferiorità. La mamma cerca un equilibrio poetico nella saggezza politica.
La cognata (siamo noi) li guarda atterrita e forse… è l’unica che capisce che il ritornante è un morto che cammina.
Louis tace sempre.
Noi no: “È UN CAPOLAVORO“.
Urlandolo a squarciagola.
…Il diritto di poter essere padroni,
per quanto possibile, della propria vita, di condividere la propria morte.
Parlare della propria morte come testimonianza della propria vita.
Il diritto di esprimersi.
Il diritto di poter riassaporare, rivedere e riascoltare i frammenti della propria vita, sparsi ma raccolti. Lontani, ma ancora raggiungibili. Fino al limite estremo.
Il diritto di rivangare non tanto il passato, quanto la memoria di quel passato.
Il desiderio di rivedere la “vecchia casa maltrattata dal tempo”. Ricordi di miseria e tempi duri, ma quando la vita passa davanti, tutta, sapere di aver vissuto in un posto che malgrado tutto è lì, meta e non solo punto di partenza, appartiene alla legge del desiderio di riconciliazione che sgorga.
Nella vecchia casa sono nati i sogni, e Louis avrebbe voluto accarezzarli per l'ultima volta.
Desiderio di riscoperta per chiudere degnamente il cerchio. Desiderio che la testa poggi di nuovo su quel materasso.
Parlare della propria morte come testimonianza della propria vita.
Il diritto di esprimersi.
Il diritto di poter riassaporare, rivedere e riascoltare i frammenti della propria vita, sparsi ma raccolti. Lontani, ma ancora raggiungibili. Fino al limite estremo.
Il diritto di rivangare non tanto il passato, quanto la memoria di quel passato.
Il desiderio di rivedere la “vecchia casa maltrattata dal tempo”. Ricordi di miseria e tempi duri, ma quando la vita passa davanti, tutta, sapere di aver vissuto in un posto che malgrado tutto è lì, meta e non solo punto di partenza, appartiene alla legge del desiderio di riconciliazione che sgorga.
Nella vecchia casa sono nati i sogni, e Louis avrebbe voluto accarezzarli per l'ultima volta.
Desiderio di riscoperta per chiudere degnamente il cerchio. Desiderio che la testa poggi di nuovo su quel materasso.
La vecchia
casa, non ha senso vederla: la brutalità della rinuncia.
Desiderio di avere la possibilità di pronunciarsi, di pronunciare la morte, per spezzare quel tabù condividendo la verità, nuda e semplice, eppur dolorosa, con la propria famiglia, con chi più di chiunque altro ha il diritto e il dovere di sapere e accogliere.
“Che cosa sei venuto a fare”, domanda ripetitiva come una interrogativa subdola. Non c'è tempo per porsi in ascolto per più di una manciata di secondi, si è perso il tempo dell'attesa, del mettere gli altri nelle condizioni di esprimersi secondo i loro tempi, le loro intenzioni, le loro necessità.
La pendola, il tempo scorre, quando sarà il momento giusto?
Le parole circostanziali per introdurre le parole “giuste”, quanta fatica. Scegliere il momento “giusto”, Louis ci ha provato, tre parole da dire e da rispondere, quelle essenziali, a volte quelle per rompere il ghiaccio dell'omertà.
La paura di parlare e di ascoltare, per contro, la paura di sentirsi dire che si muore, come se non lo sapessimo…
Desiderio di avere la possibilità di pronunciarsi, di pronunciare la morte, per spezzare quel tabù condividendo la verità, nuda e semplice, eppur dolorosa, con la propria famiglia, con chi più di chiunque altro ha il diritto e il dovere di sapere e accogliere.
“Che cosa sei venuto a fare”, domanda ripetitiva come una interrogativa subdola. Non c'è tempo per porsi in ascolto per più di una manciata di secondi, si è perso il tempo dell'attesa, del mettere gli altri nelle condizioni di esprimersi secondo i loro tempi, le loro intenzioni, le loro necessità.
La pendola, il tempo scorre, quando sarà il momento giusto?
Le parole circostanziali per introdurre le parole “giuste”, quanta fatica. Scegliere il momento “giusto”, Louis ci ha provato, tre parole da dire e da rispondere, quelle essenziali, a volte quelle per rompere il ghiaccio dell'omertà.
