sabato 14 settembre 2019

Martin Eden – Pietro Marcello

Pietro Marcello riesce finalmente a girare un film che si può vedere in tante sale, col protagonista Luca Marinelli vincitore come miglior attore al Festival di Venezia.
si tratta di un film coraggioso, si attraversa mezzo secolo, ed è un film collettivo, Martin Eden dentro di sè è tante persone, come Stig Dagerman, e tanti altri "irregolari", come anche Martin Eden è.
Pietro Marcello è un regista di serie A, Bella e perduta era il primo film della mia classifica del 2015-2016 (lo potete vedere qui).
cercate Martin Eden e godetene tutti.
se, dopo aver visto il film, leggete il libro di Jack London e quelli di Stig Dagerman non restererete delusi, ci scommetto - Ismaele





Attenti al cane! – Stig Dagerman
“Certo è deplorevole
che gente che vive di sussidi si tenga poi un cane”
ha dichiarato un responsabile
della Previdenza Sociale
del Varmland
La legge ha i suoi difetti
I poveri han diritto di tenere un cane
Potrebbero tenere dei topi invece:
van bene anche loro e sono esentasse
Se ne stanno in anguste stanzette
coi loro costosi bastardi.
Perché non giocano con le mosche?
Non sono animali da compagnia?
E al Comune tocca pagare.
Bisogna farla finita
o c’è da temere
che si comprino delle balene
Una decisione va presa:
abbattere i cani! Non è una buona idea?
Il prossimo provvedimento. abbattere i poveri
Così il Comune risparmierà qualcosa.

Un regista coraggioso alla sua prima esperienza con un lungometraggio di due ore in cui c’è tutto: politica, lotte sindacali, filosofia, passione per la scrittura come mezzo per liberare l’anima, amore fraterno e amore con la A maiuscola, amicizia e solidarietà, ipocrisia e classismo.
Un Film che racconta un secolo intero capace di trasportare il sogno americano secondo cui a tutti è data la possibilità di emergere, basta volerlo intensamente, in una nazione in cui questo non è vero , attraversando il secolo presente attraverso un mix di scene recitate ed immagini di repertorio. Televisori da boom economico e abiti da primi Novecento, mercati e balere, una Napoli senza tempo con i suoi vicoli e i suoi popolani, truppe fasciste e emigrati sulla spiaggia, il tutto fa da sfondo alla storia che Jack London, convinto socialista, inventò tra il 1908 ed il 1909. Il libro è un attacco all’individualismo inteso come basato su convinzioni individualiste di stampo nietzschiano ed è anche un attacco al capitalismo imperante in America che aveva ridotto alla fame miglia di persone…

Pietro Marcello ha dichiarato di aver girato Martin Eden: «In stato di grazia, con un gruppo di lavoro che è diventato come una famiglia. Abbiamo scelto di traslare la storia a Napoli perché è una città di mare, come la San Francisco del libro, ma noi volevamo portare la storia nel Novecento europeo. Napoli è un laboratorio all’aperto, una città accogliente e tollerante in cui non si può che essere disponibili all’imprevisto e all’imprevedibile, come mi ha insegnato il documentario». Secondo il regista campano, Martin è «un personaggio negativo, che perde il contatto con la realtà e si autodistrugge, un po’ come Michael Jackson o Fassbinder, artisti che sono stati in modo diverso vittime del loro successo»…

c’è tanto Pietro Marcello: in Martin Eden troviamo molto dell’ottimo La bocca del lupo, ma anche di Bella e perduta. Il regista casertano ha fatto ricorso a molti materiali di archivio con un montaggio contrappuntistico – alcuni realizzati dallo stesso Marcello – Una scelta fatta per raccontare la grande storia, per raccontare il Novecento tra pregi e difetti.
Dall’apertura con Errico Malatesta, tra i principali teorici del movimento anarchico, ai parallelismi con poeti rivoluzionari come Vladimir Majakovskij e Stig Dagerman: Pietro Marcello segue una strada ben precisa per raccontare il personaggio e tutto ciò che gli sta intorno. Esemplare in tal senso il ruolo di Carlo Cecchi con il suo Russ Brissenden, un semi-anarchico cinico e disperato: è lui il principale interlocutore di Martin Eden ed è lui a spingerlo verso il socialismo. Poi lo spaesamento e il nichilismo individualista, l’infelicità come unico stato d’essere. Degno di nota il lavoro dei due montatori Aline Hervé e Fabrizio Federico, come del resto la grande varietà del commento sonoro a cura di Marco Messina e Sacha Ricci. Pietro Marcello si conferma uno dei cineasti più originali in circolazione: una regia variegata ed un racconto personale, fuori da ogni schema.
Il film della maturità, un’opera poetica che entra dentro lo spettatore e lo conquista anche grazie ad un Luca Marinelli in stato di grazia. Da non perdere.

