mercoledì 4 settembre 2019

Zama - Lucrecia Martel

a metà strada fra Juaja, di Lisandro Alonso e Il deserto dei Tartari di Valerio Zurlini, in Zama vediamo lo schifo della colonizzazione, la corruzione e l’oppressione, la follia e la malattia, l’oppressione e la volontà di fuga, l’attesa e la disperazione.
gli indios sono le vittime della colonizzazione, e diventeranno dei miserabili, in balia dei padroni.
e poi la musica, sembra arrivare da un altro film, allenta la tensione, ma spiazza lo spettatore, scelta straniante ma efficace di Lucrecia Martel.
non è un film facile da seguire, non ci si distragga, e però lo sforzo e la concentrazione saranno ben ripagati, promesso - Ismaele



Film coloniale, cupo e lugubre, pervaso da un sentore di sfascio, disfacimento, malattia, sconfitta, morte. Un’implosione di anime e corpi là in una città-avamposto di fine Settecento che dovrebbe essere Asuncion, interno profondo di America spagnola dove perdono i loro giorni e il loro senno, e ogni speranza, funzionari e ufficiali della corona, le loro piccole corti di lacché, e la massa degli indios schiavizzati o liberati ma sempre in condizione servile. Fine Settecento, la madrepatria è lontana e matrigna, qui c’è solo l’abbandono, e l’ignoto, la tenebra al di là dei territori conquistati e detti civilizzati. Don Diego de Zama è un ufficiale che molto ha dato alla causa della Spagna, molto ha combattuto, ma ora è disilluso, stremato…
Zama è spossante e spiazzante, perfino repulsivo, di quei film che fan di tutto per non farsi voler bene e tenere a distanza chi guarda. Martel frantuma ogni coesione narrativa, procede quasi ansimando per blocchi quasi irrelati tra loro, e spesso di difficile decifrazione. Ambienti angusti, sozzi, sordidi in cui si affollano cenciosi e signori, schiavi e dame, ma la cupezza, il senso di oppressione è per tutti lo stesso. I corpi si ammassano, si confondono, la tecnica di ripresa li schiaccia quasi l’uno sull’altro togliendo il più possibile la profondità di campo, non c’è quasi mai un centro dell’inquadratura, spesso vediamo solo pezzi di corpi, una schiena nuda, braccia, una testa rovesciata, e intorno cenci e spesso animali…

…Quello di Zama è un Paraguay surreale, immaginario, ma frutto di una visione così chiara e specifica da risultare assolutamente indimenticabile. I colori pastello di costumi e scene, magnificamente composti in palette sublimi, basterebbero da soli a rendere Zama un’esperienza cinematografica indimenticabile; ma il delirio di onnipotenza di una Lucrecia Martel patologicamente perfezionista (come ben racconta il making of firmato da Manuel Abramovich, Años Luz, presentato anch’esso a Venezia 74) ci consegna una realtà parallela e sottilmente allucinata. Parrucche settecentesche mal calzate su capigliature corvine e scarmigliate, schiavi africani per metà abbigliati con vestiti dabbene e per metà nudi, lama che si aggirano all’interno delle stanze del potere riccamente arredate, una classe dirigente borghese che è più smarrita dei sudditi indigenti. Un continuo equilibrio di contrasti: il potere impotente, la colonizzazione in balia della colonia, le tradizioni europee e la cultura tribale; un equilibrio sempre vicino al crollo ma anche misurato e sempre lontano dagli eccessi, sussurrato, lasciato intendere.
L’attenzione al dettaglio di Lucrecia Martel sconfina nella follia, ma la sua pretesa di decidere i singoli battiti di ciglia (letteralmente) degli straordinari interpreti a sua disposizione o di comporre la scena decidendo anche che tipo di camminata debba avere un animale da fattoria sullo sfondo fa sì che il risultato sia di un’intensità e di un pittoricismo inarrivabile.
E poi c’è il geniale commento sonoro. La Martel, collaborando con Guido Berenblum, costruisce una colonna sonora meravigliosa e straniante, in cui le sognanti chitarre della musica caraibica descrivono con ironia quel paradiso non richiesto, alternandosi più volte a un’unica perturbante nota di synth con bending discendente, che accompagnata da un progressivo ovattamento dei suoni ambientali restituisce con disarmante efficacia lo smarrimento del protagonista…
…Lucrecia Martel se encarga de componer cada plano desde una belleza perturbadora. Cada uno de los fotogramas de Zama parece un lienzo en el que se ha detenido el trazo de la espera. La realizadora encuadra y rencuadra con elementos del espacio filmado (una ventana, una puerta) y, al mismo tiempo, en los primeros planos, las cabezas nunca se muestran por completo, siempre aparecen cortadas por su parte superior. Pequeños gestos como este desestabilizan el artefacto visual y se contraponen con la arrebatadora belleza del paisaje o con la elegante plasticidad de las tribus indígenas y sus ritos. Es en ese contraste en el que aflora el delirio de un viaje que nos recuerda al del Capitán Dinesen por la Patagonia en la excelente Jauja, de Lisandro Alonso. Cualquiera podría imaginarse como se cruzan los caminos de ambos en un lugar suspendido en la inmensidad del paisaje del continente sudamericano. De este modo, al igual que su compatriota, Martel consigue convertir Zama en la antipelícula de aventuras, en una oda a la ciega espera y a la confianza en que algo mejor pasará al día siguiente para terminar acumulando fracasos en el viaje hacia la inútil resignación. Y aun con todo, encontramos una pequeña redención para este mito que se derrumba ante nosotros. Cuando al final, el bueno de Don Diego hace por su archienemigo Vicuña lo que nadie quiso hacer por él: «decir, a sus esperanzas, no». Aunque puede que en ese momento ya sea demasiado tarde.
da qui

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