La paura di parlare e di ascoltare, per contro, la paura di sentirsi dire che si muore, come se non lo sapessimo…
…un tipo di cinema che non può che
dividere. Da amare o da odiare. Perché c’è chi non sopporta il concentrato di
narcisismo maniacale che Dolan propone coi suoi protagonisti, un narcisismo che
diventa sempre un concentrato di genialità, di malattia, di autocommiserazione
di chi non si sente mai abbastanza cresciuto o amato. Certo, possiamo vederlo
anche come pura messa in scena teatrale di rapporti conflittuali tra chi è
cresciuto negli anni fluidi di Moby. Ma Dolan, coi suoi già 27 anni, non ci
propone mai solo questo. Pretende di più dai suoi spettatori, dai suoi
personaggi e da se stesso che un bel drammone recitato da attori strepitosi
come Vincent Cassel, Léa Seydoux, Marion Cotillard. Nel ritorno a casa dopo 12
anni di assenza di un geniale autore teatrale malato, Gaspard Ulliel, che cerca
la forza di comunicare la sua imminente fine alla madre svalvolata, Nathalie
Baye, e ai fratelli, leggiamo anche una sorta di auto-messa-in-scena di Dolan e
delle proprie paure dopo tanti film di successo…
…"Juste la fin du monde" è un film che
necessiterebbe di più visioni per poterne cogliere e custodire le tante
sfumature. Alla delicata sensibilità con cui sono ritratti tutti i personaggi
(anche Antoine, alla fine, rivelerà una rimossa fragilità) si accompagnano le
sfumature delle scelte di messa in scena, che Dolan padroneggia sempre più
sicuro, lavorando meglio anche per sottrazione. Le stesse aperture musicali
sono più rare e rarefatte: i "momenti-videoclip" sono diversi, per
tono, rispetto ai film precedenti - abbondano le musiche in minore, e sulle
canzoni pop predominano brani strumentali e strumentazioni classiche.
Anche il tema delle ipocrisie che minacciano l'autenticità è risolto tramite sfumature: i contrasti tra i personaggi non subiscono ridimensionamenti, la trama è quasi bloccata in un'impasse. Se gli equilibri mutano lo fanno gradualmente, senza scossoni. Si procede per variazioni minime.
Tutt'altro che film minore e interlocutorio (come inteso da alcuni), "Juste la fin du monde" aggira il rischio della maniera personale facendo intravedere in quale direzione potrebbe evolvere il cinema di Dolan. Senza segnare radicali cambi di rotta: Dolan non rinnega le sue predilezioni stilistiche, ma le affina, e a livello tematico amplia, matura, approfondisce…
Anche il tema delle ipocrisie che minacciano l'autenticità è risolto tramite sfumature: i contrasti tra i personaggi non subiscono ridimensionamenti, la trama è quasi bloccata in un'impasse. Se gli equilibri mutano lo fanno gradualmente, senza scossoni. Si procede per variazioni minime.
Tutt'altro che film minore e interlocutorio (come inteso da alcuni), "Juste la fin du monde" aggira il rischio della maniera personale facendo intravedere in quale direzione potrebbe evolvere il cinema di Dolan. Senza segnare radicali cambi di rotta: Dolan non rinnega le sue predilezioni stilistiche, ma le affina, e a livello tematico amplia, matura, approfondisce…
…Al lavoro per la prima volta con attori noti, Dolan ne
isola i volti nell’inquadratura e riprende le loro reazioni, che si esprimono
in una struttura campo-controcampo claustrofobica e oppressiva. Questo permette
agli interpreti di costruire le emozioni dei personaggi sfruttando la
micromimica facciale, distribuendo nelle espressioni del volto il loro dissidio
interiore. I visi degli attori intrattengono un fraseggio mimico e verbale dal
ritmo musicale. Così Louis blocca i tratti in una maschera sommessa,
controbilanciata dalle reazioni ferine e incontrollate del fratello maggiore
Antoine (Vincent Cassel) che tratteggia la rabbia originando un universo
espressivo compresso, concentrato in una tensione oculare scandita al tempo
delle battute pronunciate. La Catherine di Marion Cotillard trasforma la
propria fragilità e indecisione di moglie remissiva in un balbettio che è