tutto in questo film sembra magnificamente sbagliato, perché Pietro Marcello si rifiuta di ricostruire un’epoca precisa. Televisori da boom economico sono affiancati ad abiti da primi Novecento, truppe fasciste sono mostrate dopo che il protagonista cammina per strada accanto a persone vestite come nel nostro presente. Ci sono sostanzialmente tutte le epoche del Novecento italiano insieme, schiacciate e mescolate per arrivare a un non-tempo; l’affermazione più forte sulla storia sempre uguale del nostro paese, caratterizzato dai medesimi atteggiamenti, cent’anni fa come oggi.
Qui sta l’incredibile intuizione: prendere un romanzo con una trama non vicina alla nostra cultura, fondato sul rifiuto del fatalismo e l’affermazione che ognuno è artefice del proprio destino, che tempo e volontà possono ribaltare condizioni avverse, che duro lavoro e abnegazione vengono premiati, e dargli un afflato italiano più che una vera contingenza italiana. Aver trovato la maniera in cui una storia simile possa dire qualcosa riguardo un popolo a cui non appartiene è il vero traguardo.
Una colonna sonora molto armoniosa, da romanzone americano anni Cinquanta, contribuisce a unire quello che vediamo con la provenienza anglosassone all’insegna del cinema classico, anche se questo film classico assolutamente non è. Ma lo stridore tra immagini e musica risulta misteriosamente piacevole…

Il Martin Eden di Marcello (e del suo cosceneggiator Maurizio Braucci) non abita più a San Francisco, ma in una Napoli e in un’Italia sospesa e spaccata tra miseria e nobiltà, tra cenciosità e lussi borghesi. In un tempo indistinto che mescola ere e passaggi storici, con avantindietro tra primo Novecento, anni Trenta e Quaranta (forse), anni Cinquanta e Sessanta. Senza però andare oltre quella soglia temporale. Fermandosi, m’è parso, alla vigilia del gran miracolo economico che stravolse l’Italia, che innescò un’irreversibile mutazione antropologica, come avvertì e lamentò Pasolini. Pietro Marcello, che ne sia o meno consapevole, appartiene a quel drappello di nostri cineasti che non possono non dirsi pasoliniani (Claudio Giovannesi, per citare un nome), per come si ostinano a cercare, alcune volte trovandola altre rimpiangendola, l’Italia vitale, triste e allegra, povera e innocente prima della caduta nell’uniformità globale e nel consumo di massa. Perché abbia scelto Martin Eden di Jack London come canovaccio e grimaldello per penetrarla, ricordarla, riproporla anche feticisticamente suona quantomeno paradossale, vista la distanza cultural-antropologica del romanzo. Ma ammetto che l’operazione pur bizzarra funziona molto, molto bene per gran parte del film, quando i materiali utilizzati da Marcello – videodocumenti d’archivio, residui ancora reperibili dell’Italia preboom, paesaggi italiani (anche umani) sopravvissuti alla grande distruzione-modernizzazione, tracce narrative di immediata derivazione londoniana – si fondono miracolosamente nonostante la loro eterogeneità e incongruità in puro cinema, in flussi di immagini sature di senso, risonanze, suggestioni. Ma è un esercizio acrobatico a continuo rischio caduta, e qua e là le cadute ci sono. Allora Martin Eden rivela le sue fragilità strutturali, l’insieme si disaggrega nei suoi elementi e il viaggio spazio-temporale diventa virtuosismo autoreferenziale, celibe…

Martin Eden narra la vida de su protagonista. Pero no es una biografía al uso. Por supuesto que nos cuenta la historia del personaje, pero la cámara de Pietro Marcello presta especial atención a su entorno. Desde las calles de los barrios pobres de Nápoles a los decadentes palazzos burgueses. Siempre con ese estilo realista que le caracteriza. Pero esas imágenes naturalistas que reflejan la peripecia de su protagonista son interrumpidas de forma sorprendente y sugerente por imágenes de archivo, no necesariamente relacionadas en el tiempo o en el espacio, pero sí en su fondo con la acción de la película, dando como resultado una combinación mágica y evocadora.