anzitutto mimico. Lea Seydoux attribuisce alla sorella Suzanne – che conosce
Louis solamente nei racconti familiari, era infatti una bambina quando il
fratello ha lasciato la famiglia – un’instabilità emotiva e un impeto espressi
in uno sguardo tagliente e disperato. Nathalie Baye dona alla madre un’aria
trasognata ed eccentrica, rivelata in un fiume verbale ininterrotto…
…Nelle parti più riuscite par di assistere a un girone
di dannati che si sbranano, si fanno del male fingendosi di amarsi. Ma
l’operazione resta sempre all’esterno dei personaggi e del testo. Dolan mostra
i muscoli facendoci capire quant’è bravo come metteur en scène, ma gli manca un
pensiero davvero forte, un progetto per organizzare la materia che si ritrova
tra le mani. Resta alla fin fine un ragazzino di talento, e sarebbe anche ora
che crescesse. Non è un disastro, Juste la fin du monde, nei momenti più alti è un huis-clos teso e
disturbante al punto giusto, folle e concitato. Dolan mantiene il suo rango
d’autore. Ma è un film-limite oltre cui dovrà reinventarsi e smetterla con
certe astuzie pop che l’han reso tanto amato tra giovani e fashionisti, e
rischiare di più, mettersi in gioco. Il punto di massima fragilità è il pessimo
Gaspard Ulliel, lamentoso e inespressivo, incapace di reggere un film che ruota
intorno a lui (Ulliel è pessimo anche in un altro film visto a Cannes 2016, La danseuse). Mentre gli altri son bravissimi, ovvio, avendo
Dolan chiamato a raccolta il meglio del cinema french-speaking: Vincent Cassel,
Marion Cotillard, Léa Seydoux, Nathalie Baye. Tutti formidabili. Con menzione
speciale per la Cotillard in un ruolo ingrato.
…Juste le fin
du monde è un film claustrofobico che gioca
con i sensi primari dello spettatore, senza riuscire mai a sbarcare nel
postmoderno, o in qualunque altra scelta artistica degna di nota. In contrasto
con chi afferma che certi altri film autoriali siano fin troppo concettuali, è
invece concettualissimo il nuovo film di Dolan (e anche tutto il suo cinema): è
un modo di girare che scava nelle idee e nelle trovate, praticamente un
campionario di immagini che cercano l’angolatura più curiosa, per la più
strampalata delle scene. Fuffa, fumo negli occhi. Ogni scena del film sembra
accontentare uno stato d’animo differente, tradendo l’unicità e l’univocità
ricercata del film stesso, come se potessimo vedere proprio lì, in mezzo alle
immagini, Dolan che sviscera tutto il materiale che gli viene in mente, e si
sfoga senza però mai lasciarsi andare. Ma Juste le fin du monde non è un film né sull’immaginazione,
né su un’eventuale schizofrenia emotiva (che porta in effetti Dolan a usare con
sfacciata noncuranza le musiche più disparate): quello che le immagini vogliono
dire (e si fanno intendere, perché spesso sono facili, schiette, dirette) è che
la vita è, se non per rari sprazzi sognanti, un lento avvicinarsi alla luce (il
finale). Ma, sorvolando sull’eventuale originalità dell’idea (e di tradurla in
un dramma familiare da camera), è davvero così affascinante una divisione così
netta delle parti? Un uso così simbolico e schematico delle scene e delle
sequenze si addice all’idea immersiva di un cinema che vuole a tutti i costi emozionare,
percuotere, destabilizzare con i suoi estremi opposti?...
venerdì 16 dicembre 2016
giovedì 15 dicembre 2016
mercoledì 14 dicembre 2016
martedì 13 dicembre 2016
lunedì 12 dicembre 2016
Agnus Dei - Anne Fontaine
una
storia da nascondere, e però è impossibile.
la madre
badessa del convento non riesce a risolvere a suo modo la questione, in ogni
istituzione totale c'è sempre qualcuno che tradisce la volontà dei superiori,
meno male.
attrici
bravissime, hanno già recitato in grandi film, polacchi e non solo (solo un
esempio, la madre badessa è stata la zia di Ida).
dopo Ida un altro grande film con suore, ambientato
in un convento polacco (da recuperare anche il grandissimo Madre Giovanna degli angeli, di Jerzy Kawalerowicz).
un bel
film che, naturalmente, non è facile trovare in sala, ma non vi deluderà,
promesso - Ismaele
ps: cercate solo di non sedervi davanti a una fila di spettatori che quando appare un bambino dice "un bambino!", quando c'è del sangue dice "c'è sangue!" (la fila intera, mica uno), e così via, pensando forse che tutti gli altri spettatori siano non vedenti,
Ci sono film che vedi, ti entrano sotto pelle e non ti lasciano
facilmente nonostante l’assenza di trame avvincenti, scene esplosive e
inquadrature traumatiche. Hai bisogno di metabolizzare e fare tuo un
ricordo che ti accompagnerà per un po’ di tempo. E, in
effetti, Agnus Dei (Les Innocents), il nuovo
lavoro di Anne Fontaine (Two Mothers) infine nei
nostri cinema, è proprio così: è una carezza. E’ una storia
drammatica narrata con poesia tanto nelle parole, sempre calibrate,
quanto nelle inquadrature, sempre gentili.
Eventi durissimi sono alla base dell’esperienza che sta per
vivere Mathilde (Lou de Laâge), il giovane medico francese che risponde alla
richiesta di aiuto di una suora. In un convento isolato la fine del secondo
conflitto mondiale ha portato l’orrore: i soldati russi si sono presi il loro
“premio”. Di quella tragedia non si vede alcun particolare. Le urla soffocate
che si odono provenire dalle piccole celle sono le conseguenze. Conseguenze in
grado di mettere in crisi qualunque donna, a maggior ragione se deve conciliare
la violenza subita con la propria vocazione…
Storie di donne e di sofferenze, di brutalità ed ingiustizie
ai danni di queste per opera di una società prettamente maschilista: in fondo
molto del cinema della valida cineasta Anne Fontaine (Gemma
Bovary la sua ultima e precedente prova) verte su quello, alternando abilmente
i toni del racconto, non sempre ed esclusivamente rappresentativi di un dramma
cupo e inserito in un contesto altamente drammatico come in questo caso…
L’assurdità presente nella realtà supera di gran lunga
l’immaginabile: Agnus Dei lo racconta
con il tocco poetico del cinema, in grado di far convogliare le arti.
Siamo nel 1945 in Polonia, nonostante la seconda
guerra mondiale sia terminata, ne restano strascichi di terrore e
violenza. Le cicatrici e i ricordi tremendi si accompagnano al terrore di una
violenza che sembra non trovare pace. Il conforto e la speranza hanno smarrito
la residenza, perfino la fede vacilla, perché non si trovano giustificazioni…
…Anne Fontaine, che da
sempre racconta storie di donne, supera questa volta la dimensione individuale
per approcciare quella collettiva, non solo perché s'immerge nella vita di
comunità del monastero, con la sua drammaturgia di caratteri differenti,
differenti motivazioni, paure e gerarchie, ma perché, sollevando il velo su una
prassi di guerra tanto atroce quanto purtroppo comune, parla di ciò che non può
essere ignorato da nessuno, nemmeno nel nome del pudore o della presunta
protezione (ed è questo concetto ad essere tradotto, nel film, nella vicenda
tragica della madre superiora).
Lo stile di regia sembra tener presente un'ampia destinazione del messaggio: la storia forte non si traduce mai in immagini forti, la vita della protagonista fuori dalle mura del convento è romanzata a fini narrativi (con qualche forzatura, va detto) e il film si chiude su una nota forse eccessivamente ottimista…
Lo stile di regia sembra tener presente un'ampia destinazione del messaggio: la storia forte non si traduce mai in immagini forti, la vita della protagonista fuori dalle mura del convento è romanzata a fini narrativi (con qualche forzatura, va detto) e il film si chiude su una nota forse eccessivamente ottimista…
…Il film si regge su una fotografia
incantevole, non certo ardita come quella di Ida (con quei tagli d’inquadratura
audacissimi): qui è più formale, ma comunque di grande impatto. La Champetier,
che la dirige, non ha bisogno di presentazioni (Holy motors, Uomini di Dio). Le
attrici sono bravissime; il volto di Suor Maria è un misto tra l’angelico e il
risoluto, poi la solita (Ida) Kulesza, imponente in quel film, autoritaria e
fondamentale perdente anche qui. Sulla protagonista avrei qualche riserva, come
volto, non certo come bravura. Colonna sonora al top con canto gregoriano
preponderante e la stupenda sovrapposizione monodica e melodica che possiamo
ascoltare nella veglia della sorella suicida. Da brividi.