…Visto che gli italiani di oggi sono tanto prodighi di lodi ai registi sperimentali e pronti ad andare in estasi per la favola anticapitalista del povero straccione che tutti i ricchi disprezzano e perfino i suoi amici proletari commiserano, ma che alla fine è migliore di tutti e resta disperatamente solo anche e soprattutto dopo aver raggiunto il successo, perché come l’Albatros di Baudelaire vola troppo in alto per i comuni mortali… visto tutto questo e vista l’incredibile attenzione riservata a un regista che usa il metodo del cosidetto “montaggio a contrappunto”, che è antinaturalista e astratto, che mescola generi e situazioni a piene mai e gode nello spiazzare lo spettatore, non rispettando neppure la più elementare cronologia… ecco visto che il pubblico è così maturo dimostrando tanta intelligenza e tanta capacità di capire, allora come mai il sullodato pubblico non scende in piazza compatto, bruciando gli studi televisivi che proiettano per l’ennesima sera Abbronzatissimi e Piedone lo sbirro a intontire lo spettatore con un’overdose di pubblicità demenziale che manco il metadone a manetta la caccerebbe mai via dalle vene? E come mai non si gridano slogan come “Prima serata libera!”,“Aridatece Bergman e Fellini!” oppure “Siate realisti: chiedete l’impossibile”? E anche senza sognare eccessivamente, perché tutti questi saccenti critici che sbavano di fronte ai giovani disprezzati dai potenti e schiacciati dalle “magnifiche sorti e progressive” degli opposti neoliberismi non esigono, con minacce di sciopero della vista, la proiezione del Giovane meraviglioso di Martone ogni sera che Dio comanda? Già, perché, senza dovere andare peregrinando per i sette mari come Martin Eden, la Napoli adottiva di questo eroe yankee è la stessa che ha adottato l’ altro giovane meraviglioso scrittore che tutti rifiutavano, quel Leopardi che Martone ha portato sulla scena e in particolare nei vicoli dei Quartieri Spagnoli con un’audacia, una fermezza, una bravura superlativa, da far impallidire ogni teoria del “montaggio a contrappunto” e ogni critico filisteo che prima chiagne e fotte mattina e sera ma dopo una onorata carriera di leccapiedi si mette le penne del pavone e diventa improvvisamente un collega di Truffaut sui Cahiers du cinéma che stravede per il cinema sperimentale. Cosa dire poi del meraviglioso Vincere di Bellocchio, che mette a fuoco così bene che Mussolini era un Mostro peggio del Mostro di Dusseldorf e viene per questo sonoramente snobbato da un volgo disperso che nome non ha, che però si ringalluzzisce subito quando il primo pennivendolo mediocre e ignorante sulla piazza sforna un volumone bric-à-brac, un mattone pieno di errori, smarronate, confusioni e scemenze sullo stesso tristo «Pirgopolinice (di Plauto) con le gambe a squadra», facendolo passare per una specie di Harrison Ford alla ricerca dell’arca perduta, un avventuriero un po’ ribaldo ma in fondo tanto simpatico, come tutti i malandrini del nostro adorabile strapaese?
Ecco se queste domande trovano ricetto nei miei sempre più scarsi lettori, allora potremo vederci in pace Martin Eden che è senza dubbio un bel film (anche se la fine è un po’ incasinata e confusa) e dare i giusti onori a un regista molto bravo come Pietro Marcello, senza paura che troppe lodi e troppa carità pelosa lo possano trasformare in un genio compreso, una figura tanto cara al nostro inossidabile, piccoloborghese, neodannunzianesimo straccione, il quale pensa ossessivamente che l’eroe sia solo il bel tene-o-broncio e non sa nulla dell’eroico eroe per caso che per caso sorride con un triste sorriso a chi è come lui, a chi non ha niente da perdere, neppure le sue catene, come la leopardiana Teresa Fattorini «assai contenta di quel vago avvenir che in mente aveva».

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