La storia è una storia di guerra. E’ la
solita e spesso propagandistica storia dove quello che macroscopicamente resta
delle gesta degli eserciti “liberatori” è il loro eroismo. Lo sciame di
microscopiche ma diffuse nefandezze che si sono portati appresso diviene
taciuto o secondario e, tendenzialmente, non riempie i libri di storia; perché
la guerra è un vivaio di nefandezze: dei vinti e dei vincitori. La guerra è una
delle dannazioni dell’umanità tutta, incapace di trovare gli strumenti
alternativi per proporre delle idee o far valere i diritti di un popolo o di
una minoranza se non attraverso l’istigazione all’odio troppo spesso mascherato
da valori o ideali di facciata, ancora più spesso da meri interessi economici…
…Lontano dal promuovere l'arroccamento
maligno dei propri principi morali (il colpo di scena finale spiazza più dello
stesso antefatto, mostrando come la paura di compromettersi possa essere nociva
e come una regola seguita senza l'aiuto della riflessione mostri tutto il suo
lato maligno) il film mette in luce però l'importanza di uno sforzo di fede,
non necessariamente orientato verso la confessione religiosa, quanto verso il
ritrovamento di un orizzonte di valori che appare sempre più sbiadito e fragile
nella società occidentale contemporanea: la giovane Mathilde è un esempio
positivo di ciò.
L'opera è inoltre destinata a raccogliere consensi anche sotto diversi aspetti tecnici su cui spiccano la fotografia di Caroline Champetier, che contribuisce in maniera preminente a creare il clima di sofferenza e di instabilità che la pellicola evoca nelle sue tematiche, e il trittico di attrici protagoniste: Lou de Laage, Agata Buzek e Agata Kulesza ai cui volti la regia lascia spesso un compito principale nell'esternare emozioni e stati d'animo.
Peccato che a un certo punto il ritmo dell'azione inizi a peccare di pesantezza, adoperando una dilatazione dei tempi che difficilmente impedirà allo spettatore di arrivare alla conclusione senza concedersi qualche sbadiglio o qualche occhiata all'orologio.
L'opera è inoltre destinata a raccogliere consensi anche sotto diversi aspetti tecnici su cui spiccano la fotografia di Caroline Champetier, che contribuisce in maniera preminente a creare il clima di sofferenza e di instabilità che la pellicola evoca nelle sue tematiche, e il trittico di attrici protagoniste: Lou de Laage, Agata Buzek e Agata Kulesza ai cui volti la regia lascia spesso un compito principale nell'esternare emozioni e stati d'animo.
Peccato che a un certo punto il ritmo dell'azione inizi a peccare di pesantezza, adoperando una dilatazione dei tempi che difficilmente impedirà allo spettatore di arrivare alla conclusione senza concedersi qualche sbadiglio o qualche occhiata all'orologio.
…È quasi mirabile l’equilibrio in cui
riesce a tenersi Agnus Dei nel suo voler raccontare
la storia di un trauma senza traumatizzare, ritagliandosi momenti distensivi
quando occorre, concentrandosi sovente sul volto di porcellana e sugli occhioni
sgranati della sua protagonista. Si resta così in uno stato di sospensione, in
attesa di qualcosa che faccia fuoriuscire il film dagli schemi arcinoti di un
valido prodotto in costume sulla seconda guerra mondiale, quale in ogni caso Agnus Dei è, e non vi è dubbio che con la sua parabola
seriosa ed edificante, riuscirà a conquistare una buona fetta di pubblico. Quel
qualcosa di sorprendente ogni tanto fa capolino, va detto, come ad esempio
accade in quell’unica inquadratura che riesce a restituirci il senso del dramma
collettivo in cui versa la Polonia: quella in cui un gruppetto di bambini
saltella giocoso su una bara abbandonata di fronte all’ospedale. Si tratta però
di un brevissimo istante all’interno della durata del film, subito soffocato
dalla regista in un andamento narrativo che si limita ad alternare la presenza
della protagonista nell’ospedale francese con quella, via via sempre più
preponderante, nel convento.
Eppure qualcosa è davvero sfuggito al
controllo della Fontaine in Agnus Dei e questo
qualcosa è Vincent Macaigne. Esponente di spicco della commedia drammatica francese
contemporanea, con la sua fisicità nevrotica e i suoi ruoli perennemente in
bilico tra normalità e follia (si vedano i suoi exploit in La bataille de Solférino o in 2 automnes 3 hivers), Macaigne è qui una scheggia
impazzita solo parzialmente imbrigliata dal ruolo del medico-amante. Quel suo
monologare a tratti delirante – viene da pensare che le sue linee di dialogo
siano, almeno in parte, frutto di improvvisazione – fa di Samuel un personaggio
contraddittorio, imprevedibile, e proprio per questo umanissimo, molto più
della protagonista e delle sventurate sorelle. E in tal senso, il confronto con
l’interpretazione della collega Lou de Laâge è esemplare: da un lato abbiamo
lei che cammina in divisa nel chiostro del convento con le mani in tasca
e la faccia da dura, dall’altro abbiamo Macaigne che dà corpo al suo ruolo con
alte dosi di ironia, esagitazione e disincanto.
Sarebbe bello poter dire che la sola forza
della performance recitativa di Macaigne riesca a scardinare l’aulica
messinscena di questo dramma storico così imbrigliato nel suo calligrafismo, ma
naturalmente non è così. Noi pubblico “borghese” saremo scandalizzati in
un’altra occasione, o forse ci basterà leggere la sinossi del film per
percepire il giusto sdegno per la sua storia vera.
…L’approche
semble-t-elle simple qu’elle se révèle complexe. La lecture féministe est-elle
évidente qu’elle se développe en corolle. Car si la foi de Madeleine en son
pragmatisme est pour elle gage de liberté, la foi qu’elle découvre l’est
peut-être tout autant. Les mots des soeurs résonnent d’autant plus en elle
qu’ils se veulent rares et donc précieux. «Vingt-quatre heures de doutes, une
minute d’espérance » ; « derrière toute joie, il y a la
Croix »… Les dialogues se veulent d’autant plus percutent qu’ils
transcendent la personnalité et l’évolution des personnages. Enfin
l’universalité du propos se dessine tant à travers la situation
« mère » abordée – le viol comme arme de domination et de guerre –
qu’à travers les pluralité des portraits de femmes déterminées par leurs choix…
domenica 11 dicembre 2016
sabato 10 dicembre 2016
venerdì 9 dicembre 2016
giovedì 8 dicembre 2016
La stoffa dei sogni – Gianfranco Cabiddu
l'isola
dell'Asinara attira il cinema, pochi mesi fa Era
d'estate, adesso tocca al film di Cabiddu, un bellissimo fondale, come dice il
direttore del carcere.
Eduardo
incontra Shakespeare e appare una strana creatura, a metà fra la realtà e la
fiaba.
il film è
fatto della stoffa dei sogni, non è un film entusiasmante, non avvengono fatti
scioccanti, la tempesta iniziale è l'episodio più violento.
non
succedono troppe cose, il teatro e la vita vera si sfiorano, per un po' di
sovrappongono.
bravissimi
gli attori, straordinario il pastore unico abitante e quindi re dell'isola,
novello Calibano, già re in un altro film sardo (qui),
che si commuove e commuove quando nel teatro dove si recita La tempesta partecipa come sa.
buona visione, poche copie in giro, in un mare della distribuzione che è come quello della tempesta, chissà se arrivi in sala.
buona visione - Ismaele
…Se d'istinto la presenza di
due mostri sacri come Shakespeare e De Filippo poteva far pensare a un'operazione
squisitamente intellettuale, calcolata a priori - come capita in operazioni di
questo genere - per sfruttare i vantaggi derivati dalla reverenza che pubblico
e addetti ai lavori solitamente hanno quando si tratta di confrontarsi con un
simile cotè culturale, al contrario la visione del film smentisce questa
ipotesi: un po' perché il tono generale e in particolare quello adottato da
Rubini per incarnare il suo personaggio rasenta la pochade (soprattutto quando
si tratta di riprendere gli elementi più indisciplinati della sua compagnia),
un po' perché a Cabiddu riesce ciò che di solito risulta la cosa più difficile
da raggiungere che è quella di saper trasferire l'universalità dei classici, in
un contesto narrativo coerentemente autonomo - e la "La stoffa dei sogni
se lo crea in modo naturale - e con una forma cinematografica che avendo nel
suo dna profili come quelli dei nostri due campioni riesce a scongiurare il
pericolo di scadere nel cosiddetto "teatro filmato"; oppure di
ricalcare schemi ultra sfruttati come quello della sovrapposizione tra arte e
vita che le analogie tra i personaggi di finzione e quelli shakesperiani
potevano in qualche modo autorizzare…
…Il quarto protagonista in
scena è il più tragicomico in assoluto: il pastore sardo Antioco, un Calebano
arcaico che si esprime in una lingua comprensibile solo a se stesso, e ciò
nonostante cerca continuamente il contatto umano con i gli "invasori"
che hanno colonizzato la sua isola. In questo personaggio, magnificamente
interpretato da Fiorenzo Mattu, c'è tutto il dolore di Cabiddu per lo stupro
subìto dalla sua terra, e l'istante in cui la messinscena dà voce (in
napoletano, come in inglese o in sardo stretto) all'ingiustizia di quella
violazione è pura trasfigurazione teatrale…
Il film pecca di una eccessiva stravaganza, che rende le
vicende spesso irreali. Come il fatto che in una nave viaggino
contemporaneamente attori e persone scortate al carcere dell’isola
dell’Asinara, oppure che si parli ancora di capocomico e attori itineranti. A
ciò gli autori hanno rimediato spostando la vicenda nel dopoguerra, ma le
trovate restano comunque poco attuali. E infatti i dialoghi continui, che si
muovono in lunghe unità di luogo manifestano questa necessità di tessere il
rapporto tra i personaggi tramite le parole piuttosto che le azioni.
A parte questa inconciliabilità, la storia procede con grande
vivacità, quasi a raccontare che non si conosca bene chi sia a recitare e chi
sia a dire la verità. Come nella vita. È un film raro quello di Cabiddu, mosso
dalle onde dell’isola in cui è ambientato, senza timore della poca modernità…
…In un momento di crisi e di derealtà come quello che
stiamo vivendo, dove l’istinto della gente sta orientandosi decisamente verso
il teatro, e non c’è scuola, carcere, parrocchia, centro anziani, gruppo di
malati, che non lo pratichino, in cerca di un antidoto, di una qualche forma di
cura, un film come La stoffa dei sogni è un lusso che non
bisogna permettersi di perdere, non un film di nicchia, ma un film per tutti. E
c’è da augurarsi che le nostre orecchie, piene delle risate di commedie
divertenti che fotografano una realtà deprimente, o assordate dalle esplosioni
e dagli spari di film e serie televisive di successo – prodotti che danno
finalmente una boccata di ossigeno a un’industria cinematografica in crisi da
anni –, riescano ad ascoltare anche la musica sottile e senza tempo di questo
film sofisticato e semplice, impalpabile come la stoffa di cui sono fatti i
sogni.
,,,Cabiddu riesce a costruire un equilibrio ben modulato
tra i luoghi e la loro bellezza, la luce e il colore del mare, mai sfondo ma
sempre parte della narrazione che trovano voce nella figura di Calibano, il
pastore, e nella sua ostinazione a difenderli dalle invasioni straniere. E il
gioco degli attori, tutti sintonizzati con i loro ruoli, a cominciare da Sergio
Rubini, sempre coi toni giusti per il suo Oreste Campese, il capo comico che
chiede comunque rispetto per il suo mestiere. Che come questo film, al di là
dei suoi racconti, dei suoi intrighi e dei suoi equivoci esprime una
riflessione sul ruolo dell’arte e dell’artista, che è quello di essere nel
mondo ma insieme di rivelarne l’essenza come quando il telone cade e la trama
delle vite prende all’improvviso un’altra direzione.
E come il capocomico questo film rivendica la sua
libertà di invenzione, di non esser perimetrato dentro il sistema dominante
come quello stesso gusto «artigianale» con cui gli attori sull’isola fabbricano
il loro palcoscenico e cuciono i costumi.
La stoffa dei sogni è un’opera fuoriclasse che le sue
corrispondenze le fa affiorare nelle passioni del regista e non nelle mode o
nei format di mercato, il teatro, i suoi «maestri», ma anche (forse
soprattutto) l’immediatezza di un’improvvisazione che nasce da un lavoro lungo,
attento, dalla ricerca e da idee non scontate.
Senza trucchi che non siano invenzioni: un vecchio libro
con le illustrazioni della Tempesta, un continuo gioco come è essere in scena.
È questa anche la capacità di riguardare ai «maestri», di farne propri gli
insegnamenti senza cadere nella sola citazione o nella ripetizione di un
modello. C’è qualcosa di commuovente in questo sguardo ma soprattutto l’energia
di ricondurre dentro al teatro – e piú in genere all’immaginario – il mondo. Le
sue leggende, il passato e il presente.
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